Le donne di Alice Munro

Sono personaggi a-valoriali. Per questo oggi piacciono. Acquistano spessore per la loro voluta mancanza di spessore. Non esiste indagine introspettiva che li porti a scavare nel passato. Non ci sono speranze che li conducano verso un traguardo futuro. Vivono di un tempo presente quasi agostiniano, che non si può definire. Saltano irrequieti attraverso il tempo, questi personaggi. Ma attraversano anche tutti gli spazi noti a chi ne tiene i fili: le città con le loro anonime periferie che hanno smarrito ogni correlato di identità, i piccoli centri separati da enormi distanze dove tutti devono, per forza di necessità, saper fare tutto. Saltano di qua, saltano di là. Fanno tanti lavori e non ne fanno nessuno. Cercano tanti affetti e ne trovano pochi, instabili ed effimeri. E sfuggono a ogni definizione. Come definire ciò che appare narrativamente costruito per non essere definito? Come descrivere ciò che intenzionalmente manca di un contorno, appare sfumato, colpisce e resta impresso proprio per il carattere indefinito delle sue morfologie indescrivibili? Sono nomi che non si declinano, perché esprimono un’idea tanto universale quanto impalpabile. Chi vi cerca modelli, non li trova. Chi vi cerca una traccia di sentiero su cui impostare un itinerario, si smarrisce. Così facendo, agisce come loro, come quei personaggi. E forse così facendo, rinunciando a ogni pretesa di critica, rinunciando a ogni categoria adusa, rinunciando persino ai consueti canoni del recensire, esercita nel modo migliore il suo semplice mestiere di lettore.

La teoria dei paletti

I fiori gialli di tarassaco realizzavano forme perfette ai suoi piedi . Non erano frequenti sui rivali dei fiumi. Aveva aromatizzato il miele con quelle erbe. “Li devi utilizzare sempre in una dieta equilibrata e associata a uno stile di vita sano”, gli aveva detto Serena. Stava correndo sul rivale di un fiume e il giorno prima aveva percorso novantacinque chilometri in bicicletta di cui più di venti in salita: lo stile di vita doveva essere di quelli sani. Non era a lui che quelle frasi andavano certamente rivolte. La farmacista era sua ex compagna di scuola e lo conosceva bene. Le aveva chiesto qualcosa contro la stipsi e lei gli aveva detto che i prodotti a base di tarassaco davano buoni risultati. Ora era lì ai suoi piedi, con le foglie lucide di rugiada e i cerchi perfetti dei sui fiori che realizzavano nei cespugli cupole altrettanto perfette. “Non pensare che le medicine risolvano tutto, Claudio. Affidati a qualcuno. O meglio, fidati di qualcuno, una buona volta.” Non aveva risposto. Aveva comprato, pagato e salutato. Non sopportava più che tutti gli dessero consigli. Serena gli aveva dato un altro di quei consigli. Lo aveva fatto dentro un camice bianco e dall’altra parte di un bancone, un camice e un bancone che le conferivano evidentemente la convinzione di avere una sorta di autorità. Così almeno lui credeva. Ma forse sbaglio, pensava. Serena, tra i tanti consigli, gliene aveva spesso dato uno che lui non sopportava, non tanto perché lo ritenesse ingiusto, quanto perché pensava che fosse ottimo alibi ritenerlo difficile e quasi impossibile da realizzare, perché lui non fosse tenuto a seguirlo. Correva sempre, con ritmo regolare, pensando al fatto che Serena avesse ragione, ma non dovesse avere la soddisfazione di sentirselo dire. La ricaduta della scarpa sullo stabilizzato aveva l’impegnativo compito di scaricare ogni bruttura su quel terreno, di liberare il corpo, la dimora dell’anima, dal rusco che si accumulava notte dopo notte. “Vedrai che ti rifarai una nuova vita”, gli aveva detto Pierpaolo. Le stiance si susseguivano fitte ai suoi lati. Quattro di quelle erano state usate come ornamento all’ingresso della villetta al mare in cui Pierpaolo passava i mesi estivi. Era il suo medico, anche lui amico d’infanzia, lo aveva invitato a una grigliata estiva in una delle poche sere in cui era uscito da sei anni a quella parte. Aveva invitato solo lui. Sapeva che amava le grigliate e che anche lui era bravo a farle. Ricambiò un altro invito di anni prima a casa sua, con la sua famiglia ancora unita, le tre bambine che giocavano, Valentina avvolta in un sorriso forzato. “Sono cose che capitano ormai a tanti. Anche a me è capitato. E tutto è ricominciato da capo. Vedrai. Ricomincerà da capo anche per te.” Pierpaolo parlava sempre generalizzando. L’archivio delle cartelle dei suoi assistiti era per lui la cartina di tornasole dell’umanità. Pensava di averne talmente tanti e così diversi da poter realizzare un casellario: qui ci metto tizio, qui caio, qui sempronio. Punto. Tutto doveva stare lì dentro. Non si accettano deroghe. Claudio si chiedeva da tempo in quale di quelle maledette caselle fosse finito. Sicuramente in quella sbagliata. Anzi, no. Tutte erano sbagliate. Correva ora adirato. Il suo respiro non era più al passo con la corsa. Non riusciva più ad accordarlo. “Quando Giulia ed io decidemmo di comune accordo di chiudere tutto, mi riproposi di ascoltare. La prima che avesse fischiato sarebbe stata mia.” In effetti, gli era bastato un mese per riempire quella casella. Le maledette caselle di Pierpaolo non erano mai rimaste vuote. “Sei hai bisogno, vieni qui da me quando vuoi”, gli diceva sempre Serena, la dispensatrice di consigli umanitari, con quel sorriso costruito da animatrice di parrocchia che deve dare consigli anche se non richiesti, un sorriso che Claudio però le aveva sempre un pochino invidiato, senza sapere esattamente perché. Serena, tutto sommato, aveva un grande pregio: regalava filosofie semplici e sapeva farlo molto bene dentro quel camice bianco. Non era giornata. Correre non gli piaceva come andare in bici. Lo faceva per stare bene, ma era proprio piegato sulle ginocchia e il respiro era affannoso. Dunque, non funzionava, perché non stava bene. Il vento rinforzava e il profumo dei tigli che veniva dalle spalle di un altro, che il camice bianco lo indossava sì e no, lo pervase con forza. “Adesso, Claudio, sei pronto per entrare da protagonista nella vita e, dopo tutto quello che hai sofferto, lo farai da lottatore.” Aveva ascoltato le parole del medico che aveva seguito la sua lunga riabilitazione dopo l’incidente, ma Claudio non aveva capito chi dovesse essere il lottatore, con quali armi avrebbe dovuto agire questo lottatore e soprattutto, cosa ben più importante, contro quale nemico questo lottatore avrebbe dovuto combattere. Tutti gli avevano sempre dato consigli ispirati. Tutti pretendevano di pontificare sulla sua anima, conoscendo di lui appena una parte del corpo a testa. Il suo errore era stato quello di averli sempre ascoltati, di aver preteso che, mettendo insieme le conoscenze delle parti del corpo di competenza, ne uscisse un quadro esaustivo. E invece no. Era sempre stato costretto ad ascoltare. Non aveva mai potuto veramente agire, né tanto meno reagire. Si era lasciato riempire fino all’orlo di consigli di vita. Per nove anni, del resto, cos’era stata la sua vita? Come poteva pretendere chi aveva curato il suo corpo di ergersi al ruolo di vate della sua anima? Allora non poteva correre. Adesso sì. E, se lo poteva fare, era proprio grazie a chi si era preso cura del suo corpo. Avevano fatto il loro dovere. Basta. I consigli di vita non competevano loro. Eppure li aveva lasciati parlare, li aveva ascoltati, riascoltati, spesso con l’attenzione che si dedica a una lima sorda. Li aveva persino accolti tra gli amici. Parola impegnativa. No. Non aveva amici. Conoscenti, meglio. Persone che con un ruolo o un altro avevano casualmente visto la loro vita incrociare la sua, meglio ancora. Eppure queste persone avevano, per diverse ragioni, avuto a che fare con la sua intimità, avevano lavorato il suo corpo, avevano visto tutte le sue nudità, quelle fisiche e quelle altre, quelle che pretendevano di incasellare e trattare come le quotazioni dei titoli in banca. Perché non le aveva volute tra gli amici? Loro si consideravano suoi amici. Lui non li considerava suoi amici. Erano amici o no? Cos’è un amico? Un confidente? Uno che deve sapere tutto? Nessuno di loro sapeva tutto. Uno sapeva questo, un altro quest’altro. Ma nessuno sapeva tutto. E la somma degli addendi non era mai una certezza e non dava mai lo stesso risultato. La fisiatra aveva fatto i capelli bianchi e le rughe in quei nove anni di lavoro su di lui che le avevano permesso di dirgli che sarebbe tornato da lottatore e da protagonista nell’arena della vita. Il profumo dei tigli che con le sue parole entrava in lui era qualcosa di indescrivibile. Il nonno gli faceva passare ore nel cortile tra i tigli, quando a giugno, terminate le lezioni, veniva portato da lui, nella sua casa in campagna. In cortile aveva iniziato a leggere. Quello spazio non aveva recinti, non era una casella: si apriva in tutte le direzioni verso i coltivi ed era lambito da una gora che una chiusa poche centinaia di metri più avanti rendeva sempre lenta e placida. Non poteva correre. Non era ancora stato effettuato l’intervento che glielo avrebbe consentito e gli avrebbe permesso di ritornare da ‘grande protagonista’ e da ‘lottatore nell’arena della vita’. Leggeva. Leggeva di tutto. Usciva con il nonno, che lo portava in libreria e lo lasciava lì finché non avesse scelto. Adorava i libri di avventura, di viaggi in terre lontane, anche di fantasia. Adorava leggere di persone che facevano grandi cose e lo facevano sognare. Non poteva fare altro nelle sue condizioni. Poteva solo sognare. Conoscersi e uscire dall’adolescenza significa anche prendere atto delle più scomode verità sulla tua vita, mentre il profumo dei tigli ti illude che in quella vita tu possa assaporare anche qualcosa di buono. E allora perché correre se farlo non ti ha mai sconfinferato? Mai che ne facesse una buona.

