La recensione

“Come si scrive la recensione di un grande capolavoro, professore?”, chiese il più giovane dei due unici passeggeri, sfogliando un libro che teneva tra le mani in modo apparentemente distratto.

“Qual è il capolavoro?”, rispose il più anziano con le mani sul bastone.

La verità sul caso Harry Quebert di Joël Dicker.”

“L’ho letto anch’io. Davvero un capolavoro.”

Il treno ripartì con quello sferragliare sinistro che i convogli delle metro riescono a produrre soltanto quando in serata sono ormai vuoti. O meglio tu senti più distintamente quel rumore che in altre circostanze forse non riusciresti ad avvertire.

“E dunque, professore?”

“Dunque è un capolavoro.”

“Perché? Che cosa fa di un libro un capolavoro secondo lei?”

“Le parole e i pensieri; come i pensieri diventano parole, come le parole esprimono i pensieri. Gli uni non esistono senza le altre. È un ciclo frenetico, un ridda che si svolge nella tua testa, che tu vorresti fermare, ma pochi ci riescono. Quelli che ce la fanno sono i bravi scrittori.”

“E allora mi dia uno stimolo. Se dovesse recensire quel libro da dove partirebbe?”

“Da Nola.”

“Non da Harry?”

“No. Partirei da Nola e dalla sua storia di frontiera, ma di una frontiera a cui tutti apparteniamo; si tratta di quella frontiera labile, impercettibile, sottilissima che separa l’amore dal dolore. Nola è un personaggio meraviglioso che emana una forza incredibile con la sua sofferenza che sfuma in una passione adolescenziale pura, ingenua, ma anche bisognosa di libertà. Nola vuole la libertà e la chiede all’impossibile, adorato Harry, che ha più del doppio dei suoi anni.”

Lo stridio dei freni, assordante nel silenzio della tarda serata, li interrompe. La porta della vettura si apre. Entra un giovane che attira la loro attenzione. Zoppica vistosamente trascinandosi una gamba. Il viso è parzialmente deformato da quel difetto che comunemente si chiama labbro leporino. L’uomo, probabilmente senza fissa dimora, passa accanto a loro barcollante, lasciando una forte scia di alcool. Si siede. Il più anziano, osservato il nuovo arrivato, dice allora rivolto al più giovane:

“Oppure partirei da Caleb, che un’aggressione da parte di una banda di violenti lascia sfigurato e costretto a vivere, lui ancora giovane, una vita ai margini, anche lui su una frontiera, costretto a patire, come scrive Dicker, un amore per procura, un amore per Nola, perché a lui l’amore sarà precluso per sempre.”

“Professore, oggi a lezione ha parlato della parola. Mi è rimasta impressa questa frase che ho annotato. Lei ha detto che la parola è un contenitore di significati opposti, è la più grande menzogna e la più grande verità allo stesso tempo. Mi chiedo adesso se stesse forse pensando a questo libro.”

“Può darsi. Del resto questo tuo pensiero è espresso con parole, che possono contenere sia verità sia menzogne.”

“Non mi prenda in giro.”

“Non ti sto prendendo in giro. È così.”

“Insomma, professore, come si potrebbe definire questo libro? Appartiene a un genere?”

“Che importanza ha? Tu avresti piacere se uno ti incasellasse in uno schema?”

“No, direi di noi. Cioè, sarei portato a dire di no.”

“Perché questa incertezza?”

“Perché forse qualche volta trovarsi parte di uno schema ci fa sentire tranquilli.”

“Chi si sente tranquillo non osa e chi non osa uscire dallo schema non sarà mai libero. Vola!”

“Sì, insomma, più o meno come la trama di questo libro, professore. È la trama di un thriller, con un finale pieno di colpi di scena architettati in modo magistrale. Ma non mi piace considerarlo un thriller. Sarebbe riduttivo.”

“È nell’essenza delle parole essere sempre riduttive. I libri sono come le parole. Quelli più belli sono quelli che non hanno mai una fine. E così le parole più belle sono quelle che non hanno mai un significato definito, incasellabile in uno schema. La parola è riduttiva per natura. E per questo è libera, perché ciò che è riduttivo potrà essere sempre perfezionato, integrato, limato, completato. E nessun perfezionamento condurrà alla perfezione, nessun completamento condurrà alla piena completezza.”

“Lo scrive Dicker in uno dei consigli di scrittura che Harry dà a Marcus, quando sostiene che il libro più bello è quello che non avrà mai una fine.”

