Inno alla gioventù

Preparando una lezione di lirica greca sui frammenti elegiaci di Mimnerno per i miei studenti di quarta e rileggendo il testo sulla vecchiaia contenente la nota similitudine delle foglie, riflettere su certi canoni e certe convenzioni letterarie non è forse del tutto inutile.

Da giovani si scrive con fierezza e baldanza, si dice. Il giovane è quello che vuole spaccare il mondo, anche quando scrive, si legge spesso. Poi si cambia, si sostiene: si conviene troppo leggermente sul fatto che alla baldanza e alla fierezza si sovrappongano piano piano, con la stessa parsimonia di tempo con cui incanutisce il pelo, il lucido raziocinio e anche una patina di malinconica ironia. Questo è quanto comunemente si legge e si sostiene. Questo è quanto generalmente si tramanda da secoli. Ma non è così che va impostato il problema, anche se non siamo certamente qui a negare che quanto sostenuto dai più possa accadere nella vita.

Siccome è proprio questo avverbio ‘generalmente’ che mi urta, siccome è proprio dall’errato uso di questa parola da parte di chi vorrebbe che ‘generalmente’ significasse ‘assolutamente’ che viene questo mio malessere, e siccome da tempo sostengo che è proprio il generalizzare che rovina tutta l’immensa e variegata bellezza della vita, che è resa interessante proprio dalla differenza e qualche volta anche dall’oltraggio alla regola generale, alla convenzione costituita, al canone più o meno dogmatico, ecco che anche la considerazione sul tono della scrittura andrebbe condotta con maggiore cautela e soprattutto con una maggiore attenzione ai diversi casi degli individui, dei contesti in cui sono attori e della loro condizione di vita, perché mai come quando si discute di espressione e di comunicazione è vero che tutti siamo diversi, perché nessuno reagisce alle sollecitazioni del contesto allo stesso modo. Non è certo una scoperta, ne sono consapevole, ma ripeterlo non nuoce, vista la forza con cui queste malsane convenzioni tuttora resistono.

E dunque la scrittura? Ecco allora che la scrittura, quando è opera di un’età matura, finisce per assumere le più diverse sfumature, soprattutto se si considera il contesto in cui è stata vissuta l’età precedente. Non ci sono regole, non ci sono canoni, non è lecito stilare alcuna generalizzazione. Mai come oggi mi sento fiero e baldanzoso quando scrivo. Perché? Perché sono un ribelle? Li adoro e li invidio qualche volta, ma non credo sia la ragione. Perché rifiuto ogni generalizzazione? Sì, è vero, ma non credo sia neanche per questo. Perché rifiuto le regole costituite? Mi piace farlo, lo ammetto, è un’innata pulsione che si manifesta in me soprattutto se mi sta antipatico quello che le ha fissate, ma non è nemmeno questa la motivazione. E allora?

Credo che sia sufficiente riflettere su un dettaglio per cercare una risposta che possa avvicinarsi al vero. Quella che abbiamo chiamato la fierezza e la baldanza della gioventù non ha età. Si può raggiungere in qualunque momento. Cambia solo il modo in cui si esprime. Concentriamo la nostra attenzione sulla scrittura e non divaghiamo. L’atto di scrivere risponde quasi sempre al bisogno di tirare fuori da dentro e di liberare dalla catene parole che altro non aspettavano. Si può realizzare l’obiettivo in tanti modi. Con il maturare, con il passar degli anni, dipanandosi lentamente il gomitolo della vita attraverso le più varie peripezie, questi modi, che nella scrittura sono i toni e gli stili, sfuggiranno sempre ad ogni schema e non tollereranno mai di essere incasellati, perché quelle peripezie saranno sempre uniche e originali, come irripetibili e individuali saranno i contesti in cui sono maturate.

Esiste poi un caso del tutto speciale ed è quello di chi sente il bisogno ad un certo punto di esprimere liberamente quello che in gioventù non è riuscito a comunicare, quello di chi trova soltanto in età matura quella forza che prima è mancata, quello di chi soltanto dopo anni e anni di letture e di confronto con testi altrui trova l’ardire di comporne di propri. Come potremmo non chiamare gioventù la fase di rinnovamento che questa persona vive, anche se la scopre soltanto quando della gioventù anagrafica vede il treno allontanarsi e svanire lontano tra le nebbie? Va via un treno, partirà e scomparirà alla vista, esattamente come quella vista e quei sensi s’indeboliranno, esattamente come le forze del corpo perderanno il vigore fisico, ma non svanirà mai la forza interiore della vita, quell’energia di spirito che tanti attribuiscono alle più svariate ragioni. La forza spirituale, sì, qui è la risposta. La forza spirituale non solo non ha età, ma può assumere gagliardia proprio mentre il vigore dei nervi scema. Non dimenticherò mai la forza con cui mio babbo, in punto di morte, afferrava tra le sue mani le dita delle mie, comunicandomi in quel momento una forza senza dubbio superiore alla mia. Un treno è partito. A quel treno ne seguirà un altro e chi ha fiducia in questa forza lo prenderà al volo con quella baldanza e quella fierezza che prima non aveva trovato, o perché prima non ne aveva avuto le occasioni, o perché prima non aveva avuto l’ardire, o perché prima non si era sentito all’altezza del compito o per quelle mille e mille altre motivazioni che ci rendono tutti mille e mille volte diversi e impossibili da incasellare in una tabella.

E di me cosa dovrei dire? Se vi può interessare come conclusione, scrivo questa riflessione proprio perché in questi giorni sto tirando fuori dal classico cassetto scritti di varia natura composti in età adolescenziale e in gioventù. E sono una scoperta continua. Saranno acerbi il lessico e la forma, ma non l’energia vitale che li ha fatti nascere. Ebbene: non trovo una forza interiore diversa; se c’è cattiveria è la stessa cattiveria di oggi; se c’è malinconia è la medesima malinconia di oggi; e il fine che allora esortò a scrivere è lo stesso che induce oggi a rendere noto e pubblicare. I temi sono diversi soltanto perché naturalmente diversi sono i contesti di vita, diverse le occasioni, diversi gli incontri, diverse le relazioni, diversi, perché no?, gli strumenti stessi e i codici della comunicazione. Ma i toni sono esattamente gli stessi. L’entusiasmo, inteso alla greca come ispirazione quasi mistica, profonda, di natura interiore, è il medesimo di oggi.