Claudio non voleva che un altro lo vedesse piegato sulle ginocchia. Si rialzò. Chiuse gli occhi nell’illusione che il groppo sarebbe andato giù. Si voltò. E decise di tornare indietro. Lo fece camminando, fiero del fatto che il poterlo fare non era affatto scontato, per chi conosceva la sua storia. Pochi potevano dirlo. Lui era di quelli. Il groppo non andava giù. E il cuore sembrava che volesse scappare, cercare un’altra vita e abbandonare lì tra le canne e le stiance quella ormai inutile che lo aveva tenuto per tanti anni prigioniero, incapace di esprimersi, di conoscere un vero piacere, di gustare una vera gioia. Correva anche per quello. Andava a fare chilometri e chilometri in bici da corsa anche per quello. Il cuore non doveva lasciarsi prendere da quell’insano desiderio di andarsene altrove. Doveva essere tenuto sempre impegnato. Se il cuore lavorava, chissà, forse anche l’anima sarebbe stata meglio. Quante volte avrebbe voluto sapere dove stava quell’anima? Nel cuore? Nella testa? No, ‘sta nei sensi’, gli disse un giorno una collega. No, troppo materialistico. Claudio non era mai stato un materialista. Eppure i sensi avevano un ruolo importante. E anche lì in quel momento lo avevano: il ritmico e cadenzato tonfo della scarpa che batteva sul suolo della strada bianca come arrivava alla sua mente? E il giallo dei fiori di tarassaco? E il profumo dei tigli? E questi sensi perché mettevano in atto ingranaggi che riavvolgevano la bobina del tempo? E perché quel film appariva ora bello ora brutto? Tra quei lacerti disordinati che di quando in quando, soprattutto di notte, venivano recuperati e rivissuti qualcuno infondeva serenità e diventava sogno, altri subdolamente s’intrufolavano tra i primi e trasfiguravano tutto, e la serenità diventava paura, e il sogno incubo. Cercò il cellulare, accese la musica e si mise le cuffie. I sensi potevano essere distratti.

