Nostalgia

Esco dal ristorante. Una domenica tra amici in collina si trascorre tra ricordi e progetti, tra passato e futuro, lì in quel sottile filo di demarcazione che dovrebbe chiamarsi presente, ma che, proprio in quanto tale, riesce sempre a sfuggire e ti costringe a barcamenarti tra due abissi in cui lasciarsi cadere è bello ma allo stesso tempo rischioso, intrigante ma pieno di interrogativi: i due abissi in cui sei incerto di cadere da una parte o dall’altra del filo sono quello della memoria e quello degli intendimenti, irti entrambi di domande dalle difficili risposte. La fine del pranzo sembra liberarmi da quella sensazione di essere vissuto in un limbo sospeso senza una risoluzione. L’uscita all’esterno apre altri scenari. L’aria resa asciutta dalle carezzevoli folate di tramontana ha sempre il potere di emozionare chi è abituato a quella pesante e umidiccia della bassa, che ti si appiccica addosso e ti opprime tutto, non solo i polmoni. Quell’aria lassù ha una sorta di potere speciale, ammaliante: la memoria allora lavora e ti fa sentire libero come quando il babbo te la faceva respirare in quel paesaggio di irti pendii boscosi e possenti frange rocciose, che adoravo più di qualsiasi altro, quando, meritato il riposo della salita, sulla cengia o sul pianoro, sul valico o sulla forcella, potevo ammirarlo sicuro e fiducioso nei miei mezzi, tutt’altro che scontati. Chi si sente libero è invitato ad alzare lo sguardo e a vedere lontano, per evitare il peso della memoria, o anche per cercarlo ma con quello speciale sentimento di nostalgia mai fine a se stesso, mai condito di rimpianto. La montagna, la sua aria, i suoi venti, il suo spirito che sa parlare una lingua amica a me fa questo effetto. Affascina. La bassa, invece, mi invita a stare a testa china, mi fa sentire servo di una memoria che è parte indissolubile di me, ma non amo portarmi a spasso. Mai. La montagna mi sprona al meglio, mi eleva; la bassa mi deprime e mi debilita. Sono gli effetti di quelle radici che si piantano quando cresci e che ti tengono abbarbicato al tuo destino. Se le recidi, perdi tutto. Loro ti tengono lì. Anche se tu cerchi di prendere altre strade in una direzione o nell’altra, anche se tu ti innalzi, come è giusto che nella vita accada, alla fine, prima o poi, ti ricorderai sempre di loro, perché saranno loro a costringerti a farlo. Essere quassù significa tornare laggiù, in quella nostalgia che non è mai rammarico, mai pentimento; in quella nostalgia che ha il sapore dell’accettazione consapevole di un destino scritto che non hai nessun diritto, nessuna possibilità, di modificare. Saresti empio e irriconoscente, se tu lo facessi. È segno di umiltà riconoscerlo ed esibirlo come tuo marchio di fabbrica con semplice, candida e ingenua fierezza.

Gli occhi mi portano lassù dove un’aquila volteggia solitaria. Da un po’ di tempo si avvista con una certa frequenza, ma il momento in cui si riesce a vederla è sempre uno spettacolo emozionante per l’anima che la sa ammirare. Dice un amico che nidificano anche sulle cime degli alberi della grande abetina che si apre pochi chilometri più su verso il crinale, che erano solo poche coppie quelle inserite, ma che ora sono una quarantina. E inizia a parlare del programma di inserimento dei rapaci nel parco, dall’aquila reale al falco pecchiaiolo. Lo lascio sciorinare le sue statistiche. Non so cosa ascoltino le mie orecchie; so cosa ascolta adesso il mio cuore. A me interessa altro.