“Sì, vero. E il personaggio di Marcus? Che posizione assume secondo te? Non mette forse in crisi ogni scolastico e convenzionale schema dei personaggi? Per questo ti invito a volare oltre le tabelle, oltre la rigidità delle barriere. Marcus Goldman è l’io narrante, ma non si può definire né un vero personaggio, né un testimone neutro, perché proprio il suo ingresso in scena sconvolge la presunta perfezione del piano che conduce alla morte di Nola. E poi la narrazione … Non è forse affascinante l’alternarsi di parti in prima persona con altre in forma di diario che s’immaginano desunte dal libro scritto da Marcus sul caso Harry Quebert? Non è forse magistrale il comportarsi della narrazione come la spola di un telaio che va continuamente avanti e indietro tra il 1975, anno della scomparsa di Nola e il 2008, quando il suo corpo viene ritrovato? Vedi? Adesso rifletti. Quanti stimoli ti ho dato per la tua recensione?”

“Direi che me l’ha praticamente scritta lei, professore. Sono quasi arrivato. Non la prossima, quella dopo è la mia. Vorrei farle un’ultima domanda, se permette.” 

“Ne hai facoltà.”

“Lei che cosa pensa, infine, del messaggio che questo libro potrebbe dare? Insomma, un recensore dovrebbe anche lasciare uno spiraglio aperto nella direzione, come dire?, di un certo fine. Chi legge si aspetta qualcosa, vuole arrivare a qualcosa.”

Il treno si fermò. Il giovane claudicante si avvicinò all’uscita. Salì una ragazza bionda, molto bella, che indossava un elegante vestito a fiori corto. Il giovane dal labbro leporino la squadrò. La ragazza lo vide, notò il viso deformato, notò l’andatura barcollante: avvertì un evidente imbarazzo. E con un maleducato spintone al giovane si recò a sedere, accavallando le gambe con un gesto così sensuale che il giovane si sentì ancora più offeso. L’anziano professore disse:

“Mi hai fatto una bella domanda. Mi sentirei di risponderti dicendo che quel romanzo è una sorta di inno all’impossibile dialogo tra la meraviglia della diversità e la banalità del normale. Tutti combattiamo invano perché vinca la prima. Ma la vita ci delude quasi sempre. Ecco, se vuoi, potresti scrivere questo nella tua recensione. A domani!”

Il giovane si alzò tenendo il libro in mano e, prima di scendere, disse: “A domani, professore! Ci vediamo in aula per la sua lezione. Non mancherò.” Uscendo, passò accanto all’altro giovane, quello probabilmente meno felice di lui, sicuramente meno fortunato. Gli si avvicinò attirando la sua attenzione e gli diede il libro dicendogli: “L’ho già letto. È molto bello. Sono sicuro che ti piacerà.”

“Grafie, è daffero molto ventile da parte fua. Accetto volentieri il fuo dono,” rispose il giovane esprimendosi in modo difficoltoso e con un marcato suono nasale, ma puntando su di lui due occhi di potente e rara vivacità.

Quell’eleganza inattesa, espressa con parole uscite da labbra così disarmoniche, quelle parole sonoramente distorte, eppure così dolci e raffinate nel pensiero che significavano, il tutto associato a quello sguardo così incredibilmente vivo, lasciarono nello studente il senso di colpa di essersi permesso di dargli del tu. La bella bionda, che aveva girato le spalle alla scena, prese in mano il cellulare e infilò l’auricolare nell’orecchio. Il giovane passeggero si sedette dietro di lei, sistemando faticosamente la gamba malconcia, e iniziò a leggere un libro che non avrebbe mai dimenticato. Apertasi la porta, lo studente scese. L’anziano professore osservò la scena, finché lo studente non scese dal treno. Infine, dal finestrino del convoglio che ripartiva, lo salutò con un pollice dritto in segno di approvazione e un eloquente sorriso. 

Il treno scompare con i suoi sinistri cigolii, con il suo carico di multiforme umanità: un anziano professore universitario che torna a casa dopo aver fatto lezione, una bella ragazza bionda incurante della sua solitudine in modo sprezzante, attratta nel suo mondo e con gli occhi calamitati da uno schermo, un giovane senza fissa dimora, disabile, contento di avere un libro da leggere. Fermo sulla banchina lo studente cerca di far vivere in parole quei pensieri. Il treno lascia l’illuminata stazione e scompare nel buio del tunnel. In quella galleria amore e dolore non riusciranno mai a cantare insieme un inno armonioso: ecco un possibile incipit per la recensione, pensa il giovane. È esattamente la stessa situazione che si verifica nella storia tra Harry e Nola nel libro di Dicker, entrambi portatori di un grande messaggio di amore e dolore, di menzogna e verità, di questa strana miscela di cariche dal potenziale opposto, grazie alla quale tutti noi possiamo procedere, senza necessariamente sapere dove, proprio come quel giovane che ora la sta leggendo. Non saperlo è bello in questi casi. Ma è bello anche giocare con parole che dicono insieme menzogne e verità, che con un unico suono possono cantare amore e lamentare dolore. È il bello della parola. Il giovane studente intento alla stesura della recensione non ricorda bene se Harry Quebert in uno dei suoi trentun consigli a Marcus Goldman lo abbia scritto. Ma tra sé e sé pensa che ci starebbe proprio bene.