Era la stessa musica che aveva sentito il giorno prima nell’uscita in bici e che aveva impresso la cadenza alle frequenze della pedalata. Era una musica ossessiva, ripetitiva. Carmina Burana: “è pseudodoping: non vale!”, gli diceva Lele, un suo compagno di uscite in bici. Si era ripromesso di non ascoltarla più, perché aveva l’impressione che lo trasformasse in un essere innaturale. Ma quante promesse erano cadute nel vuoto! Il giorno prima ne aveva parlato con Pierpaolo. In sala d’attesa non c’era nessuno. “C’è l’insegnante che dopo una brutta esperienza in una gita scolastica, dice che non ne farà più e l’anno dopo puntualmente la ritroviamo in gita. C’è il fumatore che promette che non fumerà più, lo dichiara coram populo e si fa sorprendere con la sigaretta in bocca. C’è il bevitore che accusa dolori di fegato, assicura che non toccherà più niente di alcolico e di nascosto riprende presto a scolar bottiglie. Con lo stesso spirito anch’io avevo fatto il mio solenne proclama: avevo deciso di non scrivere più.” Pierpaolo gli aveva risposto: “ Fai bene. Tanto chi legge quello che scrivi ci fa solo risatine sceme sopra.” Lui lo aveva corretto: “Forse sarebbe meglio dire che queste persone spesso non hanno proprio strumenti per intendere, perché non leggono; oppure, se lo fanno, si dedicano a quelle che comunemente si chiamano letture da ombrellone. (Mi è piaciuta la tua espressione quando hai detto che chi legge tende spesso a commentare animato da ‘vampirismo pettegolesco’). Oppure, peggio ancora, esce con le sentenze di mia cugina, quando le consigliai la lettura di Palazzo Soglianodella Casati Modigliani (roba di qualità …): ‘Non sopporto leggere libri che parlano solo di tristezza. Voglio roba allegra. Meglio la Settimana enigmistica.'” Pierpaolo gli aveva detto che non era facile restare a un livello alto: “Dopo il successo della prima raccolta di racconti, ti sei convinto di non essere riuscito a tornare a quel livello. E hai perso motivazione. Per me sbagli.” “E infatti, come vedi, ci sono ricascato. Lingua batte dove dente duole, del resto, si sa. Mi sono rimesso a scrivere. Ed eccomi qua. Stanotte mi sono svegliato alle due in preda a un incubo, uno dei più cattivi e anche dei più ricorrenti, purtroppo. Facciamo il gioco del dottore: io parlo, tu ascolti. Dovresti essere bravo a fare la parte del dottore.” Pierpaolo conosceva quegli incubi da tempo. Del resto tanti racconti di Claudio, forse i più belli, erano scaturiti da lì. Ma non sapeva che quello nuovo, che si stava accingendo ad ascoltare e che per questo ancora non aveva preso forma narrativa, forse li avrebbe battuti tutti. Claudio aveva sospirato, chiuso gli occhi come per riordinare le idee e poi aveva iniziato a narrare il sogno. “Sei pronto? Guarda che è roba forte questa.” “Sono pronto. Vai!”

Sono in classe, sono alle medie, forse la seconda media, è suonata la campanella dell’intervallo e mi tocca alzarmi, perché mi scappa. Per farlo devo mettermi o lo scarpone con la zeppa alta più di 15 cm (il ‘trampolo’ lo chiamava mio babbo) o andarci zoppicando vistosamente mettendo la scarpa normale che avevo nello zaino. Comunque, in un modo o nell’altro, con una scarpa o l’altra, mi prenderanno ugualmente tutti per il culo. Inevitabile. Tanto vale farlo senza trampolo. Mi alzo e, quando ho trovato l’equilibrio giusto fra la flessione della sinistra e la lunga discesa della destra, mi accingo ad andare in bagno; per farlo ci sono le Forche Caudine: bisogna attraversare quel corridoio affollato dove si sono dati convegno tutti i minus habentesdella scuola che rideranno come sempre del maiale emiliano storpio con una gamba più corta. Ci ero abituato. Infatti, ridevano solo loro; io non ridevo mai. Stavo sempre da solo in un angolo in classe. Persino se interrogato, aprire bocca per parlare era motivo di terrore. Appena metto il muso fuori dell’aula, uno urla subito ‘eccolo il secchione, il maiale emiliano storpio’. Uno, il capobranco (non saprei se più ammirato o temuto dagli altri), mi si avvicina e mi fa il verso della camminata, poi mi dà uno spintone e mi fa cadere; e infine, ridacchiando insieme a tanti altri – il bullismo è democratico e sa unire tutti, maschi e femmine, ricchi e poveri -, si mette a urlare: ‘adesso rialzati e corri se ci riesci, maiale emiliano storpio. Facci vedere come fai a correre. Avete mai visto un maiale zoppo?’ E tutti ridono, tranne me; non è mai stato nel mio repertorio. Lì vicino c’è una sedia metallica. Nessuno ci si siede, perché corre voce che l’ultimo ad averlo fatto sia stato bocciato per tre volte di fila. Inutilizzata da anni, pare. Ho un’idea: usarla finalmente. Mi rialzo, la prendo e la fracasso in testa al capobranco con tutta la mia forza. Mi rendo conto che questa volta l’ho fatta grossa per davvero. Cola sangue dappertutto. Il bidello arriva, mi prende e mi porta dal preside, un altro chiama l’ambulanza, urla e spintoni a destra e a manca, una ragazza si mette a piangere impressionata dal rivolo di sangue che ha colorato il pavimento; ho osato colpire Lapo Claudio Lorenzo Antonioli Dell’Impruneta, diretto discendente della nobile casata, che conserva un’incalcolabile ricchezza e può permettersi lusso in ville medicee, vendendo vini adulterati o taroccati in tutto il mondo. Lo sanno tutti. Firenze è una città molto più piccola di quanto si creda. Vengo portato in presidenza. Non mi oppongo. Sono abituato anche a quello. Il preside mi fa domande a cui ovviamente non do alcuna risposta. Silenzio. Una mummia sarebbe il prototipo della loquacità al mio confronto. Mio babbo arriva a scuola di corsa. Ascolta. Cerca di spiegare. Non serve a nulla. Sospensione.”

Pierpaolo aveva ascoltato immobile: “Caspita! Roba proprio pesante quella di oggi. Per fortuna che è un sogno.” “Non lo è affatto, amico mio.” “Ah, lo dovevo immaginare, come se non ti conoscessi ancora.”