E allora, su, diamo una spallata alle convenzioni! Con buona pace di tanti vecchi brontoloni e di Mimnermo, di cui per fortuna altro era ammirato nell’antichità e non quel che a noi è giunto dal naufragio dei secoli, mi piace pensare, e mi piace scriverlo con baldanza e fierezza, che la scrittura è sempre opera di diversi stadi e diversi aspetti di una stessa gioventù.

Destini

Tutti siamo stati a scuola, più o meno. Tutti ricordiamo qualcosa di quegli anni, più o meno. Giovanni non ricordava più o meno. Ricordava tutto nei minimi dettagli. Soprattutto alcuni anni della scuola. E li ricordava bene. Aveva conservato solo un amico di quegli anni. Era proprio un ex compagno di classe. Si chiama Simone. Ed ora insegnava.

Le classi scolastiche, per chi con un po’ di esperienza le conosce bene avendole vissute da tutte e le due le parti della barricata, come gli ricordava proprio Simone, sono dei gruppi in cui ci può essere di tutto, ma di solito c i sono due campioni della condizione umana che non mancano mai in quei gruppi: lo sfigato, che è quasi sempre maschio e oggetto della comune denigrazione, e la bella delle belle, oggetto del comune desiderio, che è quasi sempre femmina. Fin qui nulla di particolarmente eclatante, se non per un particolare che diventa di una certa importanza soltanto con il senno di poi, ossia per il fatto che, mentre per colui che si fosse trovato nella prima categoria tutto sarebbe stato maledettamente più difficile, tutte le porte si sarebbero invece aperte quasi da sole per quella che si fosse trovata nella seconda categoria. Ma anche in questo, si dice, non scopriamo certamente l’acqua calda. Le cose, invece si vanno a complicare un po’ se lo sfigato della classe si va innamorare proprio della bella della classe. Allora l’intrigo si fa interessante. Anche perché in questo caso lo sfigato, alla resa dei conti, tale non fu nella vita, mentre per la belle delle belle le cose non andarono come da copione e come quasi tutti allora si sarebbero attesi.

Il fatto capitò a Giovanni Stramba, innamoratosi di Stefania Venturini, in terza, nella scuola media di Castelbianco all’imbocco della valle. Siamo in una di quelle tante cittadine dell’opulenta provincia nostrana, ricca di commercio e artigianato e tante piccole imprese. Giovanni era figlio unico di un tecnico specializzato, che lavorava, con uno stipendio da non lamentarsi, come ex dipendente, poi divenuto socio, di una ditta di impianti di riscaldamento e climatizzazione, e di una collaboratrice scolastica di quello stesso istituto frequentato da Giovanni, che oltre alle medie comprendeva anche le elementari e la scuola dell’infanzia. E Gio, quella scala, l’aveva percorsa tutta: asilo, elementari, medie. La mamma era affetta da una malattia neuromotoria degenerativa e la casa era in gran parte sulla spalle del babbo, che aveva un discreto aiuto da Giovanni. Oltre a non essere certamente un Adone, piccolo di statura e un po’ sovrappeso per eccesso di patatine, oltre ad essere balbuziente a tal punto che non fu possibile correggere il difetto (per quanto alcuni sostengano che lui non volle farselo correggere e un giorno persino ruttò in faccia alla logopedista per dispetto, mettendo fine per sempre alla noiosa serie di esercizi), Giovanni aveva anche un altro neo imperdonabile: era infallibile dalla lunetta nelle partitelle di basket che si giocavano nelle ore di educazione fisica. Forse il contropiede non era proprio la sua specialità, perché non amava faticare per correre, forse il recupero sotto canestro in difesa non lo era perché la mamma si era dimenticata troppi centimetri, fatto sta che a cercar fallo in attacco e a tirare dalla lunetta era un vero mostro. Un cecchino infallibile. Sì, propio lui, Giovanni, il nerd più nerd che si possa immaginare, il secchione, l’orso che nell’intervallo restava sul banco a studiare, il ragazzo un po’ cicciotto, quello che arrivava e usciva sempre da solo da scuola. “Oggi abbia-abbia-abbiamo vi-vinto pro-pro-prio grazie m-m-me”: erano le parole con cui ogni volta cercava inutilmente di convincere la prof di educazione fisica di quella verità che neppure lei mai aveva voluto ammettere. Ma mai nessuno, non solo lei, l’avrebbe mai ammessa. Quel tipo alto un metro e un tappo, fatto a forma di botolo, e che parla in modo buffo non può far vincere una squadra in una partita di pallacanestro.

Quanto alla balbuzie, che gli aveva procurato, tra i tanti, il più odioso dei soprannomi, Gio Bababà, la mamma avrebbe insistito per la cura, ma il babbo era arrivato alla conclusione che l’accanimento terapeutico, dopo tanti anni di modestissimi risultati e una collaborazione quasi nulla da parte del diretto interessato, avrebbe potuto avere soltanto un contraccolpo negativo sulla psicologia di un adolescente sensibile come in realtà era Giovanni, seriamente preoccupato più per la mamma che per il propio bababà.

Se vi dico che Giovanni rimase cotto di Stefania quando la ragazza invitò tutti i compagni al suo tredicesimo compleanno a casa sua, vi assicuro che quella che vi racconto non è la versione moderna della storia del topo di campagna e di quello di città. La storia è di quelle che hanno un loro perché, ma un perché insolito, un po’ speciale. Può essere una storia naturale, forse anche scontata e noiosa per qualcuno, può essere una storia triste, può esserlo senza se e senza ma, ma è una storia che merita, perché alla fine Simone da quella vicenda dell’amico Gio ebbe una bella lezione, una di quelle che non si dimenticano.

Insomma, vi ho già detto che cosa successe. Si era sotto Natale. E sotto casa di Stefania il clima natalizio si sentiva tutto. Eccome. E tutto era come da copione: il centro del paese era addobbato e illuminato e pieno di gente che si lamentava di regali fatti perché dovuti e non desiderati, i negozianti mai abbastanza felici degli incassi, il parroco era arrabbiato e tuonava parole inutili contro il consumismo che rovinava lo spirito del Natale, il cinema pieno come non mai di film per persone il cui requisito era un quoziente intellettivo zero, la neve che, chissà perché, esisteva solo nelle pubblicità in televisione, la mamma che altro non aspettava che l’annuale rito di vedere con il marito Una poltrona per due, il babbo che sicuramente avrebbe lavorato fino a tardi, così almeno diceva. Anche a casa di Giovanni ovviamente si era sotto Natale, ma nulla era diverso dagli altri giorni, se non per il fatto che i dolci, che faceva il babbo perché la mamma stava ormai perdendo le forze per cucinare, erano i più buoni del mondo, proprio perché avevano il sapore di un sacrificio che (loro tre non lo sapevano o forse, se anche l’avessero saputo, mai l’avrebbero sbandierato su facebook) avrebbe meglio di tante lucine e tanti addobbi espresso quello che si chiama lo spirito del Natale. Insomma, tutto come in decine e decine di altre famiglie.