Sogno

Qualcuno è convinto che scegliere ciò che è inconsueto sia segno di una sorta di superiore intelligenza, che l’andare controcorrente sia una necessaria manifestazione di coraggio, che optare per uno stile di vita originale sia meritorio di premio. Sarebbe semplicistico chiudere la questione sostenendo che si tratta di pure convenzioni. Talvolta queste affermazioni possono essere fondate. Ma non sempre è così vero. Chiudere gli occhi e lasciarsi infondere sentimenti e percezioni da una forza a te ignota aiuta spesso a capire il valore della sfumatura. Ebbene, quella forza ha agito e questa volta mi ha indotto a immaginare che la vita sia come quando voli come su un aliante. Hai bisogno innanzitutto di chi ti porta su, lo farà la tua famiglia, lo faranno gli amici, lo farà l’amore. Poi, una volta su, voli libero, senza motore, senza nessun altro ausilio che le forze che nella natura trovi, l’aria che ti pervade, il vento che ti mantiene sempre alto su tutto e su tutti, la luce che ti sfonda dentro dappertutto. E stai bene. Ma sopratutto lassù, nel dominio assoluto dell’unica forza che può pretendere di avere il controllo sul tuo corpo e sulla tua anima, quella natura a cui tu, in assoluta libertà, decidi di affidarti fiducioso, vivrai il piacere del silenzio e ne comprenderai il valore autentico. Senza quel silenzio, premio della tua libertà, non apprezzeresti mai il rumore becero e invidioso, acrimonioso e insidioso di chi resta sotto, servo di tutto e di tutti, e non potrà mai volare. La vita, volata così, è il viaggio più bello che si possa realizzare, comunque e ovunque, nonostante tutto. Da lassù ogni differenza sfuma, ogni errore di fabbrica risulta impercettibile, tutto quanto appare il prodotto di un sapiente disegno. Un disegno di chi ha potuto scegliere. E allora rifletti. E ti ricordi che non sempre nella vita puoi scegliere. È questo che ai più non va giù. Chi ha sempre avuto la pappa bell’e cotta e crede che tutto quello che ha, che possiede, che ha ottenuto, sia lì nelle sue mani, come qualcosa di dovuto o addirittura di scontato, raramente si rende conto di cosa significa conquistarselo. La solitudine, nel silenzio della libertà, aiuta allora a riconoscere anche questo. Stare sempre laggiù, nella presunta normalità, non lo consente, illude, travia, induce un’immagine fittizia della vita. La solitudine invece aiuta a creare sempre qualcosa, perché nella solitudine pensi, correggi, emendi, consegni; aiuta ad apprezzare anche un errore di fabbrica per quello che è: non l’hai scelto tu e quello che hai tu vale il doppio, proprio perché tu hai avuto quegli strumenti idonei per valorizzarlo e per capire la bellezza di tutto quello che per i più è scontato e addirittura spesso dozzinale.

E allora il sogno fa il suo mestiere. Costringe nel caos la memoria. Inizia il suo andirivieni nel tempo e ti riporta a un colloquio con un amico che, in un mio periodo di malattia, mi aveva detto di percepire una specie di ansia da solitudine nelle mie parole. Lo dovetti correggere immediatamente. Perché ansia? Da che punto di vista osservava la solitudine? Dal basso o dall’alto? Dal caos e dal disordine terrestre o da questa meraviglia di armonia che il silenzio del cielo comunica? Lui mi disse che il dolore ha il potere di togliere ogni dignità alla persona e che questo produce effetti collaterali. Aggiunsi: anche la fiducia e la credibilità vengono tolte, perché chi non vive la quotidiana guerra non lo può mai capire. Avvertii allora la necessità di correggere il tiro e di dare alcune spiegazioni. Dissi che in questi casi sarebbe sempre meglio tacere e lasciare che gli altri pensino quello che sono liberi di pensare; meglio tacere e non lasciarsi prendere dalla tentazione di pensare come quella persona, che non ha fatto il minimo sforzo per comprendere, possa reagire in queste condizioni; meglio tacere sempre, nella consapevolezza che, appena avverti il bisogno di condividere il dolore, l’altro ne sta già cercando uno suo e pensa a se stesso e non a te; meglio tacere e, appena possibile, fare una gran risata esorcistica. Ma solo per te stesso. Gli altri, lascia perdere. A meno che? Sì, ci può essere un’eccezione. Nel caso che anche l’altro soffra, allora tutto potrebbe cambiare. Due sofferenze possono annullarsi in un amore? Assolutamente sì. Come in matematica: meno per meno dà più. Ma è un caso molto raro.
L’amico mi rinfacciò che avevo poca fiducia nell’altruismo. Anche quello era vero, ma solo in parte: l’egoismo è il peggiore dei mali, senza dubbio, perché tutti in un modo o nell’altro siamo egoisti; ma l’altruismo è facile da imparare e riconoscere agli altri sono in teoria; una cosa è imparare l’altruismo, altra essere altruista; ce ne corre, come sempre del resto tra il dire e il fare. Nel capolavoro di Joël Dicker La verità sul caso Harry Quebert, in uno di quei dialoghi sulla scrittura dal tono quasi filosofico tra Markus ed Harry che costituiscono quasi una sorta di intermezzo tra un capitolo l’altro, il secondo sostiene che una cosa è imparare la scrittura, un’altra essere scrittori. Insomma, la verità viene dalla realizzazione dell’opera finale, la risposta alla tenacia dell’allenamento settimanale viene dal campo nella partita della domenica.