E così – riprese Claudio – passo le notti da allora, amico mio, come ben sai. Di giorno si cerca di non pensarci. Ma di notte è difficile. Ti prende sempre a tradimento. E se ti impedisce di dormire, che fai? Ti metti al computer e cerchi di passare in un altro modo le ore. Di soluzioni alternative ho una certa esperienza dal mio particolare punto di vista. Ho sempre scritto. Scrivendo vinco l’ansia che mi provoca il parlare. Di giorno fai passare il tempo montando sulla bici: lì nessuno ti vede camminare e ti senti come tutti. Credo sia impossibile capire quanto è bello sentirsi come tutti. La bici fu il vero riscatto. Mio nonno e mio babbo furono veramente due grandi, immensi, veri uomini. Seppero ascoltare il mio silenzio. Me la fecero fare da Gastone Nencini, vincitore di un Tour, amico e compaesano del nonno, con le pedivelle su misura (e una cassetta pignoni che arrivava al 34! …), per venire incontro alla minore forza che avrei avuto inevitabilmente dalla parte destra.” Pierpaolo avrebbe voluto chiedere della mamma, che ruolo aveva avuto in quella storia. Fu letto nel pensiero: “Mia mamma sapeva tutto; conosceva tutti i perché, ma non parlava di queste cose. Se lo faceva, era per sgridare. Non era un bel modo per sfogare il senso di colpa, avrei pensato con il senno di poi. Non ho mai capito se per scelta sua o perché così avesse voluto il babbo. La mia era la famiglia dei silenzi inquietanti. Sarà, tuttavia, difficile per me perdonarle silenzi che hanno rovinato una vita, che hanno fatto sì che desiderassi rompere quanto prima quel legame con quell’ambiente che avvertivo malato più di me. Oggi sto meglio, amico mio. Non ho preso l’antidolorifico.” Senza rendersene conto, nel camminare aveva iniziato a buttare di lato il piede destro: il tempo che non passa. Per questo decise di riprendere a correre. La musica continuava a dare il ritmo. Come lo aveva dato in bici il giorno prima. C’era sempre quel messaggio sul cellulare. Era arrivato ieri, mentre era in salita. Lo aveva letto in cima, al valico. Era di Pierpaolo, preoccupato perché non avrebbe dovuto fare quegli sforzi, dopo i dolori che aveva iniziato a patire e sotto l’effetto di quel forte antidolorifico che gli aveva somministrato nei mesi del recupero postoperatorio dopo l’incidente. Claudio gli aveva risposto.

Tranquillo, mi fa quasi da doping. Non sento la fatica. Sono in bici. Ho finito la salita e ora torno. Sono soddisfatto. A me in fondo è sempre bastato questo da allora. Quassù mi sento un altro. Mi è bastato allora, mi deve bastare anche adesso. Non posso avere purtroppo altre gioie, perché qualcuno ha pensato bene che non bastasse avere una gamba più corta e un occhio inutile. Ho queste. Ho i libri, per cui un occhio basta e avanza, e ho le bici, che sono l’unica cosa veramente miracolosa: mi fanno sentire bene perché non mi sento sguardi addosso. Mi tengo quello che ho. La solitudine è un falso problema. La separazione non l’ha provocata; l’ha solo acuita. Quando mai sono stato socievole? Ma soprattutto, perché mai sarei dovuto esserlo? Ecco cosa significa la bici e perché lì, sulla bici, ho cercato il riscatto. Forse non te l’avevo ancora detto. O forse l’avevi già capito, perché tu non hai un intelletto comune e ti elevi ben oltre la media, amico mio. In bici non devo difendermi dagli occhi di nessuno. E quando monto sui pedali per affrontare una salita, non solo non mi sento diverso dagli altri, ma, concedimelo, qualche volta mi sento addirittura un pochino migliore. Soltanto sulla sella della bici mi capita. Non è forse giusto che ognuno cerchi il suo posto nell’ordine naturale? Perché obbligarmi ad andare in una spiaggia e dare in pasto alle iene e agli sguardi che sbavano solo cattiveria quello che odio io stesso per primo guardare? Perché obbligarmi a mettere quello scarpone che odiai talmente tanto e che ancora popola incubi? Quanto male facevano quelle cinghie! ‘Deve tenere dritto il piede, Claudio’, diceva mia mamma. Ma quel piede era nato storto e serviva storto per arrivare meglio a toccare terra con le dita; ‘ne ha solo tre; non reggeranno il peso del corpo’. Chissenefrega! Per camminare bastano. Il corpo si adatta a tutto. Non farmelo soffrire di più, mamma, per favore. Non serviva a niente. Lei ascoltava solo i medici. E invece … anni di dolore, di isolamento, di torture del corpo per essere uguale, sapendo che quell’uguaglianza aveva una data di scadenza. Quelle torture del corpo, prima o poi, avrebbero fatto male anche altrove. Non mi si può rimproverare di non essermi liberato del passato. Come si fa a liberarsi di un passato pesante e ingombrante come questo? Un passato così non si metabolizza; al più si cerca una forma di convivenza con lui e si tenta di domarlo. Ma non è facile, perché non sei tu a decidere quando farlo tornare in superficie. Lo decide lui. Non credo, pertanto, di essere un pusillanime per non essermene liberato. Mi colpisce a tradimento. E devo difendermi. Qualche volta, giocando in difesa, si riesce anche a vincere. Qualcosa ho vinto anch’io, non devo dimenticarlo. Ho tenuto per me le mie vittorie. Non mi è mai interessato che altri condividessero sentimenti che non avrebbero mai inquadrato nel contesto giusto. Le ho sempre gelosamente custodite; le tengo per me; e quassù, ogni volta che arrivo in cima a un passo o al termine di una salita, me le godo. Non avrà mai sapore amaro una vittoria che devi solo ed esclusivamente a te stesso e a forze che mai un tempo avresti creduto di poter avere. Non è forse bello tutto questo? Posso avere questo. Non posso avere altro. Ma non è poco quello che mi sono conquistato. Non mi interessa a questo punto il ridacchiare altrui per quello che scrivo. Quassù lo sento lontano anni luce. E quello che scrivo quassù non è mai scritto a vanvera. ‘Quasi tutti i grandi libri sono tristi’ tu hai scritto, più o meno con queste parole, un giorno. Non credo che sia triste quello che ho scritto. Non sarà di sicuro grande. Ma a me piace, perché sento che possiede un valore profondo, ha un significato speciale, affonda le sue radici in un terreno di cui conosco, solo io, ogni sentiero. Oggi è di moda fare pubblicità inserendo negli spot un disabile, per attirare l’attenzione sul problema. Torniamo ai circhi e ai baracconi dove i freaks, gli scherzi di natura, facevano fare soldi? Chi si riempie la bocca di resilienza in tv o su internet, venga quassù e faccia due chiacchiere con me. Parlerebbe molto meno a vanvera. Anzi, forse non parlerebbe proprio più e si vergognerebbe di tante boiate sparate a destra e a manca. E se sapesse ascoltare e spogliarsi di quella superbia che lo fa parlare troppo e lo tiene al centro dell’attenzione sui social trattando di ciò che non sa, imparerebbe, vedendomi salire quassù, che una grande storia si può raccontare anche con quello che qua domina incontrastato: il silenzio. Quel silenzio che allora mi relegava nel ruolo del perdente senza speranza, adesso, quassù, prende un sapore completamente diverso. È un sentimento ineffabile, amico mio. Solo quassù in questo spazio, solo dopo la sedimentazione del dolore in quel tempo (anche gli incubi come quello di questa notte paradossalmente servono), prende una forma e si lascia rappresentare. Forse non spetta a me dare giudizi che escono dal campo del metodo ed entrano in quello del merito; ma non credo che tu pensi che io esageri se ti dico che quassù avverto il sapore, per me inconfondibile, della vittoria.” E Claudio, infatti, memore di quello scambio di messaggi del giorno prima, correva pensando a quando il correre era un sogno, ma soprattutto era motivo di rancore nel bambino che ancora non capiva perché gli altri potessero farlo e facendolo si divertissero, mentre lui invece non poteva. Forse avrebbe dovuto smettere.