Ebbene, il compleanno di Stefania Venturini … Durante la festa si mangiò e si ballò. Erano quelle le due attività possibili. Giovanni stava seduto su una sedia. Non avendo nessuna voglia di ballare, secondo la sua versione, ma in realtà non avendo nessuno che lo considerasse, insomma, tra le due possibili attività, ballare e mangiare, non scartò certamente la seconda, anche perché davvero notevoli erano le leccornie che offriva il lauto buffet, proprio lì accanto alla sedia su cui era strategicamente e non affatto casualmente appollaiato. E proprio mentre aveva appena risolto l’indecisione tra una pizzetta con le acciughe e l’ennesimo salatino ai würstel di cui era ghiotto e che anche il babbo era diventato per forza di necessità bravissimo a preparare, Stefania gli si avvicinò e gli prese le mani tra le sue dicendogli: “Su, Gio, balliamo insieme?” Giovanni, dopo aver deglutito tutto intero il salatino ai würstel su cui era caduta la scelta e che aveva appena addentato, cercò di trovare le parole per rispondere: “Va be-be-be …..” Niente da fare. “Va bene, lo dico io,” disse Stefania e lo tirò a forza verso di sé. Lo scombussolamento che Giovanni sentì dentro di sé fu qualcosa di inebriante. Il volteggiare di Stefania, nella sua bellezza di ragazza cui non mancava nulla di quello che poteva piacere a un ragazzo di tredici anni, a cui forse invece mancava ancora tutto, ebbe su di lui l’effetto di una piattaforma di lancio su un missile. Lei girava di qua e di là facendogli immaginare mondi e lui volava in orbita con quel maledetto salatino, ingoiato alla disperata, che non ne voleva proprio più sapere di andare giù.

Come le cose andarono Giovanni non avrebbe mai più ricordato. Glielo raccontò il giorno dopo Simone, che era lì presente, invitato lui pure. A Giovanni venne data una canna senza che lui sapesse neanche che cosa fosse. La fumò. Forse qualcosa di strano era successo, dal momento che la sua memoria era andata in tilt. Fatto sta che, quando Stefania per la seconda volta lo portò in mezzo alla sala a ballare con la musica che era notevolmente salita di volume, Giovanni, del tutto in balia di forze a lui oscure, perse in un attimo ogni freno e le diede un bacio. Le tre righe rosse del ceffone che ebbe in cambio sarebbero rimaste per giorni sulla guancia destra, dalla forza con la quale si era stato stampato sopra. Lo schiaffo fu dato seriamente? Stefania rideva. Gio ricordava solo quello. La ragazza rideva da spanciarsi, dopo avergli dato lo schiaffo. Lì tutto nacque e lì tutto sarebbe finito, se quel marchio non gli avesse procurato da quel giorno, come se qualcuno avesse sentito la mancanza di argomenti per denigrarlo ulteriormente, il nomignolo stile pellerossa di Toro Guancia Rossa, che si aggiungeva a Palla di pelo (era rotondetto e un po’ più peloso della media) e al più odioso di tutti Gio Bababà, odioso naturalmente perché non esiste nulla di più odioso di ciò che colpisce quello di cui tu soffri di più. E Giovanni per la sua balbuzie soffriva davvero tanto, benché fosse diventato bravo a non darlo a intendere. Quella sera non avrebbe dormito, per Stefania ovviamente, perché la memoria del ceffone si sarebbe risvegliata soltanto con il passare delle ore e con l’aiuto di Simone il giorno dopo, nel corso della telefonata che ridiede vita ai frammenti sparsi che vagavano ancora senza meta e non riuscivano a trovare un loro posto nella memoria devastata di Giovanni.

Simone e l’amico avevano ricordato l’episodio della loro adolescenza seduti nello studio di Giovanni. Simone era l’unico dei compagni di classe con cui Giovanni in quegli anni lontani avesse intrattenuto rapporti. “E che fi-fine ha fa-fatto qu-quella Ste-ste-stefania?” chiese Giovanni con la sua balbuzie aggravatasi sensibilmente con gli anni. Simone guardò l’orologio, come per cercare di prendere tempo. Giovanni evidentemente proprio non sapeva nulla. Era stato lui a vedere Simone nella sala con il numero in mano in attesa di essere chiamato alla cassa. Lo aveva riconosciuto e gli aveva detto di venire a fare due chiacchiere con lui, che aveva un po’ di tempo libero. Simone rimase allibito quando Giovanni lo fece entrare in un grande studio con la targhetta “Direttore” e lo fece accomodare su una poltrona in pelle dal lato opposto di una scrivania in cristallo sicuramente di ricercato design. Dunque Giovanni Stramba era il direttore della sua banca e lui neanche lo sapeva. Inizialmente in quel ruolo di cliente nello studio del direttore della sua banca, suo ex amico e compagno di scuola di tantissimi anni prima, Simone si era trovato un po’ a disagio e in imbarazzo. Le situazioni avevano assunto una tale velocità in quei minuti che i pensieri erano stati superati e Simone non era riuscito a porsi domande, né tanto meno a darsi risposte. Poi Giovanni, dimostrando un irriconoscibile savoir faire, usando eleganza e cortesia sobrie e non affettate, lo aveva messo a suo agio, gli aveva fatto offrire un caffè dalla segretaria e lo aveva lasciato parlare. Ma quella domanda era stata un colpo duro da digerire per Simone. Giovanni se ne accorse e disse: “Se-se non vu-vuoi pa-parlarne, se c’è qua-qualcosa c-c-c- …. – occorse un respiro per poter procedere – che non de-devo sa-sapere, n-n-non fa nu-nulla. P-p- … – altro respiro – Parliamo d’altro, Si-simone.”