Gli dissi allora che la solitudine è una condizione a cui ci si deve abituare, perché prima o poi capita a tutti. L’anziano vive solo, perché spesso perde gli affetti, anche dei suoi stessi familiari. Il disabile spesso vive solo, vuoi perché le strutture esterne lo costringono a dipendere dagli altri e a sentirsi protetto soltanto tra le mura di casa, vuoi semplicemente perché la società in cui viviamo trova più comodo compatirlo che aiutarlo. Il marito separato spesso vive solo, perché per l’uomo stringere relazioni è più difficile che avere conoscenze superficiali, mentre per la donna pare sia più facile. Il timido può trovarsi solo non perché meno coraggioso di altri, ma proprio perché lui, meglio di altri, sa quanta paura provochi una relazione avviata in modo improvvido e quanta delusione derivi da un’illusione lasciata alla deriva come la nave il cui timoniere si è addormentato o si è lasciato sedurre dalle sirene del momento. Tante persone che confidano troppo nella profondità dei sentimenti vivono sole, perché per loro la vita è una cosa fin troppo seria, quasi una pretesa. Ma vista da una prospettiva atipica come questa, dal vetro di un velivolo senza motore, dominato completamente dalla bellezza della natura, fiducioso totalmente nelle forze di quella, la solitudine, di cui l’amico mi avvertiva di essere preda, appare invece un prisma dalle tante sfaccettature, assai più complesso e per questo più intrigante da studiare. Gli dissi che la solitudine è come una montagna dolomitica, che per i più è bella solo se ammirata dalla parte fotografata da tutti, quando invece avrebbe mille altri scorci da indagare, quelli che soltanto i suoi veri intenditori conoscono e sanno rispettare; che la solitudine è un paesaggio malinconico nell’immaginario comune, può anche diventare un ricettacolo di rifiuti se la vivi male, può consentirti di vedere la vita da un’angolazione inconsueta e riservarti il godimento di una bellezza che mai avresti immaginato prima. Non esiste una definizione universalmente condivisibile. Quassù lo comprendi molto bene. Nel sogno tutto ha il potere di sembrare sempre chiarissimo. Gli dissi anche che la parola viene da un vocabolo latino che significa semplicemente luogo disabitato, e basta: tutti possono aggiungere quello che preferiscono, tutti la possono intendere come vogliono, tutti la possono fare propria come preferiscono. Oggi aggiungerei a quella riflessione di allora che la sua vastità è la sua bellezza.

Al risveglio dal sogno, ti resta questa riflessione, e non è poco: il viaggio della vita, senza la libertà di quel silenzio di cui ti sei inebriato lassù, nell’incanto della solitudine desiderata e meritata, e da cui non ti saresti mai voluto destare, è come un treno senza un luogo d’arrivo, una strada imboccata senza una meta, una passione attraversata senza amore, un’avventura che s’impaluda nelle melme dell’effimero. Senza il sogno quel viaggio non sarebbe possibile. Solo il sogno lo rende reale. Solo il sogno ti dà il premio.

È il silenzio nella libertà, su un aliante fiducioso delle forze che lo sostengono e lo governano. È il silenzio della libertà, la cui fiducia è tutta quanta in quella natura e in quella forza che ti ha plasmato.

In viaggio con il trapano

Se certa letteratura, spesso di moda, viene definita distopica, Hotel Silence di Auđur Ava Ólafsdóttir (Einaudi, Torino 2018, ed. or. del 2016), che quando uscì ebbe un grande successo, lo definirei atopico. Tra le tante definizioni che i recensori hanno dato la più diffusa è sicuramente quella di romanzo poetico, soprattutto per lo stile originale della scrittura. Ma la definizione di atopico forse rende ragione degli spazi narrativi in modo più rispettoso della finalità della scrittura.