La maestà del volo dell’aquila è qui, sopra di me, la perfezione ossessiva dei suoi giri, ripetuti più volte alla ricerca di chissà quale conquista, mi strega, mi affascina, mi calamita. Non sento il dolore della differenza che mi segna quaggiù. Sento la forza della libertà che troneggia lassù. Quel volo che ostenta forza e sicurezza non ricorda forse che la natura ci ha progettati per essere ammirati quando siamo predatori e leoni, maestosi guerrieri che lottano per la vita esponendosi e non nascondendo di se stessi nulla, soprattutto quello che gli altri potrebbero ritenere un difetto di fabbrica, un errore di progetto, un anello che non tiene? Non ricorda forse che quello che tu hai ritenuto un errore di fabbrica è proprio la parte più significativa del tuo esistere, del tuo essere come quell’aquila? E tutto questo non si realizza forse quotidianamente in un mondo in cui per conigli e iene non c’è altro spazio che la vergogna e il disonore? La maestà dei volteggi di un’aquila, la grazia del suo impercettibile colpo d’ala, la perfezione del disegno che traccia su di un azzurro immune da macchia, oggi, qui al margine della cerreta, in una selvaggia terra che sbuffa gas qua e là e non dimentica la sua natura vulcanica, nel conforto dell’amicizia solidale che fa da armonico contraltare a quella potenza solitaria che volteggia lassù, mi ha accompagnato ancora una volta per mano fino a un traguardo speciale: la conquista di un altro tassello di quel senso vero di una vita che è tale solo se è audace lotta quotidiana, temeraria, là dove tutti ti vedono, ma nessuno ti cattura, là dove la paura non esiste, la sicurezza è energia, la fiducia in se stessi è tutto quanto possiedi per il futuro, la nostalgia non è mai rimpianto. La conoscenza del valore della vita per me, da sempre, ha avuto come sua rampa di lancio, come occasione per intraprendere il suo viaggio nella bellezza, la rappresentazione che l’anima sa offrire di quanto i sensi catturano per lei: oggi un’aquila.

Oggi mi sento lassù. Sono l’aquila. Sono libero. Sono forte e fiducioso predatore. Oggi sono quello che sempre sarei voluto essere.

Sulla banchina

“Ciao. Posso farti una confidenza?” [faccina pensierosa]

“Certamente!”

“Mi sento attratta dalle persone molto più mature di me.”

“E ti sembra strano?”

“Non so se strano o cosa … Mi sembra che gli altri non capiscano. Mi sento vittima di una specie di convenzione.”

“Capisco … Fregatene degli altri.”

“Non è facile.”

“Capisco anche questo. Mi viene in mente un’immagine, sai …?”

“Quale?”

“Ne verrebbe fuori un aforisma. Non mi sono mai piaciuti gli aforismi.”

“Perché?”

“Perché è come una testa senza un corpo. Mi piace partire dalla riflessione che introduce l’aforisma, ma poi sento il bisogno di svilupparla, abbellirla, interpretarla. Invece l’aforisma dovrebbe essere qualcosa di asciutto, buttato là, come le citazioni che la gente usa su facebook, spesso senza un senso, copiando e incollando quello che trova così come viene. Anche l’aforisma finisce per essere così. Passa di bocca in bocca e perde valore. Solo la riflessione che tu gli cuci addosso glielo restituisce.”

“Concordo. Però sono curiosa lo stesso. Qual è questo aforisma?”

“Parlavi dell’amore e dicevi di sentirti attratta dalle persone più mature di te. Ecco come lavora la mia testa. Mentre tu parlavi vedevo un treno.”

“Interessante. E che fa questo treno?”

“È l’amore.”

“Ora anche intrigante … Va’ avanti!”

“Beh, dammi il tempo per cucire insieme le parole e trovare quelle giuste per l’immagine.”

“L’immagine del treno?”

“Sì, quella.”

“Mi piace questo gioco.”

“Giocare con le parole?”

“Con la magia della parola.”

“Credo di essere pronto.”

“Spara!”

“Eh no! Se usi quelle parole, la magia non c’è più. Non sparo proprio niente.”

“Come sei pignolo!”

“Non sono affatto pignolo. Voglio creare soltanto il clima giusto. Bene. L’immagine prende questa forma. Sta’ attenta! La forma di un treno. 

“L’hai già detto.”

“L’amore è come un treno. Non importa come sia. L’unica cosa che conta è dove va. E non farselo scappare, perché hai guardato con ansia per tante volte l’orologio. Se non lo prendi in tempo, lui parte comunque. Senza aspettarti. Ti lascia qui, sulla banchina, con le valigie in mano, senza sapere cosa fare, dove andare, come poter riprendere il viaggio. Il treno che passerà dopo sarà sempre un ripiego. Quello che hai perduto, è andato per sempre.”

“Insomma, una specie di versione moderna del carpe diem. Non ti sapevo epicureo.”

“Non lo sono, infatti.”

“Però il treno è andato. E le cose per me stanno proprio così.”

“Lui ti ha mollata?”

“No. Io ho mollato lui.”