“No. Non sono segreti. Sono soltanto vicende di quelle che fanno male, ma non sono segreti. Anzi, parlarne credo faccia anche bene. Credevo che tu sapessi. In effetti, sei stato fuori tanti anni per la tua carriera. Stefania ed io ci mettemmo insieme in quarta superiore al liceo scientifico. Tu andasti al classico e ci vedemmo meno. Siamo stati insieme per tutta l’università e anche dopo. Poi lei iniziò a frequentare compagnie nuove, un po’ alternative, rompendo quasi del tutto i rapporti con la sua famiglia, che nel frattempo si era sfasciata: i genitori si separarono, la madre pensò solo a mettere le mani sulle cospicue ricchezze del padre, che presto divenne una specie di larva d’uomo e finì in una casa per etilisti cronici in preda alla depressione. Piano piano Stefania diventò strana, iniziò a fumare roba sempre più pesante e ci perdemmo di vista. Avevo già da tempo capito che tutto si stava spegnendo, ma non volli rassegnarmi. Ne ero innamorato come il primo giorno. E invece le cose non andarono come nei romanzi rosa, caro Gio. Un giorno la trovai sul giornale: era uscita gravemente ferita da un incidente stradale alle quattro del mattino, piena di cocaina, alcool, insomma completamente sballata. Quello che guidava e che me l’aveva portata via morì sul colpo. Era più fatto di lei. Stefania morì dopo due giorni in ospedale. E tu invece, il vecchio Gio Stramba, … beh, vedendo tutto questo, cosa dovrei dire adesso?”

Giovanni non commentò e disse a Simone: “Mi di-dispiace tanto. E t-ti chiedo scu-scusa per la do-domanda. Non era m-mia intenzione.” Si alzò dalla sedia. Chiamò la segretaria che gli ricordò che mancavano dieci minuti alla riunione. Simone capì di doversi alzare. I due si scambiarono i numeri di telefono intenti a riannodare i legami. Si salutarono e Simone uscì dallo studio. Mentre stava uscendo in strada gli arrivò un messaggio da Giovanni:

“Credo di sapere a che cosa stai pensando adesso, dopo quel tuo ‘e tu invece.’ … Non fidarti mai delle apparenze, Simone. Una buona carriera non cancellerà mai il passato. Hai visto foto di belle famiglie con bambini in vacanza nei mio studio? Non ce ne sono. Hai visto foto di momenti felici della mia vita? No, perché la mia felicità è tutto quello che hai appena visto. Vieni a trovarmi quando vuoi. Mi farà sempre piacere. Oppure usa questa chat. Che invenzione le chat! Qui sopra almeno Gio Bababà non avrà bisogno del doppio del tempo per farsi capire.”

Dietro l’ironia c’è sempre qualcosa da svelare, pensò Simone. L’ironia spesso fa sorridere, ma poi potrebbe far pentire di averlo fatto. Simone aveva sorriso, ma non non aveva alcun bisogno di pentirsi di aver sorriso.

“Va bene, Gio. Ma io non ti ho mai chiamato così.”

“Lo so bene, amico mio.”

© 2019. Stefano Tramonti

La panchina sull’alpe

Con tutta l’energia del suo lento crescere il sole si eleva di picco in picco, di giogo in gioco. Si apre varchi tra le rocce regalando alle cenge e ai pianori la sua luce, con mille cautele, come un babbo che dà la paghetta a un figlio.  E con il sole si alza anche il vento. Muove le fronde. Libera dall’ombra specchi di luce. Infonde vita a spazi e rivela oggetti prima informi nel buio. Porzioni di prato rallegrate dai botton d’oro, belli ma velenosi, prendono colore e rilasciano insieme all’erba l’umidità della notte. I raggi si allargano sul pianoro. La loro luce elimina ogni segreto. Uno di questi raggi punta diritto una panchina. Il giovane esce dalla tenda. La vede e la riconosce. La stava cercando, quando il buio era calato e il suo corpo stanco gli aveva detto di fermarsi ai margini di quell’erto pendio boscoso lentamente percorso nel tardo pomeriggio del giorno prima. Dopo aver lasciato sfollare i turisti dai sentieri, era rimasto lui il padrone della sua memoria. Quella panchina era in tante foto di lui con il babbo e la mamma, quando era ancora bambino. La vuole rivedere anche quest’anno. Ha una storia, come tanti oggetti. Una storia speciale di sicuro, perché ogni oggetto è speciale quando per una persona assume un significato speciale. Il babbo gliel’aveva dato un giorno. Una storia forse  anche triste, se la si vuole intendere in un certo senso. La tristezza è uno dei sentimenti più relativi: alcuni la considerano negativa e fanno di tutto per allontanarla, altri la cercano e in essa trovano anche conforto in certi momenti. A lui non interessa se la storia della panchina sia triste o no. È speciale. È la memoria. E questo basta.

Non era uno che amasse le soste. Se decideva di compiere un’escursione, solitamente camminava finché aveva energia per procedere. Ma quella panchina meritava il ruolo di eccezione e l’eccezione, si dice, dovrebbe confermare la regola. Perché, appunto, aveva una storia per lui. Altri potevano passare e non guardarla nemmeno. Lui no. Il babbo un giorno l’aveva vista sverniciata dal passare tempo. Aveva speso di tasca sua perché fosse restaurata in quel canto dell’alpe da cui s’alzava sempre un inno alla memoria della mamma. Era, infatti, la sua un’escursione della memoria. Anzi, nella memoria. E la memoria aveva i suoi riti, un po’ malinconici, tristi qualcuno forse li chiamerebbe, ma sempre da rispettare. L’onore, quello meritato, richiede questo rispetto. La panchina costituiva parte importante del rito. L’aveva cercata fino all’imbrunire. Poi tutto il pianoro si era oscurato e il tremulo, acuto canto dell’allocco era stato il segnale che indicava per lui il momento della sosta, per altri quello della caccia.