Jonás, abile a lavorare con le mani e a riparare tutto, parte per mettere fine a una sua prima vita, dopo aver saputo che l’unica persona rimastagli, la figlia, non era in realtà figlia sua, e ne ricomincia un’altra nel luogo più improbabile che un islandese possa immaginare, un luogo altro in tutti i sensi, un paese su un mare placido, diversamente dal grande oceano a lui noto, un paese in uno stato appena uscito da una guerra civile, diversamente dal suo che non conosce guerre da quasi un millennio, un paese dove il dolore è tutto nei corpi devastati e mutilati dalle mine, diversamente dal suo dove ci si suicida per la noia. Ci arriva senza bagagli, solo con un trapano e un gancio da attaccare al posto del lampadario per appenderci se stesso. Ma quel trapano servirà ad altro, inaspettatamente: servirà a ridare una fiducia a persone che l’avevano smarrita. La ditta di riparazioni Gambe d’acciaio srl, che aveva lasciato alla figlia partendo dalla sua terra, riprende anima per fare le protesi delle vittime delle mine lasciate dalla guerra in quello d’elezione. Il libro risulta alla fine un canto alla gioia di vivere messo sulle labbra di una persona paradossalmente intenzionata a morire: questo è di certo il punto di forza che ne ha decretato il successo. Jonás è una meravigliosa metafora della possibilità di rinascere, quando tutto apparentemente ti è crollato addosso, quando ti rendi conto di quali e quanti siano i veri dolori dell’umanità, arrecati da una guerra. Jonás dà un calcio a un mondo dove tutto è sano e pulito, tutto è ordinato e preciso, per ritrovare se stesso in un altro devastato dalla guerra, dal disordine, dalla quotidiana precarietà, dalla necessità di arrangiarsi. Questo è Hotel Silence.

Il farmaco dell’ironia

Leggere questo libro di Matteo Bussola, La vita fino a te (Einaudi, Torino 2018) è come prendere una macchina fotografica o un cellulare e scattare tante istantanee della propria vita, poi lasciarle lì e affidarsi al potere della memoria, senza pretendere che sia perfetto nell’ordine in cui un giorno le recupererà per farne oggetto di una narrazione. Libro divertente, senza dubbio alcuno. Libro che, se l’obiettivo che si prefigge è quello di divertire, lo raggiunge sicuramente. Non sottovalutiamo mai questo aspetto: se chi scrive lo fa anche per divertirsi, non necessariamente divertire se stessi significa divertire anche altri. Ma è anche un bel libro perché guidato costantemente da un disincanto ironico, che è tipico di chi se lo può permettere, che il lettore di oggi vorrebbe sempre ma non può sempre trovare. Quante volte, tra appassionati di lettura e anche di scrittura, mi sento dire “adoro tantissimo l’ironia nella narrativa”, oppure “il prossimo libro che scriverò lo scriverò con ironia”, oppure ancora “scriverò un libro comico, ma nella sostanza ironico”. Sono frasi che ho sentito recentemente sulle labbra di amici e conoscenti. Ma non tutti ci riusciranno. Il consiglio che mi permetto di dare circa l’uso dell’ironia è quello, banale quanto volete, di leggerla tanto quando viene praticata da chi sa fare a servirsene e Matteo Bussola, per esempio, è uno che ci sa fare, sicuramente aiutato anche dal fatto di essere un fumettista, oltre che dalla sua esperienza di vita, che non mi interessa conoscere, né tanto meno giudicare. Il recensore, spesso lo dimentichiamo, esercita la sua critica sul libro e non su chi lo scrive. Eppure, questa volta occorre una riflessione personale e avverto la necessità di uscire dai canoni e dalle convenzioni della recensione, perché a me è stato richiesto di usare l’ironia più spesso. Alcuni mi dicono che avrei la propensione a usarla. Ma per me è come una medicina: un medico ti consiglia un dosaggio, un secondo te ne consiglia un altro, ma tu, che ti conosci da una vita e che magari quel farmaco o uno simile lo usi da tempo, hai una tua idea che non va d’accordo né con il primo, né con il secondo consiglio. E allora? Non so dare una risposta, se non quella di indicare una via da percorrere ma con lo stesso rischio di quando ci si affida a un navigatore e poi si finisce tra le pannocchie in mezzo a un campo di mais: l’ironia usatela quando la sentite venire fuori da dentro; non usatela se ve la consiglia un altro; se la sentite venir fuori, lasciatela andare, perché non ha bisogno di freni: è già lei un freno al comico; l’ironia è già di per sé una specie di cucchiaino dosatore che, se usato bene, vi eviterà di commettere errori. Non usatela in nessun altro momento. Solo quando la sentite. E se volete un consiglio vero, leggete questo libro.

