Due famiglie, un problema … e un capolavoro letterario

Tra i consigli che capita di dare a giovani che vogliono iniziare a scrivere e raccontare qualcosa vi è quello, tanto convenzionale quanto stupido, di dover per forza creare una tensione tra i personaggi. Sbagliato. La tensione non la deve creare l’autore. Se proprio necessario, si genererà da sé. Lo dimostra bene La cena di Herman Koch, senza dubbio una delle penne migliori attualmente in attività in Europa, che si gioca proprio su questa tensione che è sempre nell’aria, ma solo in parvenza. Due fratelli, dal destino diverso, uno insegnante, l’altro politico, uno più impulsivo e sanguigno, l’altro più calcolatore, e le rispettive mogli, con le quali il primo ha un rapporto più schietto, in cui litigi e riconciliazioni si susseguono come nella vita di tante coppie, l’altro invece è come se si accontentasse di una bella presenza al proprio fianco, da rappresentanza ufficiale, anche in un’occasione informale come una cena in famiglia con il fratello. I due caratteri sembrano in tensione, ma qualcosa accomuna i due uomini: i loro figli hanno malmenato a morte una donna senza fissa dimora che dormiva in una cabina telefonica, sono stati ripresi da telecamere, ma non possono essere chiaramente identificati, finché non arriva un nuovo filmato postato in rete. Allora scatta il meccanismo difensivo: sono i nostri figli e vanno protetti, per l’uno perché sente il bisogno di ricomporre il clima in una famiglia in difficoltà, per l’altro perché è candidato alla carica di nuovo primo ministro. E questo unisce tacitamente le quattro persone in una serie di complessi linguaggi in codice, perché tutte sanno, ma nessuna sa quanto conosce l’altra. Un romanzo psicologico a tutti gli effetti, in cui l’architettura della narrazione, scandita dalle fasi della cena che sono le parti del libro, da Aperitivo a Mancia, determina un groviglio di andirivieni nel tempo, in cui solo la maestria tecnica di un buon prosatore non lascia smarrire il lettore.

Herman Koch, La cena, Neri Pozza, Vicenza 2010

Macao e Hong Kong … e la meraviglia del vizio

Leggere un libro ambientato tra Hong Kong e Macao, relitti coloniali dal destino molto diverso, separate dalle acque di uno stesso specchio di mare, nei giorni in cui Hong Kong è al centro della cronaca rimette in modo strani meccanismi della memoria. E il fatto che il protagonista Lord Doyle sia un nobile inglese, che diremmo decaduto, con il vizio del gioco e quello del piacere che dovrebbe edulcorare i dolori del primo, fa il solletico a quella memoria e richiama in superficie un mondo che teoricamente non dovrebbe esistere più per noi che ne viviamo quasi agli antipodi. Eppure quel lascito vive ancora e vivono sempre di più quelle case da gioco, con tutta l’umanità che attorno ad esse e grazie ad esse vive. Una complessa figura di donna squillo cinese, buddista, affianca Lord Doyle, lo salva, appare e scompare, ha una storia con i suoi segreti. Lei, più che il protagonista, forse ci potrebbe aiutare a capire quanto la Cina di oggi cammini veloce e sfugga ad ogni frettolosa definizione. Cosa resta alla fine? Una riflessione, cruda ed essenziale, sul fascino del piacere e dell’effimero, senza orpelli, senza giudizi, come è giusto che sia per un narratore inglese che in quell’Asia è nato e in quell’Asia è vissuto.