Tanti anni prima, quando era ancora alle soglie dell’adolescenza, su quella panchina il babbo aveva deciso di mangiare, prima di iniziare il lungo e ripido sentiero sul versante esposto che portava all’attacco della ferrata, la prima per lui appena dodicenne. Era emozionato allora. Lo stesso sentimento albergava adesso nel suo cuore. Alla fine del sentiero che si dipartiva da quello principale c’era una malga abbandonata, che un tempo era stata anche un rifugio. Lo era allora quando ci passò con il babbo. Ormai solo una piccola stalla per poche mucche in alpeggio estivo. Poco più su coltivazioni di mirtilli. Da un po’ di tempo fruttavano più del latte delle mucche, del formaggio e dello yogurt. Quando invece la malga era stata anche un rifugio, aveva un sottotetto che da giugno a settembre poteva ospitare fino a otto persone in branda ed era molto amata e conosciuta dagli escursionisti e dagli alpinisti nei mesi caldi. Il babbo e lui mangiarono soltanto un piatto di pasta, quanto fu sufficiente per riprendersi dalla lunga marcia che da fondovalle attraverso il bosco li aveva condotti all’alpe. Era necessario quel pieno di carburante per affrontare “sua maestà la roccia nuda”, come il babbo la chiamava. Dopo il pranzo il babbo vide la panchina e disse che era quello il posto giusto per un po’ di riposo. La panchina era rivolta verso la lunga serie di montagne disposte a semicerchio intorno a una conca glaciale e appuntite come la dentatura di uno squalo. Il sole, che ne disegnava in controluce i contorni da dietro, dava a tutte lo stesso colore bruno, ma ne esaltava l’originalità. Ognuna aveva il suo nome, le sue vie, i suoi eroi. Il babbo parlò come sempre di battaglie e di conquiste di cime, di guerra di trincea e di morti, tanti morti, morti a migliaia su quel pianoro dove ora brucavano pacificamente mucche e cavalli, capre e pecore. Lui ascoltava, perché la storia con le parole e le testimonianze che queste modellano plasma il paesaggio senza che ne accorgiamo. Lo sentiamo quando la fatica dell’escursione, il cui fine oggi è lo sport, ci ricorda il dolore delle marce, il cui fine era lo sterminio di un nemico che aveva la tua stessa vita, la tua stessa famiglia, i tuoi stessi sentimenti, i tuoi stessi affetti. Allora tutto diventa storia. E lo capisci quando avverti il dolore, perché la storia è vera e autentica, non libresca e scolastica, quando è esercizio di dolore, quando, camminando sulle sue tracce, senti il cuore balzare in gola, quando certi pensieri ti fanno riflettere sul destino; e ti chiedi perché il nemico poteva starsene con le sue mitragliatrici appostato lassù, quando invece le nostre fanterie dovevano invece essere mandate con migliaia e migliaia di vite umane allo sbaraglio contro quelle postazioni, inaccessibili come nidi d’aquila. La famosa carne da macello, o da cannone. Il babbo rifletteva, perché il suo babbo, il nonno, lì c’era stato, aveva combattuto per obbedire agli ordini; e quando faceva vedere le foto del nonno in divisa, che lui appena ricordava, quella manica destra vuota nella tasca della giacca, quel pantalone destro ripiegato e infilato sotto la cintura bastavano a capire l’entità del prezzo pagato dal corpo; quella stampella tenuta stretta con la sinistra e che lo sosteneva sotto l’ascella teneva tenacemente in piedi un corpo fiero, che significava da solo una storia che non aveva alcun bisogno di parole. Era quella la ragione delle escursioni per il babbo. Ogni passo era un viaggio a ritroso. Intendeva tramandare a lui quel sentimento. Chissà se il babbo sapeva anche che il succedere delle generazioni avrebbe fatto sì che il figlio non avrebbe mai vissuto allo stesso modo, ciò che già lui, figlio di un soldato, viveva diversamente dal suo babbo. Eppure quel luogo viveva di altro e il sentore che quelle parole del babbo fossero diventate un diversivo e che avessero un intendimento quasi esorcistico non glielo toglieva dalla mente nessuno. Il vero fine era quel cippo.

La sera prima, dopo che ebbe mangiato, era passato un piccolo gruppo di escursionisti di ritorno dalle frange che lo attendevano. Avevano visto la panchina. Ma il loro sguardo era andato oltre, posandosi sul cippo che si trovava vicino ad essa. Erano stranieri e cercarono di tradurre la scritta in italiano. Uno di loro si fece un segno della croce con la mano destra. Lui lo notò. In altri contesti forse non avrebbe compreso il significato di quel gesto e lo avrebbe ritenuto una formale convenzione. In altri momenti forse si sarebbe anche risentito. Ma in quel momento no. Lo apprezzò. Tutto lì prendeva veramente un significato speciale. 

Richiuse la tenda. Preparò lo zaino. Calzò le pedule. E fece qualche passo verso la panchina. La mente era in subbuglio. Il cuore palpitava, come sempre quando si raggiunge qualcosa che si cerca e si desidera. Su quella panchina ritornarono la parole del babbo di quel lontano giorno. Era inevitabile. Era andato lì da solo unicamente con quel fine. Per riannodare fili con un passato che aveva un universo sconfinato di informazioni, di emozioni, di intermittenze del tempo da rivelargli, se ascoltato nelle giuste condizioni. Il babbo lo aveva invitato a guardare le montagne. Ma lui era stanco. Lo aveva ascoltato poco. Il babbo se n’era accorto. E lui allora aveva appoggiato la testa sul suo fianco e aveva chiuso gli occhi addormentandosi. Ma il babbo parlò lo stesso. E parlò di nuovo alla fine della ferrata, quando una di quelle cime ritagliate in controluce fu da loro raggiunta. E parlò ancora a casa, al ritorno. Parlò della bellezza di quel paesaggio, non della tragedia della sua storia. La bellezza del paesaggio non è macchiata dal sangue dell’uomo, ma nobilitata e resa ancora più preziosa. Così lui pensava. Ma diceva anche che non esiste una cima uguale all’altra. E per questo erano ancora più preziose. Diceva che, quando ti siedi su uno sdraio in spiaggia e guardi il mare, vedi qualcosa di piatto e di uniforme; invece lì non esiste una montagna uguale all’altra. Diceva che nel mare, se vuoi vedere la differenza, devi scenderci sotto, immergerti, sprofondarti sotto la sua superficie, dove, per respirare, hai bisogno di qualcosa che la natura non ti ha dato, perché il mare la sua differenza la nasconde agli occhi di chi non la merita e rende difficile ai più ammirarla. Ma la montagna non nasconde segreti, non ti tradisce, ti fa capire subito che cosa ti aspetta. E il refolo fresco che ti farà respirare, che scenderà sul tuo corpo affaticato, sarà il premio per il sacrificio che ti offrirà, una volta giunto lassù su una di quelle cime.