Biglietti di viaggio

Tre ragazzi diversi, Clo, Filippo Maria e Giorgio sono i protagonisti di questo libro di Enrico Galiano Tutta la vita che vuoi (Garzanti, Milano 2018). Tre vite con diverse peripezie. Tre vite che hanno tutte bisogno di quel botto salutare che le faccia esplodere. Tre vite che hanno un retroterra di sofferenze diverse: una famiglia mai avuta, una famiglia troppo famiglia che vive fuori, una famiglia troppo importante che vive in pieno centro. Tre ragazzi che hanno tutti un problema vero e che insieme, mescolando le loro differenze e i loro tic, troveranno il modo di partire finalmente per quel grande viaggio che è la maturità e affrontare tutte le sue incognite. Insomma, un metodo veramente originale per offrire un’interpretazione del genere del romanzo di formazione, se proprio vogliamo ricorrere a definizioni convenzionali. Il modo in cui i tre ragazzi sono caratterizzati non può non colpire sin dalle prime pagine il lettore, soprattutto per la capacità di entrare nella particolare condizione di differenza che ciascuno di loro vive: la balbuzie di uno che arriva tardi al funerale del fratello e non sa cosa fare se non rubare una macchina, le umiliazioni scolastiche di un altro che un insegnante di fisica maltratta e lo costringe a fare il botto in classe, il destino di Clo costretta a vita raminga e che affida se stessa a una scatola di bigliettini che scrive in continuazione e che scandiscono la narrazione del libro. In quei bigliettini di Clo ci sarà la soluzione. Solo insieme potranno trovarla, mescolando le proprie differenze e facendone un monumento. Sullo sfondo una città di provincia con i suoi riti immutabili, i suoi personaggi ricorrenti e rispettati come tali, perché servono così come sono. In primo piano tre ragazzi che danno una risposta forte ai propri sentimenti e al bisogno di affrontare in autonomia il proprio rito di passaggio, quella risposta che tutti ancora vorremmo dare e che, se ci riusciamo, non ci farà mai pentire.

Dietro le quinte di una lezione sul Fato

Nam lacrimis nostris nisi ratio finem fecerit, fortuna non faciet: se la ragione non metterà fine alle nostre lacrime, ci penserà la sorte. Lo scrive Seneca per consolare Polibio, il potente liberto dell’imperatore Claudio, per la morte del fratello. Seneca nutre una convinzione e non la cela: esprime in questo testo con sentimento indubbiamente forte l’energia con cui un destino prefissato può guidare l’esistenza, un fato inteso come qualcosa contro cui è assolutamente impossibile e inutile combattere, qualcosa da accettare. Insomma, un Seneca che fa a botte con quel presunto precursore del cristianesimo che in modo goffo e ridicolo ci venne insegnato a suo tempo, ma che costituisce comunque un’interessante prova di come la rappresentazione dei fatti può imprimersi nella mente delle generazioni più dei fatti in sé e per sé. Ma la parte costruttiva del discorso consiste nel dichiarare che questa accettazione non deve essere il risultato di un processo fatalistico con intendimenti rinunciatari, bensì deve essere il prodotto di un esercizio attento e oculato dei mezzi della ragione. Poche righe prima Seneca aveva scritto qualcosa di molto più forte. Diutius accusare fata possumus, mutare non possumus; stant dura et inexorabilia: noi possiamo accusare il destino quanto a lungo vogliamo, ma cambiarlo non potremo mai; si opporrà in modo tenace e inesorabile. Il tutto viene argomentato con una lunga serie di inutili rimbrotti e infruttuose lamentele, che sottraggono tempo prezioso all’azione e alla riflessione su se stessi e sui propri vizi non sufficientemente curati, tema del resto profusamente svolto nel De brevitate vitae e in vari passi di altre opere. La conclusione è di quelle lapidarie, che toglierebbero la voglia di replicare anche al più provetto esperto di dialettica: lacrimae nobis deerunt ante quam causae dolendi. Le lacrime a noi verranno meno prima delle ragioni per cui abbiamo provato dolore. Queste ultime, dunque, resteranno e renderanno inutili le prime, perché nulla cambia di ciò che è scritto. Perciò la conclusione della consolatio consiste nel richiamo a Polibio al senso del dovere e della responsabilità nell’esercizio del suo ruolo pubblico. Troppo sbrigativamente si è inteso leggere in questa finalità quel doppio fine consistente nel volersi ingraziare il potente uomo di corte perché fosse annullata la sentenza che aveva confinato Seneca in Corsica, dove tra l’altro molti lo avranno anche invidiato e da dove scrive queste righe. Non intendo naturalmente negare che Seneca abbia avuto questo secondo fine, ma, avendo più volte letto e riletto questi passi, mi piace pensare che lo abbia fatto coniugandolo perfettamente e coerentemente con la propria visione dell’officium e del senso di responsabilità, che mutuava dalla frequentazione degli scritti dei pensatori stoici. Questo mi piace pensare. L’uomo non può riscrivere il proprio destino, ma deve usare la ragione per uniformare ad esso la sua esistenza. Se non pratica questo quotidiano esercizio, sarà destinato a piangere sull’inutilità del suo stesso pianto.