“Capisco …”

“Il tuo lavorare per immagini me ne ha fatta venire in mente un’altra.”

“Normale. Le parole sono il virus  più contagioso. Dimmi.”

“Una nuvola. Ho girato gli occhi verso la finestra e la prima cosa che ho visto è una grande nuvola nera, bassa, ma sai perché mi ha colpito?”

“Non riesco a immaginarlo. Possono venire tante idee, ma credo che solo la tua sia quella buona. Tu hai visto la nuvola. E a te quella nuvola sta parlando. Tu stai dando forma con le parole a quella nuvola. Ma, aspetta …”

“Cosa c’è?”

“Oggi il meteo dava sereno.”

“Ecco … Ci sei vicino.”

“Intrigante. Mi piace questo gioco. Stai cercando le parole?”

“Sì.”

“Aspetto.”

“Credo di esserci.”

“Sono qui.”

“Mi piace di pensare all’amore come questa nuvola. Una nuvola che si forma non prevista. Ti piove addosso secchiate d’acqua. Poi, quando ha finito il suo lavoro, basta un refolo di vento che sparisce. Quello che resta, signore del cielo, è un sole beffardo, sguaiato, che ride della tua devastazione. E l’amore? Chissà dov’è andato? A fare altri danni, sicuramente.”

“Hai vinto.”

“Perché?”

“Perché prima qua non c’era nessuna nuvola.” 

“E adesso?”

“Devo proprio controllare?”

“Sì.” [pausa] “Allora?”

“Adesso sì. C’è una grande nuvola nera qui sopra. E …”

“E?”

“È arrivato anche il treno.”

“Allora, non perderlo.”

“E se lo perdo?”

“Resterà solo la nuvola.”

“E dopo la nuvola quel sole insensibile, beffardo e sguaiato, che hai detto tu?”

“Sì, quello.”

“Non lo perderò.”

“E dove ti porta quel treno?”

“Lo vuoi proprio sapere?”

“Se pensi che sia importante, sì.”

“Credo che vado proprio dove va la nuvola.”

“E dove va la nuvola?”

“A fare danni.”

Non siamo come le foglie

Una foglia che cade, scende lenta e danza nell’aria, m’infonde fiducia e allegria. Si dice che muore. Non è vero. Non mi comunica nemmeno quelle convenzionali immagini di fragile precarietà di scolastica memoria. Cadendo, quella foglia si fonde con altra vita nel prato sottostante e si profonde in una gioia nuova, che non si vede. L’albero non l’ha respinta, nè tanto meno l’ha cacciata via, ma le ha detto che la luce per un po’ non ci sarà più, che tornerà presto e che lui ha bisogno di dormire. La foglia prende commiato e serena aspetta di rinascere, come mille altre, lì insieme a lei. La vita pulsa là sotto quel letto solidale di foglie. Pulsa una vita che non si vede. Pulsa la vita che conta di più, perché là sotto dovrà resistere, dovrà far tesoro dell’acqua o della neve che arriverà, se arriverà. Quella vita che non si vede è la più forte, la più bella. Quella vita laggiù, là sotto quel letto giallo di foglie, anonima, invisibile, ma alacre e indefessa più di quanto si possa immaginare, è la più bella. Lo è perché chiamata a conoscere il significato del sacrificio, a patire nell’oscurità e nel silenzio, a conoscere il senso più profondo e segreto dell’umiltà di chi dà se stesso per la fiduciosa rinascita di domani. Grazie a lei, tornata la luce, sboccerà un’altra vita, e poi altre ancora, mille, infinite altre. Lo è perché il suo sacrificio e la sua tenacia sono stati umili e segreti, solidali, operosi. La nuova vita le sarà debitrice.

La foglia avrà un grazie quando il sacrificio, là sotto, là dove tutto patisce ma vive alacre nel silenzio, sarà finito.

Si svolge così anche la vita di tanti di noi? Sarebbe bello. Abbiamo luce e gioia, poi silenzio e patemi, poi, forse, altra luce. Dovremmo essere debitori a chi si sacrifica per noi. Dovremmo riconoscere la solidale premura altrui. Eppure … La nostra memoria spesso ha delle falle. Ci dimentichiamo di dire quel grazie che la foglia nuova in primavera dirà all’altra, scesa in autunno, danzando felice per lei. Non è una differenza da poco. Non siamo come le foglie. Se dicessimo quel grazie che costa così poco, ma vale così tanto, se ascoltassimo quel silenzio là sotto, se fossimo capaci di scendere anche noi là sotto quel vivace letto giallo, dove non c’è putredine e morte, ma vita vera, forse potremmo comprendere perché non siamo come le foglie e soprattutto perché non vogliamo esserlo.