Il progresso tecnologico consentiva ora di avere tutto in un cellulare. I due libri scritti dal babbo erano dentro quell’arnese tanto diabolico quanto maledettamente utile in quel momento. Ne prese uno, non a caso, e iniziò a leggere. Poi si rese conto che l’ansia cresceva e gli occhi si stavano inumidendo. Appoggiò lo zaino per terra e si sedette sulla panchina. Spense il cellulare e chiuse gli occhi. Che cosa aveva fatto? Aveva rinunciato a un dialogo con il tempo? Aveva rinnegato la memoria? Non riusciva a capire perché avesse così facilmente ceduto. Non era da lui. Il babbo non lo avrebbe mai fatto. Non voleva forse ammettere la verità? Quel libro del babbo, che lui dopo anni aveva deciso di rileggere, si era bruscamente interrotto e ad un certo punto non era più riuscito a procedere con la lettura. E non era la prima volta. Erano pagine forti da leggere. Lo sapeva. Per questo aveva scelto quella condizione per lasciarle entrare soffici nel mondo dei suoi tanti sogni frustrati da un episodio che era accaduto lì e che lì lo aveva come inchiodato per anni.

La memoria è il condimento che dà sapore alla vita: può renderla amara oppure dolce. Non importa. Va rispettata comunque, perché un ricordo ha sempre qualcosa da insegnarti su come riprendere una strada interrotta per un’immotivata paura, su come interromperne una per aver riconosciuto un errore o ascoltato un consiglio amico, su come fermarsi, sì, anche fermarsi potrebbe essere utile, come lui aveva appena fatto. E in quella sosta sentì da lassù il consiglio di riprendere quella pagina che aveva chiuso. Lo ascoltò, riaccese il cellulare, riprese il libro interrotto e lesse quella pagina letta e riletta tante volte. Fu un sabato mattina. Pioveva; e sull’asfalto del viale di città le foglie che un precoce autunno faceva scendere imputridivano tra specchi di luce illuminati dai lampioni fissi della strada e altri dai fanali intermittenti delle auto. Mentre lui era alla finestra della sua camera, il babbo entrò, si sedette sul suo letto e disse: “Siamo rimasti solo noi due. Che senso ha restare dove tutto fa solo male?” E lui rispose: “La memoria non la cancelleremo mai. Ce la porteremo dappertutto. Se oggi ci trasferiamo, tutto quanto verrà con noi; quello che il tempo ha inciso nel cuore non si cancella spostandosi nello spazio. Perché fuggire? A cosa fuggire?” Il babbo si alzò e uscì di casa. Lo vide poco dopo dalla finestra con l’ombrello in mano zigzagare tra quelle pozze che rispecchiavano luci tutte diverse. Sapeva dove il babbo si stava dirigendo. Dietro l’angolo c’era la chiesa dove la mamma andava sempre, ma dove il babbo era entrato solo dopo la sua scomparsa. Il babbo da allora ci andava tutti i giorni, a domandare che cosa? Non aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo. Era un segreto tra loro due, tra la mamma e il babbo, che in quella chiesa aveva trovato il suo scrigno. Il babbo prese una decisione sulle panche di quella chiesa. Tornò in casa e disse: “Domani si festeggia.” “Cosa dobbiamo festeggiare?” “Festeggiamo la memoria, quella di cui hai parlato tu prima.” “Perché?” “L’hai detto tu: dà il sapore alla vita e non si può sfuggirle. Oggi ho provato ad ascoltarla. Lei mi ha detto che io e te avremo un compito.” “Quale?” “Fare un sacrificio: partiremo per la montagna, quella montagna, e arriveremo lassù dove il destino ce l’ha portata via e ci ha costretti a cambiare ogni progetto.” Non aveva detto ‘lassù dove tutti e due siamo rimasti inchiodati’. Sarebbe stato troppo scontato. Ma quella era la verità.

Chiuse la pagina. Era riuscito a leggerla. Ora era rimasto solo lui a onorare quella memoria, che aveva i suoi riti, come li aveva nella chiesa frequentata dalla mamma e poi anche dal babbo. Si alzò, riprese il cammino. Ogni pesta era quella del babbo. Lo zaino era quello del babbo. Le pedule quelle del babbo. Quello era il suo rito. E la cima su cui sarebbe arrivato sarebbe stata dedicata proprio a loro due, dopo la fatica, dopo il dolore, dopo quel sacrificio senza il quale nessuno avrebbe mai il diritto di onorare la memoria. Recitare una preghiera su una tomba è alla portata di tutti, se uno lo ritiene utile e se ritiene che lo spirito abbia bisogno di quel genere di alimento. Lui non si accontentava. Aveva bisogno della sua cima da conquistare. Sentiva l’atavica urgenza e il richiamo del rito e del sacrificio. Doveva andare lassù, dove, chissà, forse un giorno gli avrebbe potuto anche stringere la mano, come lui diceva che faceva con la mamma su quelle vette.

Si alzò dalla panchina e s’incamminò. Avrebbe guardato solo al ritorno, dopo il compimento del sacrificio, il cippo con la foto della mamma che il babbo volle proprio lì. Accanto a quella panchina dove i soccorritori un giorno di tanti anni fa l’adagiarono ormai inerte, mentre le pale dell’elicottero ruotavano con un’urgenza che non aveva più alcun senso e il frastuono del rotore dilaniava, senza grazia, inutilmente, quanto già era stato sbranato e divorato dal destino. Il sole giocava con la sua luce e non un raggio raggiunse il cippo, che rimase in ombra. Si alzò dalla panchina e si sistemò sulle spalle lo zaino. Prima di lasciare il pianoro dell’alpe si voltò indietro un’ultima volta. Un raggio di sole aveva attraversato il prato. Le ultime acetoselle bianche attendevano la prossima fioritura e davano appuntamento all’anno prossimo e al prossimo rito. Pini cembri, abeti e larici erano pronti a consegnarlo al regno dei mughi, prima di sua maestà, la nuda roccia, e prima della mistica solitudine della cima dove tutti e tre si sarebbero abbracciati, come sempre. Lassù il dialogo avrebbe avuto il suo compimento e il sacrificio avrebbe dato forza a quel dialogo. Il sole girò dietro un’alta vetta. L’ombra avvolse piano piano la panchina, accompagnata da una dolce folata fresca, come la coperta sul bimbo che s’addormenta. Era atteso. Non poteva indugiare più. S’incamminò senza voltarsi indietro, con l’anima scagliata in avanti come un proiettile, verso il passato.