Ebbene, con un’amica si parlava in chat proprio di questo ieri sera. Anzi, per la precisione si parlava del destino e dell’amore, di come l’uno si coniuga con l’altro. Come ci siamo arrivati? È sempre un esercizio intrigante quello di capire come un dialogo a cena, una discussione, una conversazione a due, una chat arrivi a un certo traguardo dopo essere partita da un certo punto che non si ricorda mai bene quale fosse. Fu così che, giunti alla conclusione che esiste un destino e che piangere sul proprio dolore non serve a niente, proprio come Seneca scrive a Polibio, mi sono poi chiesto come fossimo arrivati a quella conclusione. Ed ecco che allora, ripercorrendo a ritroso la conversazione, scopro che l’irritazione mi ha condotto lì. Esatto, avete letto proprio bene: l’irritazione. Ero irritato. Sì, ero proprio irritato dal fatto che dall’altra parte del filo che collegava noi due conversanti ci fosse una persona convinta che l’amore prima o poi arriva, perché così è scritto anche negli astri. Per quanto non possa negare una certa curiosità da sempre per la questione dell’influsso astrale sulla vita, non ho mai avuto un vero interesse a indagarla, forse per mancanza di stimoli, forse anche per quella parte invisibile dell’educazione familiare che nella vita rappresenta un cordone ombelicale mai perfettamente reciso. Eppure a un certo punto mi sono irritato, quando ho sentito parlare di relazioni tutte capitate e tutte guidate per il verso giusto, proprio secondo quanto previsto dagli astri. Il motivo dell’irritazione è venuto proprio da questa lettura senecana, un testo preparato per i miei ragazzi di quinta, che mi ha indotto nella conversazione serale a riflettere su qualcosa che nella mia vita si è verificato, eccome, e che non riesco proprio a coniugare in nessun modo con questa fiduciosa e ottimistica convinzione che gli astri possano aiutare a guidare bene l’esito dei nostri passi. Due lime sorde: ciascuno andava avanti seguendo il proprio filo, senza che si potesse trovare un modo per venirsi incontro. Il mio punto di vista era questo: nella mia vita il destino ha guidato i miei passi proprio nella direzione opposta e, se gli astri e la loro presunta armonia, che organizzerebbe e darebbe ordine a tutto il creato e che non dovrebbe essere in disaccordo con i postulati cristiani della carità universale, avessero avuto una sorta di accordo e di armonia con questo destino, non mi troverei costretto a riflettere su quei temi che tanto spazio hanno nelle pagine di questo mio sito.

Non è difficile concludere che la riflessione di Seneca dà la sintesi di quello che sempre ho ritenuto e la lapidaria affermazione, divenuta con il tempo proverbiale, dell’epistola 107 a Lucilio Ducunt volentem fata, nolentem trahunt, il Destino guida chi lo vuole, trascina a forza chi non lo accetta, è per me qualcosa di talmente vero, reale, dimostrabile in tutti i modi possibili, che mai mi sentirei di metterlo in discussione, sulla base non di letture, non di teorie o ipotesi interpretative più o meno accademiche, ma sulla base della mia esperienza di vita, di quanto l’esempio della mia persona può offrire alla riflessione degli altri. Nulla cambia di ciò che è scritto. Lo disse il filosofo stoico Cleante, attivo tra IV e III sec. a.C,, lo cita Cicerone, lo riprende e lo fa lapidariamente suo Seneca in un contesto di una tale chiarezza espositiva che non lascia margine a equivoci. E nemmeno la lettura del quinto libro del De civitate Dei di Agostino, dedicato proprio al tema della provvidenza, riesce, per il momento, a convincermi, perché quell’esercizio della libertà e della volontà dell’uomo, che il vescovo di Ippona tanto valorizza nel proprio pensiero, non ritengo che sia una prova della prescienza divina, ma, al contrario, della possibilità che ha l’uomo di accettare o no quanto già scritto per lui. E lo ripeto, non dico questo sulla base delle letture e degli studi; lo sostengo sulla base di una memoria di vita e di un vissuto individuale che si distende e s’imprime su una grande e preziosa pergamena lunga mezzo secolo.