Il referto del radiologo era finito nelle mani della sua fisiatra: “Dia a me il dischetto; il radiologo non capisce niente di queste cose.” Poi in quelle dell’ortopedico: “Dia a me il dischetto: non deve ascoltare la fisiatra. Ascolti me, se vuole guarire.” Quel ‘se vuole guarire’ suonava singolarmente beffardo per come era stato pronunciato. Da quando era nato doveva ‘guarire’, ma non aveva mai capito esattamente da cosa. “Ma cosa significa guarire? Essere come gli altri? Ma allora perché per farmi ‘guarire’ mi hanno fatto più male? E perché adesso quel ‘guarire’ significa dover tornare come ero prima? Non ricordo di essere stato male prima che qualcuno si fosse messo in testa che dovevo ‘guarire’. La causa di tutto non è stato forse in un farmaco che è stato messo in vendita per ‘guarire’?” Il medico, che aveva ascoltato seduto nel suo studio in ospedale, era stato spiazzato da quelle argomentazioni. Sapeva che non era quello della parola usata come frutto di passione il terreno in cui avrebbe vinto e ricorse pertanto alla parola scientifica, al linguaggio gergale della sua specialità, al lessico tecnico. Claudio aveva ascoltato per anni quelle parole. Non le sopportava più. Mentre il medico ancora stava parlando, si era alzato, aveva salutato ed era uscito. Non aveva sbattuto la porta, perché quel medico non aveva alcuna colpa e non stava facendo niente di male. Non stava semplicemente facendo nulla di utile.

Amico mio, aiutami,” aveva scritto a Pierpaolo, facendo una pausa nella corsa, con le asettiche parole di quel referto che andavano su e giù per il suo corpo, come se non avessero il coraggio di fermarsi nella mente. Sentì il bisogno di sedersi ed ebbe un primo conato di vomito. Non riuscì a trattenere il secondo. Uscirono da dentro anni di finta vita coniugale, anni di continui infingimenti nei rapporti con i colleghi e i conoscenti, anni di una finta volontà di riscatto tramutatasi presto nella rivalsa del ‘devo fargliela pagare’. Aveva macchiato una bianca distesa di convolvolo che si dipanava tra i pruni già pieni di more a grappoli e le verdi foglie appuntite dell’ortica. Vita. Vita ovunque, che si irraggiava allegra di colori per fare più male al grigio che imperava laggiù. Su quella vita aveva vomitato tutta la sua inutilità. Il sapore della vittoria, di cui tanto era andato fiero, lassù, in bici, alla fine della salita, sembrava ora un lontano ricordo.