Sogno

In questa dimensione sospesa, senza assiti su cui poggiare e senza tetti su cui confidare, senza traguardi da raggiungere, ma anche senza poter identificare un punto preciso da cui si sia partiti, mi ritrovo in una pietraia, non so dove. Nuda roccia tutt’intorno. Vento freddo. Ti avvolge e asciuga il sudore che copioso scende per la fatica del salire. Nient’altro che sassi vedo, distese sconfinate di pietre. Eppure, non mi sento spaesato, né a disagio. C’è qualcosa che mi attrae, da qualche parte, lassù. Si intravvede un puntino giallo.

Il papavero retico non si concede facilmente. Vive solitario. Conquista la sua roccia, lontana da sguardi curiosi e morbosi, e se la tiene cara. Se lo vuoi vedere, devi superare i 2000 m di altitudine, devi arrancare su impervi ghiaioni, devi aguzzare la vista tra sassi millenari, devi cercare dove nessuno quasi mai osa, devi faticare e soffrire dove il vento raggela e il ghiaccio scompare soltanto per pochi mesi, devi arrampicarti con corde, imbraghi e moschettoni là dove i camosci saltano graziosi e liberi e ti umiliano. Il papavero retico li sa sfruttare, quei pochi mesi. Sa di essere prezioso, ma a lui non importa nella sua maestosa solitudine: lui non vuole che tu fatichi e soffra, ma sa perché lo fai. Solo un ciuffo di sparute foglioline verdi alla base lo protegge. Il suo giallo tenue ti conquista. Appena lo riconosci ti fa capire la forza della vita, ti fa capire come anche nelle situazioni più difficili la vita vinca sempre su tutto quanto la vorrebbe sconfitta, ti fa capire come la solitudine sia un premio di natura, una vittoria per sconfiggere superbia, arroganza, invidia altrui. Forse per questo lo guardo con rispetto, a distanza. Ora lo distinguo bene. Non lo fotografo. Non so se nemmeno se in questa particolare dimensione avrei i mezzi per farlo. Nei sogni tutto sa di antico, non si scattano foto, si affida tutto soltanto allo scrigno che conserva quei segreti del tempo che proprio in quel momento, eccezionalmente e spesso inspiegabilmente, si apre per te. Lui ti guarda, tu lo guardi. La forza dei suo colore giallo ti conquista. È una forza della natura. La ammiri e la rispetti. Soltanto questo puoi fare, per ringraziare del dono che hai avuto. La forza con cui il solitario fiore conquista i sensi lo conserverà eterno nella memoria, eterno quanto eterna sarà quella stessa memoria. Eterno quanto eterna sarà quella forza che mi dà al risveglio da questo sogno, lui, il fiore più bello, il mio fiore di sempre. La vita ha bisogno di questa forza e di tutte le immagini che la rappresentino per te. La vita ha bisogno di abbarbicarsi a quello che trova per resistere alle potenze che la combattono; ha bisogno di rappresentarsi nel sogno queste icone e queste emozioni di vittoriosa, ma mai superba, solitudine. Una solitudine umile, semplice e naturale. La vita ha bisogno di questo fiore fragile e forte per andare avanti e vincere gli ostacoli. Richiede simboli immortali, come immortale è il ciclo vitale che fa nascere e rinascere, il mio papavero retico. E il sogno non mente. Neanche questa volta.

Vorrei donarlo a te, ma il destino vuole che lui ci parli da dove per noi non sarà mai facile giungere. Essere trasportato lassù con lui è la forza con cui reagisco, con l’immaginazione. È il potere ineffabile del sogno: immaginare. Immaginare che anche tu sappia condividere quest’energia immune da debolezza è il mio auspicio. Immaginare che anche tu sappia che una solitudine dettata dagli eventi della vita può essere una vittoria, può essere rappresentazione di forza, può essere un simbolo dell’umile accettazione del fare parte di un ordine naturale delle cose. Immaginare che anche tu condivida queste emozioni. Immaginare di vivere tutto questo è quella domanda che è inevitabile e naturale, e per questo bello, che ogni sogno ci lasci.

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