Decisamente forte il contrasto con quanto l’amica ha sostenuto in modo convinto. Ma è in quel momento che il Fato agisce. Ti viene una strana idea. Nella maschera di ricerca del computer scrivi “Destino”, poi selezioni Immagini, poi lo correggi in inglese, “Destiny”, cambia una sola lettera, ma cambia un mondo. E quel Destino allora mette davanti alla tua anima un disegno di Klimt, un nudo di donna, un’opera che l’archivio della ragione non sa in quale sezione di protocollo collocare, né tanto meno saprebbe dire perché sia saltata fuori. Informandoti su quel disegno trovi un testo forte, una lettera in tedesco con parole che ti penetrano direttamente nel cuore e hanno un curioso potere di mettere in moto quegl’ingranaggi dell’anima che sembrava non aspettassero altro. Grazie a quell’immagine ti rendi conto che proprio dalla ricchezza di questi contrasti si può apprezzare la meraviglia dell’amore, esattamente come si trovò a dover considerare in quella lettera Gustav Klimt, quando, di fronte allo splendore ammaliante dei mosaici di Ravenna, non poté non riflettere sulla miseria e sulla povertà che li attorniava, appena fuori dagli edifici che li contenevano. Il destino conduce anche a questo: a desiderare l’amore come un fine che affascina e strega, ma senza avere alcuna idea, se non puramente spirituale, di quale sia il mezzo con cui si possa raggiungere quel traguardo. Il Fato lo sa. A te non compete saperlo. A te compete lottare contro tutto quello che lui ti mette intorno per impedirti di saperlo. Ma dentro uno scrigno antico, dentro una piccola bomboniera, dall’aspetto esteriore anonimo e quasi decadente come il mausoleo di Galla Placidia, si può aprire per te un universo di emozioni che non sai mai dove ti possono portare. A me piace pensare che l’amore sia questo: un agone continuo per conquistare qualcosa di idealmente perfetto proprio là dove mai ti aspetteresti di trovarlo, proprio là dove lo spirito entra in armonia con il destino. Ma sta a te conquistare questo premio. Leggendo Seneca, meditando su Agostino, ma con gli occhi distratti da un disegno di Klimt, mi sono sentito su una strada che potrebbe anche essere quella giusta. Tre stimoli diversi, ma straordinariamente complementari tra di loro. Non posso dirlo ai ragazzi domani in classe. Ma a me piace non dimenticarlo. A me piace che resti una traccia di questo ennesimo sogno meraviglioso.

Tre anni di parole

Il gestore mi ricorda che sono tre anni di sodalizio. Non sono certamente un blogger e non ho certamente la propensione innata alla comunicazione non testuale, multimediale e via dicendo. Lo ammetto, non sono nato in questa generazione. Appartengo a una cultura in cui il testo è quello costituito, tessuto appunto, di parole cucite insieme, che prendono vita su una pagina, senza il necessario supporto di un’immagine o di un video. Scrivo parole. Le compongo all’antica. Il codice è la lingua italiana, che ho imparato dalle labbra della mamma e da quelle del babbo: insomma, una tradizione autenticamente biologica. Il canale, soltanto quello, è un po’ diverso.

Quanto al canale, devo ammettere che aver trovato un contenitore così anomalo e così lontano dal mio modo di vedere la comunicazione per tutto quanto prodotto in tanti anni di scrittura è stato molto utile e mi ha consentito di recuperare, trascrivendoli, testi prodotti con carta e penna in anni in cui un M24 Olivetti come sostituto della macchina da scrivere non avrei mai immaginato che sarebbe entrato in casa. Arrivò, quell’M24, come regalo di compleanno da parte del babbo per la mia tesi di laurea. Correva l’anno 1987. Ora c’è un Mac assai più evoluto, ma che più o meno svolge sempre quella funzione, oltre a tante altre: aiutare le parole a prendere una forma su una pagina, auspicabilmente senza litigare fra di loro.

A questo punto, la domanda che viene spontanea è quale senso possa avere dedicare tanto tempo a scrivere in un mondo in cui si legge sempre meno e addirittura spesso ci si vanta proprio di non leggere niente. Mi rendo conto di andare sicuramente controcorrente non solo leggendo – anzi, leggendo animato proprio da una passione che negli anni non è mai venuta meno – ma anche scrivendo perché altri leggano. Non mi interessa questo tipo di pensiero che nutro ancora la convinzione di ritenere perdente, benché maggioritario. Del resto, se essere maggioranza dovesse significare essere per una sorta di perverso automatismo mentale dalla parte del giusto, l’umanità sarebbe già arrivata al capolinea. E invece non solo non ci è arrivata, ma grazie proprio a quelle minoranze riesce anche a produrre qualcosa di educativo per la maggioranza, spesso a sua insaputa. E questo è molto bello, il fatto che il processo si attui senza che ce ne accorgiamo, quasi per magia.

A questo punto del ragionamento lasciatemi dire che saper apprezzare una buona lettura è ancora un modo per crescere e imparare. Anche scrivere lo è, naturalmente. Sì, perché scrivendo si impara, esattamente come leggendo. Che cosa si impara? Devo dosare le parole a questo punto, perché quello che sto sostenendo può apparire banale, se letto nel contesto sbagliato, oppure con gli strumenti inadeguati, oppure in una condizione di non sufficiente attenzione e concentrazione. Ebbene, dopo anni di scrittura, posso serenamente affermare che scrivendo si impara la libertà. Si mette in pratica il valore più bello che si ha: sognare in libertà, dare libera forma a un’idea, a un’emozione, a un ricordo, a un sogno, liberare i sentimenti e rendersi conto che non è vero che la ragione li tiene incatenati, che tu sei libero di spezzare come e quando vuoi quelle catene.

Sognare con le parole è la forma più bella di libertà che ho vissuto. E se anche per voi è così, mi accontento di poco: basta che facciate click su Mi piace. Anche questa è una forma di libertà.

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