Come posso aiutarti, Claudio?” Pierpaolo diceva sempre così quando non aveva tempo. Poi si pentiva e gli scriveva di nuovo, scusandosi della frettolosa risposta. Come sono prevedibili e scontate le persone! Qualche volta persino inutili. La solitudine poteva rivelarsi in certi momenti addirittura una salvezza, pensava in preda ad una pura pratica di autopersuasione, come uno che dicesse ‘ho freddo’ con quaranta gradi. Non corse più. Avrebbe dato almeno una piccola soddisfazione ai maestri dell’arte del ‘guarire’. Riprese a camminare. Di nuovo quel piede destro buttato di lato, senza accorgersene. Arrivò all’auto. Era infuocata. Dopo aver corso e anche vomitato, si sentiva asciutto. Aveva sete. Si diresse velocemente a casa. Ma prima ebbe bisogno di fermarsi in farmacia. Entrò. Prese il numero. Al suo turno si presentò al bancone e chiese di Serena. Arrivò da dietro, da una delle stanze dove si trovano gli uffici del servizio comunale. “Ciao, Claudio. Sono impegnata in ufficio. Se hai bisogno di parlare, mandami un messaggio e ti dico quando posso.” “Non ho bisogno di parlare. Ho bisogno di aiuto.” Serena sospirò. Poco prima in farmacia si era presentata Valentina, la sua ex, con le bambine. Aveva una ricetta del suo medico che le prescriveva psicofarmaci di due tipi. Stava male evidentemente anche lei. Gli occhi di Serena caddero per un attimo sulle bambine, che assomigliavano tantissimo a Claudio. Anche i suoi assomigliavano al babbo, che l’aveva lasciata sola per un’altra. La donna l’aveva salutata con un po’ d’imbarazzo, conoscendo il legame di amicizia che da anni legava Serena a lui. Non si erano guardate negli occhi. Le aveva messo la ricetta davanti sul piano del bancone con un mezzo sorriso. Tra le labbra era apparso un mezzo saluto. Non era certamente il modo di fare che aveva avuto nelle uscite, quando tutti insieme andavano a cena fuori con le loro famiglie, dei bambini c’erano solo i suoi e quelli di Claudio sarebbero arrivati dopo. Era un comportamento che Serena ormai dal quel privilegiato punto di vista aveva avuto l’opportunità di conoscere anche troppo bene. Solo un giorno su quelle labbra era apparso quel mezzo sorriso. Serena lo ricordava bene, perché Valentina e Claudio erano venuti in spiaggia con lei, che amava molto il mare, a differenza di Claudio che non lo amava per niente. Valentina quel giorno era apparsa assente. Felice di essere lì, ma poco di comunicare. Serena, che con lei aveva confidenza, le aveva chiesto se ci fossero dei problemi. Valentina naturalmente aveva negato. Quello che la preoccupava non era quello che solitamente è considerato un problema: Valentina – Serena lo avrebbe saputo da Claudio – era incinta. Eppure non trapelava alcuna gioia. Al contrario, Serena aveva avuto l’impressione che aleggiasse agitazione e nervosismo nel distacco tra loro due. Non aveva, sulle prime, indagato ulteriormente. Ma dopo, mentre Valentina era in acqua a fare il bagno, Serena e Claudio si erano trovati al bar e lui le aveva dato la notizia, con un sorriso e una felicità troppo di circostanza per essere autentici. Serena e Pierpaolo sapevano di Claudio cose che forse nemmeno Valentina conosceva. E sapevano entrambi che Claudio aveva sbagliato a tacere, glielo avevano anche detto più volte, ma lui, testardo, sempre aveva risposto che sapeva il fatto suo. Serena era stata più volte convinta che Claudio non avesse avuto il coraggio di dire tutto di sé alla moglie. Lo aveva saputo da Claudio stesso. A scuola erano stati compagni di banco, avevano fatto i compiti insieme per anni. Claudio allora ebbe interesse non ricambiato per Serena, ma dovette alzare bandiera bianca quando lei conobbe un altro. Rimasero buoni amici, ma la confidenza che li legava era ormai molto profonda, quasi fraterna. Valentina si era innamorata di Claudio durante una vacanza in barca. Erano in cinque: Serena con il marito, un amico e collega del marito, Valentina, Claudio. Serena era incinta e non poteva aiutare il marito nella conduzione della barca, per cui si prestarono a turno gli altri. Durante la traversata Valentina e Claudio si trovarono a fare insieme la notte al timone, che fu galeotto. Stavano bene insieme. Riservati entrambi. Timidi, li definiva Serena, che, memore degli studi classici, diceva a Claudio che timido ricorda di più il timore e la paura e che lui le dava l’impressione di aver paura nel rapporto con gli altri. Per cui se Claudio era timido, Valentina era timida lei pure per conseguenza. Quando al mattino Serena fu svegliata presto dal sole che alle 5,30 era già alto e li vide abbracciati al timone, con Valentina che si era addormentata con la testa sul petto di Claudio, dentro di sé fu felice. In effetti, non aveva mai immaginato che potesse succedere, non con Claudio. Di Valentina sapeva ancora poco. Era amica di amici di suo marito, arrivata nel gruppo per quelle vie molto traverse che per lei, assidua praticante della sua comunità parrocchiale, era lecito chiedersi se non siano frutto di un qualche disegno superiore. Con Claudio ne aveva parlato, ma con Valentina, che ostentava nel colloquiare un certo materialismo di fondo che a lei suonava talvolta anche acido, non aveva mai osato. Eppure quella persona che era arrivata in farmacia con la ricetta era diversa da quella solita, che conosceva abbastanza sicura di sé, benché decisamente poco espansiva. Quando si arrivava al punto di trarre conseguenze dalle medicine che si usano, non è più generica amicizia quella che lega due persone: è confidenza.

Mentre Claudio, che si era presentato in farmacia sudato dopo la corsa, tornava a casa, Serena stava partecipando alla riunione, ma non riusciva ad ascoltare il direttore che parlava seduto dalla sua sedia alle altre persone convocate. Pensava a quella frase e a quella richiesta di aiuto a cui aveva troppo frettolosamente risposto. “Scusatemi,” disse alzandosi con la borsa in mano. Nessuno la guardò. Tutti erano attenti alle parole del direttore. Serena si ritenne scusata e uscì dalla saletta riunioni. Aprì la porta dell’uscita di sicurezza e, sedutasi in cima alla scala antincendio dell’edificio che ospitava il magazzino farmaci, accese il cellulare. Mentre suonava a vuoto in quella casa di lui rimasta essa stessa vuota, ai suoi piedi pulsava febbrile l’attività dei magazzinieri sui muletti e degli addetti al trasporto con le liste delle consegne. Richiami ad alta voce partivano dai furgoni, altri rispondevano dall’interno dell’edificio, ilarità, allegria, risate persino sguaiate di una routine quotidiana che aveva come proprio referente materiale i farmaci, le medicine, strumenti per lenire il dolore di altre persone, che davano da mangiare a lei, ma avevano rovinato la vita a Claudio. Serena riprovò per una seconda e poi per una terza volta. Ma non ebbe risposta. Allora chiamò Valentina. Sapeva che il suo cellulare in casa aveva poco campo e la chiamò direttamente sul fisso. Rispose una voce di bambina: “Mamma! Telefono!” Un attimo di silenzio, poi arrivò il “Pronto! Chi parla?” “Ciao. Sono Serena. Cosa sta succedendo? Parla!” ”Adesso non posso. Ci sono le bambine. Scusa.” “Scusami tu allora. A presto. Ciao.” “Ciao, Serena.” Era stata diretta. Lei era così. Riprovò per l’ultima volta con Claudio, ma non ebbe risposta. Tornò in riunione. La collega accanto alla quale si era seduta, notata la sua espressione preoccupata, le chiese se fosse tutto a posto. Serena eluse la risposta con uno di quei cenni del capo passibili di una vasta gamma di interpretazioni. Gli altri prendevano appunti, lei scarabocchiava figurine senza senso sul suo tablet. “Scusami, Serena. Ero sotto la doccia e non ho sentito le tue chiamate.” Parole rassicuranti, finalmente, quelle che arrivarono e che Serena poté leggere nei dieci minuti di pausa che il direttore concesse ai convocati.