Fatevi un selfie, ma con un libro

Qualcuno potrà anche guardarti dall’alto in basso e dire che un libro autopubblicato è un libro di serie B. È successo a me. Succede a tanti in tutto il mondo. Chi lo dice risponde a un identikit ben preciso. Si tratta di persone incapaci di accettare sfide e di vedere i cambiamenti in atto. Leggo manoscritti da anni e do consigli ai giovani, indicando loro questa, l’autopubblicazione, come la strada del futuro. Fidatevi. Il vero libro di serie B non è questo, ma quello che arriva in libreria per quel puro atto di sterile narcisismo che gl’inglesi chiamano Vanity Press, dopo che l’autore ha sganciato migliaia di euro a editori che non si assumono responsabilità e sanno soltanto pararsi bene la parte terminale posteriore della colonna vertebrale, quella che termina con un orifizio che ha tanti nomi. Non ascoltate chi ha interessi di bottega. Pensate a voi stessi. Scrivete, ascoltate sempre i consigli di amici appassionati di scrittura, ma soprattutto leggete, leggete, leggete. Non c’è miglior scuola.

Tessere trame

Solitudine, concentrazione, silenzio. Sono le condizioni per poter leggere, mi disse un giorno un collega. Ma anche per poter scrivere, aggiungo. E non bastano attimi di solitudine, di concentrazione o di silenzio, ma occorrono ore intere per leggere, se necessario anche giornate intere, almeno per scrivere. Chi non le sa apprezzare, chi non se le sa ritagliare non sarà mai un lettore, né tanto meno riuscirà a produrre qualcosa che sappia comunicare un sentimento, un sogno, un’emozione, un battito d’ali, un fruscio d’api, una brezza che solleva un aquilone, un anelito di libertà. Dispiacerà a qualcuno sentirselo dire. Ma credo che la crisi della lettura sia dovuta anche alla difficoltà di trovare nello scorrere del nostro tempo parcelle segrete di isolamento in cui sia possibile concentrarsi in silenzio. Quando scrivo spengo il cellulare. Lo faccio di sera o nelle prime ore del mattino, oppure anche di notte. E allora non avverto lontano quell’anelito di libertà. Quanti sanno apprezzare oggi il valore di queste tre condizioni? Ho aperto un profilo, su consiglio di un editore, su un mezzo di comunicazione sociale per avere una pagina su cui diffondere quello che scrivo. Mi sento dire che è fondamentale avere un profilo su uno di questi mezzi di comunicazione che ancora chiamo nuovi, ma che, mi dicono, non lo sono più. Eppure non sto bene finché non avete risposto a questa domanda: ma voi davvero credete che chi clicca su quei collegamenti sul mezzo di comunicazione sociale, che conducono ai miei scritti su questo sito, viva davvero la condizione necessaria di solitudine, di concentrazione e di silenzio, le uniche che hanno consentito a quelle parole che legge di prendere la forma di un testo? Riflettete con calma e, se volete, ditemi cosa ne pensate. E allora, mentre voi pensate, faccio il mio mestiere e salgo un po’ in cattedra. Concedetemelo: per questo mi pagano. La parola testo viene dal participio perfetto latino del verbo che significa tessere; dal participio si forma il nome della quarta declinazione textus, che indica il tessuto in quanto complesso ma coerente intreccio di fili di stoffa, opera paziente, come quella del sarto, che intesse trame vivendo di quella lentezza e di quella ricerca di bellezza, cui anela anche chi scrive. Non credo che l’era dei mezzi di comunicazione sociale sia disponibile a fare questo passo indietro. Ma sono convinto che prima o poi qualcuno inizierà a capire quanto ha perduto rinunciando alla bellezza che solo nel silenzio, nella concentrazione e nella solitudine si può scoprire. Successivamente ci sarà una seconda fase, altrettanto inevitabile, che richiederà di uscire fuori, di divulgare e rendere pubblico ciò che hai tessuto. Ma il sacrificio occorre che sia praticato, consapevole, come da più parti si sente dire, che quel tessuto e quella trama che a te hanno richiesto ore per essere pensati, tessuti, ricamati, perfezionati e confezionati, saranno fagocitati in un secondo da chi riceverà il messaggio e spesso giudicati in un’ancor più piccola frazione di secondo. E nulla mi convincerà del contrario: per me questa è una ragione di più per apprezzare l’incomparabile bellezza di quei tre valori da cui siamo partiti.

Solitudine. Concentrazione. Silenzio.

La risata

“Ho letto tanti libri sulla scrittura e ho partecipato a tanti corsi in presenza e on line, ma, quando mi metto davanti alla tastiera, non trovo il coraggio di scrivere e, se anche lo trovo, alla fine getto nel cestino tutto quanto ho appena scritto, convinto di aver prodotto un’emerita schifezza. Credo di avere come un blocco.”

“Non sei da psicoterapia. Tranquillo. Il tuo problema è facile da spiegare e, credo, anche comune. Hai imparato l’arte, ma non l’hai messa da parte.”

“Non ti seguo.”

“I corsi sono molto utili. Insegnano ad evitare gli errori, ma hanno un difetto. Pretendono di presentare come norme e regole situazioni molto più fluide e indefinibili di quanto tu possa pensare. Occorre pazienza. E occorre anche sbagliare, perché, mai come qui, sbagliando s’impara.”

“Tu hai sbagliato?”

“Sì. E qualcosa ho imparato. Almeno credo. Ma parlami di te. M’interessa capire meglio il tuo problema.”

“Tre giorni fa ho scritto un racconto. Poi uno mi ha detto che è melenso e prolisso. Un altro che è troppo lento. Un altro che addirittura è troppo scarno, cioè il contrario.”

“Ecco, ti sei dato la risposta da solo.”

“Cioè?”

“Che bisogno avevi di chiedere pareri? I pareri dipendono dalla situazione più originale che possa esistere nella mente del lettore: la sensibilità. Ognuno di noi è sensibile a qualcosa e nessuno di noi ha la stessa sensibilità di un altro.”

“Dunque devo scrivere e pubblicare.”

“Almeno provare. Dimmi, che cosa avevi scritto?”

“Un racconto di un bambino con l’adolescenza molto difficile che finisce nel giro dello spaccio e a un certo punto si trova in un istituto minorile, dove, per la prima volta nella vita, conosce il senso dell’amicizia e la voglia di riscatto. Un racconto fondato su questa specie di paradosso: trovare l’amicizia nel posto più improbabile e riuscire anche a riscattarsi.”

“Ho capito. Hai sentito il bisogno di comunicare un sentimento molto forte. Ma non a tutti il racconto è piaciuto. Hai provato a partecipare a un concorso? Anche lì è fortuna. Dipende da quale sensibilità incontri nelle persone della commissione. Sapessi … Ho smesso di farne parte proprio perché quello che pensavo io era quasi sempre diametralmente opposto a quello che sostenevano altri. Ma il gioco della fortuna merita di essere tentato.”

