Sacrificio per la vittoria

Anche questa volta il fiuto del lettore “forte” non mi ha tradito. Magnifici perdenti è un libro in crescendo che si svolge su due tracce: il ciclismo professionistico di Solomon e il suo amore per Liz, ricercatrice genetista, che vede nell’attività del marito qualcosa di molto vicino alle leggi biologiche che studia. La storia è quella di un Tour de France: tappe di montagna per scalatori, tappe di pianura per velocisti, giornate di riposo, strategie di squadra, serate in albergo, scelte tecniche, pioggia, vento, notizie e ordini di squadra nell’auricolare via radio, tecnologia al servizio della resistenza fisica sempre sul delicato confine oltre il quale si va in rosso, fatica sempre al limite, sforzo sempre al massimo, sofferenza per la gloria, sacrificio. I personaggi sono quelli di una squadra di categoria élite, il livello più alto del professionismo. Il contesto narrativo è, da una parte, seguendo il primo dei due binari della nostra traccia, quello internazionale di una squadra professionistica moderna, dei compagni di squadra di Solomon, del suo capitano Fabrice, del suo direttore sportivo Rafael, del suo compagno di stanza Tsutomo, del suo fisioterapista, il Macellaio, del medico Marc, e altri corridori; quello intimo della sua storia con Liz e il figlio Barry, dall’altra. Non manca l’ironia nelle boutade di Fabrice, come nella presentazione del piccolo di statura, ma sempre troppo grande negli intenti, Rafael. Sullo sfondo di tutto questo una morale terribile, quella di sempre nel ciclismo, che non dà scampo e che ha segnato questo sport da quando si pratica: diversamente da quanto si verifica altrove, qui non conta il piazzamento, chi arriva primo assurge all’empireo di gloria, chi arriva secondo sarà sempre il vero sconfitto. Solomon lavora per Fabrice. Deve tutto a Fabrice, anche l’essere stato scelto come componente della squadra per quel Tour, nonostante i test in allenamento dai risultati poco incoraggianti. La ‘morale’ pone su tutto il suo sigillo: Fabrice deve vincere, non deve assolutamente accontentarsi di entrare nella top ten, i primi dieci in classifica generale, tanto meno essere secondo. E perché vinca, non a Solomon, non a Tsutomo, non a Sebastian, non agli altri compagni di squadra, ma a Liz verrà chiesto il sacrificio del magnifico perdente. Solomon in cima a una salita passa accanto a uno striscione su cui è scritto: “Dopati, tornatevene a casa!”. E il sacrificio, nell’utopia continua della vittoria, avrà un prezzo terribile. La tensione narrativa sale piano piano fino alla fine; e vi assicuro che, se amate questo sport per quello che è, vi commuoverete.

Joe Mungo Reed, Magnifici perdenti, Bollati Boringhieri, Torino 2018

Grado sotto la pioggia

Di professione psicoterapeuta, di passione scrittrice, trascorre parte della sua vita a Grado e lì ambienta i suoi romanzi. Di Andrea Nagele ecco Grado sotto la pioggia, un thriller che ha nell’uso ben calibrato della suspense e nella caratterizzazione dei personaggi forse il suo punto di forza. La vita della cittadina è sconvolta dalla morte di una donna: da qui prende avvio un romanzo che non ha come vero protagonista un commissario che indaga, come ci aspetteremmo, ma un insieme di persone direttamente o indirettamente coinvolte nella vicenda. Non solo: la donna deceduta non è nemmeno fondamentale per l’esito della storia, la cui vera protagonista è un’altra donna che si troverà legata alla vicenda per ragioni puramente occasionali. Maddalena Degrassi, commissario di polizia di Grado, è presente anche in altri romanzi della Nagele, ma questa non è la storia di un’indagine, è la storia di un amore deluso, quello di Franzisca che cerca riscatto, di Laura, una bambina che desidera essere ascoltata come fosse un adulto, di Angelina Maria, un’anziana signora, vittima della psicosi, che ha un segreto bellissimo da nascondere, e di altri. Insomma, in poche pagine, si condensano schizzi di umanità che lasciano alla fine della lettura una piacevole impressione nel lettore.

A. Nagele, Grado sotto la pioggia, Emons, Roma 2018

Il romanzo del perdono

Esattamente dieci anni fa tre uomini incappucciati dichiararono pubblicamente che l’Eta avrebbe rinunciato alla lotta armata, esattamente come sei anni prima aveva deciso l’Ira in Irlanda. Si apre la stagione di quello che dovrebbe essere il perdono, parola chiave per la comprensione del romanzo di Aramburu. È ambientato in un piccolo centro dei paesi baschi, non lontano dal tratto di costa su cui si trova San Sebastian; ha come protagoniste due donne, l’una madre di un terrorista in carcere e l’altra vedova di una sua presunta vittima. Attorno alle vicende di Mirén e Bittori quelle delle loro famiglie, dei figli, i cui destini diversi, i cui orizzonti diversi, i cui diversi dolori aprono al lettore un mondo solitamente ritenuto appartato, chiuso nel suo euskera, nella difesa di un’identità che troppo ha sofferto per le sovrapposizioni ideologiche che il contesto internazionale aveva per decenni consentito, anche palesemente appoggiato. L’ideologia in questa narrazione divide assai meno dell’invidia, dell’odio sociale, delle delusioni personali, professionali, passionali. Non abbiamo paesaggi, non abbiamo contesti esterni da analizzare, ma soltanto uomini e donne con la forza delle loro personalità, delle loro passioni, delle loro, spesso deluse, aspirazioni; e con loro le diverse sfaccettature che il dolore assume, sempre alla ricerca di un traguardo che appare impossibile, come è appunto quello del difficile perdono. Non è facile chiedere aiuto quando si ha bisogno, si sa; ancor più difficile è perdonare quando il complesso di motivazioni che ha portato alla rottura non riceve la stessa interpretazione dalle due parti in causa, peggio ancora quando ci si chiede persino se ci siano delle reali motivazioni. Non so se a questa domanda la lettura del volume potrà dare una risposta, sicuramente il tentativo di pervenire al traguardo non può non essere apprezzato.

F. Aramburu, Patria, Guanda, Milano 2017

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