L’acqua della doccia scendeva su un corpo già abbastanza lavato. Claudio non l’avrebbe mai interrotta se avesse avuto la convinzione che sarebbe potuta entrare dentro e lavare via tutta l’immondizia depositata e mai gettata in anni di vita balorda. Lasciava scendere quell’acqua mentre il calcagno del piede destro toccava terra finalmente: a diciassette anni il miracolo della Santa Uguaglianza si è verificato. Nella doccia di casa sua per la prima volta aveva avuto quell’incredibile ebbrezza. Non ricordava che fosse successo in altre occasioni. Tutto lì? Anni di interventi, rinunce a stare con gli altri, isolamento e dedizione allo studio quasi monastica, eremitica, si può dire, perché un calcagno tocchi terra? A diciassette anni capiva bene il valore di tutto quanto gli era stato tolto e di cui quella gamba era solo il dettaglio più macroscopico nel quadro generale; non si vedevano gli altri danni che il farmaco maledetto aveva recato al suo corpo e che erano subdoli, perché, non vedendosi, ingannavano le persone e costringevano a spiegazioni spesso imbarazzanti, non solo per lui. A lui del proprio imbarazzo era sempre interessato ben poco; gli interessava assai di più l’imbarazzo di chi era imbarazzato dal suo imbarazzo. Fu lì sotto la doccia che per la prima volta prese forma la filosofia del ‘devo fargliela pagare’. Era una reazione puramente istintiva, perché non esisteva un nemico che dovesse essere combattuto, non aveva carne ed ossa; avrebbe dovuto combattere contro un’intera società che tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta era ubriaca di boom economico e faceva figli come conigli, le mamme erano sempre incinte, gli ospedali, che ora non sanno dove mettere gli anziani, traboccavano di neonati, e un farmaco che non faceva sentire le nausee alle puerpere avrebbe avuto un sicuro successo. E fu dato a larghe mani come caramelle a un bambino. Decine di migliaia di vittime sancirono quel successo e a lui era andata bene, tutto sommato. Eppure il riscatto divenne rivalsa e il ragazzo si apriva alla vita, per la prima volta, in modo sano con il corpo, ma in un modo ormai inevitabilmente insano con l’anima. Riprese la bici, che era la sua passione, e iniziò a registrare anno dopo anno migliaia e migliaia di chilometri, maciullando per ore, ma chissenefrega!, la sala macchine sulla sella. La rivalsa era con se stesso prima di tutto. Non sentiva il bisogno di riscattare alcunché. Tutto avvenne però in un modo che era sostanzialmente goffo, perché non aveva mai avuto esperienza di vita sociale: nessuno gli aveva mai insegnato la non facile arte del dosaggio delle emozioni nei colloqui, nel conversare, nello stare insieme.

Eri davvero ubriaco di uguaglianza in modo insano.” Pierpaolo, che gli aveva portato la spesa a casa poiché lui era immobilizzato dal tutore alla gamba, parlava seduto sulla poltrona della sua sala. “Ricordo come tutti fummo sbalorditi dalla tua reazione, Claudio. Nessuno capì. Ti buttasti a capofitto nella vita. O meglio, ti buttasti a capofitto in due cose: nello studio e nello sport.” “No. Non mi buttai a capofitto. Volli esprimere quel massimo che prima non avevo potuto dare. A scuola andavo a fasi alterne; quando ero presente, studiavo tanto e ottenevo voti altissimi; ma le assenze erano tante. Tante quante i triboli, che mi erano stati assegnati per sentenza dal Santo tribunale dell’Uguaglianza. Nello sport ovviamente facevo quello che potevo.” Claudio aveva ironizzato declamando. “Eri come un pulcino che non riusciva ad aprire il guscio e, quando ci è riuscito, lo ha fatto con il botto.” “Più o meno.” Pierpaolo aveva deciso di fargli visita, perché sapeva che quell’incidente era stato anche un motivo di abbattimento per l’amico, che si era seduto su una seconda poltrona vicino a lui, tenendo la gamba immobilizzata nel tutore postoperatorio appoggiata su una sedia. “Ti ho portato un po’ di spesa. Se manca qualcosa, dimmelo subito, che vado a prenderlo.” “Grazie. Non dovevi.” “Perché non avrei dovuto? Ti dirò di più: ho preso anche delle pizze surgelate e adesso ce le facciamo. Ricordi quante ne abbiamo mangiate in montagna quando andavamo a sciare?” Claudio non rispose. Pierpaolo era veramente un grande in quelle cose, anche se incasellava tutto. “Non ci voleva questa caduta, Claudio. Ma come hai fatto a fare tutto da solo?” “Sfortuna. Sono il campione del mondo. Non ero ancora nato che avevo già iniziato gli allenamenti. O no?” Il sarcasmo di Claudio non era mai gradito da Pierpaolo. Serena gli rispondeva e si arrabbiava quando usciva con quelle frasi, ma Pierpaolo taceva. E tacendo, confermava. “Sai, Claudio, che quando mi hanno detto che eri caduto, ho pensato che non doveva essere possibile? La prima cosa che mi è venuta in mente è stata proprio che tutti potevano cadere, ma tu non saresti mai dovuto cadere.”