“Non ho mai provato.”

“Prova. Ma dimmi! Perché scrivi?”

“Per divertirmi.”

“Ma è bellissimo quello che hai detto. E allora divertiti in un concorso. Quale divertimento più bello esiste del fare una scommessa?”

“Scrivere è una scommessa?”

“Dopo. Prima è un divertimento. Se non è un divertimento, non serve a niente. E se ti diverti a scrivere, sei già sulla strada giusta.”

“E allora? Cosa mi consigli?”

“Mandami quel racconto. Se ti sei divertito tu a scriverlo, non vedo perché non mi possa divertire io a leggerlo.”

“Alla fine allora saremo in due ad esserci divertiti.”

“Giusto.”

“E poi?”

“E poi? E poi cosa fanno due che si divertono?”

“Mah, non saprei. Forse fanno una risata.”

“Lasciati abbracciare.”

Il volo dell’aquilone

Dopo aver scritto per tanti anni racconti, una selezione dei quali ha avuto una sua vita qui sopra, è uscito il mio primo romanzo Il volo dell’aquilone. E dopo aver scritto recensioni dei libri degli altri, aver letto pagine su pagine di letteratura di tutti i paesi e di tutti i tempi, dovrei dire qualcosa del mio libro, perché, come avviene per tutti gli autori, anche a me non dispiacerebbe avere qualche lettore. Ebbene, si tratta di un romanzo che ha come protagonista una di quelle persone che oggi si chiamano speciali, per non usare parole che potrebbero essere avvertite come politicamente, socialmente e culturalmente non corrette. Giulia è speciale per colpa di una di quelle intermittenze del tempo che la costringe a vedere tutto da un punto di vista originale e non convenzionale, diverso e proprio per questo privilegiato. Il babbo di una sua amica, appassionato costruttore di aquiloni che nella sua vita assumono un significato del tutto particolare, porta un giorno le due bambine a giocare con uno di questi oggetti da lui realizzati. Ma il destino ha altri piani per Giulia e da qui inizierà un cammino nuovo, più difficile, in cui tutto, soprattutto l’amicizia e le relazioni con le persone, assumerà un significato diverso e richiederà l’adozione di un punto di osservazione del tutto lontano dalle più trite convenzioni. La vita di Giulia scorre secondo un principio che lei stessa ha formulato: è la teoria dei paletti. Le barriere, gli ostacoli, le nuove difficoltà della vita non sopportano classificazioni, né schematizzazioni, né, tanto meno, generalizzazioni. Sono di due tipi i paletti di Giulia. Alcuni non possono essere spostati e vanno guardati con rispetto, mai con paura, né tanto meno con rassegnazione. Altri invece possono essere spostati e allora costituiscono traguardi sempre nuovi, ragioni di vita da assaporare ora dopo ora, giorno dopo giorno, incontro dopo incontro. E Roberto sarà uno di questi incontri, quello che convincerà Giulia non soltanto di quanto sia vera la sua teoria dei paletti, ma anche di quanto sia facile sbagliare nel momento in cui li si assegna a questa o a quella categoria. L’amore era uno di questi paletti. Erroneamente era stato ritenuto appartenente alla categoria di quelli fissi; e invece, grazie a Roberto, si è spostato in avanti. Una storia d’amore sì, ma una medaglia che ha il suo rovescio: si tratta del dolore che dal giorno in cui la vita di Giulia si è spezzata in due avvince colui che se ne ritiene causa, il babbo della sua amica; e il dolore vissuto nel senso di colpa finisce per straziare la vita di questa persona, già provata dal destino, proprio nel momento in cui Giulia ottiene il riscatto più bello. Ne nasce un secondo filone narrativo che conferisce al racconto l’andamento di un sogno, oppure di una favola, se preferite. Insomma, la storia di una ragazza speciale, ma non solo. Una storia d’amore vissuta fuori dai tutti i canoni convenzionali. Ma soprattutto un grido di libertà del tutto originale che assume come simbolo proprio l’aquilone, che cercherà di prendere il volo tra tante difficoltà, sapendo che la sua sopravvivenza dipenderà soltanto dalla sagacia di chi, con i piedi ben piantati per terra, ne terrà il filo. Un amore. Un inno all’ascolto. Un volo che spero vogliate tutti provare a comprendere. Questo è quello che pensa chi ha scritto il libro. Voi potrete avere altre idee. Se leggerete e scriverete qualcosa su quello che avrete letto, ne terrò conto e ve ne sarò immensamente riconoscente.

S. Tramonti, Il volo dell’aquilone, Youcanprint, Lecce 2019

https://www.youcanprint.it/fiction-psicologico/il-volo-dellaquilone-9788831633666.html

Da una mongolfiera alla sindrome di De Clérambault

Credo possa capitare a tanti di innamorarsi di una persona convinti che anche lei sia perdutamente innamorata di te. Ebbene, quando questo rapporto prende una strada non convenzionale e induce a perseguitare la persona di cui ci s’innamora, la situazione diventa una patologia e prende un nome per la psichiatria. La sindrome di de Clérambault, forma di erotomania, è quella di cui soffre Jed, il persecutore del protagonista di L’Amore fatale di Ian McEwan, opera del 1997. I due antagonisti, persecutore e perseguitato, si sono occasionalmente incontrati in una circostanza tanto tragica quanto rocambolesca: mentre il protagonista Joe, un noto giornalista scientifico, si sta piacevolmente godendo sui prati della campagna inglese un picnic con la moglie Clarissa, docente universitaria, una mongolfiera con un bambino a bordo sfugge al controllo e i presenti cercano di afferrarla; ma il vento rinforza e tutti, tranne uno, lo sfortunato John Logan, mollano la presa delle corde del pallone. Nei momenti successivi alla tragedia Jed e Joe si conoscono e in Jed scatta il meccanismo della fatale attrazione oggetto della narrazione successiva, priva di pedanterie psicologiche e giocata su una tensione che riesce ad avvincere il lettore. La maestria con la quale si narra il progressivo complicarsi del rapporto tra perseguitato e persecutore, fino ad un epilogo non immediatamente prevedibile, così come avviene per quello tra Joe e la moglie Clarissa, è degna della fama di McEwan.

Ian McEwan, L’amore fatale, Einaudi, Torino 1997

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