Era rimasto solo. Quando i suoi compagni di uscita avevano scollinato, non si erano fermati alla fontana fuori del bar del passo, come lui invece era abituato a fare. ‘Li riprenderò in discesa’, aveva pensato, allentando il cinghietto del casco, togliendosi i guantini e sganciando la cremagliera degli scarpini. Aveva sciacquato con meticolosa diligenza la borraccia, come suo solito, e, come suo solito, l’aveva riempita e svuotata due volte. Riti antichi. Così faceva suo babbo e così faceva suo nonno. Lassù, tutto assumeva, per uno di quegli automatismi che lui non pretendeva mai di indagare, il valore del rito antico. Anzi, sorrideva in modo quasi caustico di chi saliva in cattedra e tentava di fornire delle spiegazioni a quei comportamenti. ‘Strutture di lunga durata’ le avrebbero chiamate gli storici della scuola francese che tanto lo avevano annoiato ai tempi dell’università, quando studiare era solo un modo per esprimere la rivalsa contro tutti e nessuno, in base al principio del ‘dovergliela far pagare’. E in effetti, lui, che di antropologia ammetteva di capire tanto quanto capiva di fisica nucleare, si divertiva a leggere testi altrui, apprendeva, spesso rielaborava. Ma non pretendeva di capire. ‘Il bello di un racconto è quando non dà chiavi di lettura, ma lascia a chi legge di essere capito’, aveva sentito dire durante la presentazione di un libro di un suo ex alunno. Non amava le presentazioni dei libri, cui partecipavano persone che non li avevano mai letti; preferiva leggere le recensioni di chi li aveva veramente letti, o, meglio ancora, parlare di persona con chi li aveva letti. Eppure, quel giorno non poté esimersi. E da allora decise di non dare più spiegazioni di atteggiamenti che fanno parte di una tradizione, di un tramandare di padre in figlio che non ha mai avuto un perché. Se le cause non gli interessavano, nutriva invece un forte interesse per i fini. Tutti quei gesti servivano a star bene con se stessi, a sentirsi in una gabbia di sicurezza, a trovare una certezza entro un confine ben delimitato. E lui di paletti e confini si intendeva molto bene; la sua vita era stata segnata sin dall’inizio dalla teoria dei paletti e dei confini, quando aveva troppo presto dovuto decidere cosa avrebbe e cosa non avrebbe potuto fare per colpa di quel farmaco che lo aveva indelebilmente marchiato alla nascita. Con la borraccia piena, lavata, spolverata e rifatta come nuova, era ripartito per la discesa, senza sapere di essere destinato a veder crollare in una frazione di secondo quel muro di certezze costruito dalla teoria dei paletti e dei confini. Quella bici era un simbolo di riscatto, non di rivalsa. In altri campi si era esercitato e manifestato l’acido rancore della rivalsa, non sulla bici. Lì tutto aveva il sapore della vittoria, soprattutto al termine di una salita e nella sosta sul punto di scollinamento. Tutto era amico lassù. Mai avrebbe immaginato di essere colpito a tradimento proprio su quel terreno, l’unico in cui si era sempre sentito al sicuro. A quell’entità indefinibile che tanti chiamano destino fu sufficiente il primo tornante; non ebbe bisogno, lui, il male, la bestia, il fato di pensarci troppo su come rivelare castello di carte quello che era stato fino ad allora guardato e difeso come un fortino di robuste pietre squadrate. Alla bestia bastò una curva, un gioco beffardo di luci che lasciò in ombra una macchia d’olio appena lasciata da un trattore. Claudio sul lettino dell’ospedale ricordava solo di aver scavalcato il confine della strada e disse al medico una frase che più volte avrebbe ripetuto da allora, ma nessuno avrebbe capito: “Non ho saputo mettere i paletti questa volta. Non mi era mai capitato.” Pierpaolo lo vedeva decisamente abbattuto in quella condizione di bisogno di aiuto altrui. Sapeva quanto avesse sempre odiato ricorrere agli altri. Aveva lottato per questo. Non voleva sussidi di invalidità, non aveva nemmeno voluto sostenere quelle visite medico-legali che Pierpaolo tante volte gli aveva consigliato. Aveva una fiducia incrollabile nella sua teoria dei confini e dei paletti: sapeva quali erano i confini e sapeva dove e come potevano essere spostati i paletti. Non più adesso. Quella macchia d’olio ha messo in un batter di ciglio in crisi un sistema costruito in una vita intera di sofferenze e di dolori e lui, medico da una vita, non si capacitava al pensiero di come una persona avesse potuto affrontare, tollerare e superare tali tormenti. “Quando venisti a trovarmi in ospedale mi dicesti una cosa che non dimenticherò mai: ‘ho tanti amici che vanno in bici e per tanti ho temuto, ma mai per te.’ Eri sconvolto quel giorno.” Pierpaolo non rispose subito. Dosò le parole della risposta: “Era impegnativo affrontare la teoria dei paletti. Sembrava che …” non riuscì a finire la frase “… che fossi stato un idiota io a formularla e a crederci,” concluse Claudio. “No. Non volevo dire questo.” “Non lo vuoi dire, ma lo hai pensato. Sai, ti voglio dire una cosa, amico mio: sei tu quello che ha ragione. Tu hai sempre stramaledettamente ragione.” Fu a quel punto che Pierpaolo capì che nulla sarebbe stato più come prima.

Uscì dalla doccia e si mise solo un paio di jeans, perché aveva ancora torace e schiena bagnati. Amava sentirsi ancora un po’ di acqua sul corpo. Lo faceva sentire più pulito. Si stava sedendo davanti al suo computer, quando suonò il campanello. Andò a rispondere al citofono. Non rispose nessuno. Andò allo spioncino della porta e vide una persona che la scarsa illuminazione del pianerottolo per via di una lampadina fulminata, più volte segnalata all’amministratore del condominio, non consentiva di distinguere. “Chi è?” chiese ad alta voce. “Serena.” Aprì. Serena sorrise e gli mise le braccia al collo. Lo baciò affettuosamente. Lui mise le sue braccia tremanti sui fianchi di lei, che lo continuava ad abbracciare, accarezzandogli il petto nudo ancora bagnato. Non disse nulla. La porta si richiuse alle loro spalle. Aveva parlato con Valentina che le aveva detto che non doveva preoccuparsi di lei. ‘Sto bene. Ci sono persone che stanno peggio di me e hanno più bisogno di quanto ne abbia io,” le aveva detto al telefono, con un tono tra il distratto e lo scontroso, non pensando a nessuno in particolare; generica allusione. Lì non c’erano più risposte da cercare, pensò Serena. Restava allora solo quella frase che lui aveva pronunciato al bancone. A quella non aveva dato ancora risposta. Doveva darla. Si alzò sulle punte dei piedi e sfiorò le labbra di lui con le sue. Le mani di lui smisero di tremare sui fianchi di lei e la strinsero con forza.

Quando Claudio si rialzò dal letto, Serena stava uscendo dal bagno.

Credo di essere stato un idiota.”

Perché dici questo?”

La teoria dei paletti …”

Cosa?”

La teoria dei paletti è una grande boiata.”

L’idea

L’idea per un racconto è qualcosa che ti arriva nella mente, nei modi e nei tempi più disparati, e poi, quando hai finito di comporre il primo abbozzo del testo, ti chiedi che attinenza avesse quella cosa, per la quale hai osato persino scomodare la religione e chiamarla ‘ispirazione’, con la sequenza di parole che alla fine ne è uscita. Il bello di tutto questo è che quell’idea, proprio per questo, finisce per essere sempre valida all’inizio, ma cambia forma, si snatura, talvolta fallisce proprio nel suo intendimento alla prova dei fatti. Che sia proprio perché ha a che fare con la spiritualità? A lungo me lo sono chiesto, perché qualcuno mi ha messo, come spesso succede, la pulce nell’orecchio. Ora non mi interessa più: la parola la esprime e le dà una forma, che può piacere o non piacere, e quindi vive di una sua provvisoria e sempre perfettibile relatività. Alla fine dei giochi, se non ci fosse sempre un margine di miglioramento, sarebbe come se un atleta si allenasse per avere sempre le stesse prestazioni. Il bello dell’idea è proprio la sua plasticità, meglio se un po’ mimetica, all’uopo. Lasciatemela. A me basta questa. Per il resto, fate voi.

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