Lawrence Osborne, La ballata di un piccolo giocatore, Adelphi, Milano 2018

Donne d’America

Una bambina scomparsa. La sorella fugge per cercare chi l’avrebbe uccisa. Una madre perdente che ha rinunciato al ruolo e lo ha lasciato a un’altra madre, adottiva. Una roulotte come casa. È l’America che si dice ‘profonda’ quella che riveste il ruolo di quinta dietro alle esistenze fin troppo probabili di queste donne e delle persone che attorno ad esse agiscono: uno spazio narrativo in cui quello che per tanti sarebbe miseria diventa realtà quotidiana, oltre la quale nessuno chiede di andare, perché sogni e desideri s’infrangono nella paralisi delle ambizioni. Può non piacere che la società nell’epoca della modernizzazione avanzata sia arrivata a questi traguardi, soprattutto a noi che di quella società nordamericana abbiamo una particolare idea. L’America che sognavano i nostri immigrati, quella che con il cinema di Hollywood, la Coca Cola, la musica e i jeans ha costruito e quasi uniformato i comportamenti di un secolo, quella che con il dollaro e la lingua inglese ha dettato legge nei mercati e nella comunicazione è molto lontana dall’America che è forse il vero tacito protagonista di questo romanzo della canadese Courtney Summers. In questa narrazione non si comprende mai bene se hanno ancora un significato quelle strutture che non si dovrebbero mai insegnare a scuola, ma in cui tanti di noi purtroppo sono cresciuti: non esiste uno schema dei personaggi, nemmeno il classico rapporto tra fabula e intreccio. Di più: alla resa dei conti, il protagonista diventa proprio il nulla che riempie le vite di persone sostanzialmente smarrite, un ambiente costituito da uno spazio narrativo senza confini. Quello che resta alla fine della lettura è, infatti, il tono crudo di questo romanzo, che sembra come una pasta cotta troppo al dente: sembra non andare giù, ma quando lo fa ha più sapore; il suo stile originale, che non calca mai la mano nel tratteggiare questo o quel personaggio, non concede nulla al macabro, ma sa rendere incisivo e di immediata percezione lo squallore di esistenze che non riescono a cercare altro che quello che vedono intorno a sé.

Originale il doppio canale narrativo del podcast radiofonico in cui da una parte l’io narrante, il giornalista West McKay, riceve nel suo studio di New York la chiamata disperata di una donna, la madre adottiva di Sadie, la ragazza scomparsa dopo la morte in circostanza oscure della sorellina Mattie, che al giornalista appunto chiede di ritrovarla; dall’altra si segue la storia di Sadie alla ricerca di chi avrebbe potuto uccidere la sorellina, anch’essa in prima persona. Sadie è un personaggio al contempo di rara dolcezza nel rapporto con la sorella e di straordinaria energia nella ricerca di chi l’ha uccisa. Un personaggio riuscito alla perfezione: una ragazza che una grave balbuzie ha sempre costretto a fare i conti con una comunicazione e una relazionalità in cui nulla è mai scontato, a partire dal momento in cui deve ordinare un caffè al bancone del bar di un’area di servizio, ma la voce non ne vuol sapere di uscire e allora preferisce afferrare nervosamente un menu e indicare l’articolo con il dito. Sadie, lasciata la madre adottiva, viaggia attraverso centri abitati di un’America profonda dominata dalla perdita di quello che non saprei come chiamare se non il senso della vita, in cui l’amore esiste nelle poche e minimali forme lì possibili, in cui non si comprende nemmeno dove corra la linea di confine tra normale e perverso, in cui chi abusa di minori fa parte di gruppi protetti da diffusa omertà e paura, in cui droga e alcool, vita in roulotte e motel fatiscenti, aree di servizio usate come centri di spaccio e fumosi fast food, famiglie sgangherate e persone la cui disperazione diventa normalità, violenza e amore, tutto questo rappresenta uno sfondo che tale non rimane nel corso della narrazione, perché alla fine è proprio da lì che perviene al lettore il messaggio forte e chiaro; e la storia di Sadie in questo mosaico è solo una tessera, quella centrale finché noi leggiamo il libro, una delle tante quando lo avremo finito. Eppure, nonostante questo fardello di dolore e miseria morale e materiale, la narrazione non manca mai di perdere di vista la dolcezza dell’amore che lega Sadie alla sorellina e la complessità della figura della madre naturale Claire, altro personaggio ben tratteggiato, sempre su un fianco del racconto, in disparte, ma sempre presente. Sappiamo bene che non è da tutti riuscire a scrivere su due binari che devono sempre restare paralleli. La Summers lo fa.

E veniamo al punto forte del libro: l’uso della parola. Siamo abituati allo stile della letteratura anglosassone e a cercare conferma di quel cliché che la vorrebbe più concreta della nostra, meno disposta a concedere al virtuosismo tecnico, più diretta, più fatti meno fronzoli. Ebbene, sì. Possiamo dire che la Summers in questo rispetta in parte il cliché. Ma non mi accontento di adagiarmi su questi canoni triti e ritriti e mi sento di dover aggiungere una riflessione. Quanto alla scrittura del libro, infatti, sostenere che è originale non è sufficiente e sarebbe anche banale per il recensore: l’impressione che lascia è di avere il raro potere di imprigionare i sentimenti e di farti sentire in colpa quando viene chiuso. Raramente mi capita di tornare all’inizio di un libro, dopo averlo letto. Questa volta l’ho fatto. Non chiamiamola letteratura young adult. Basta con queste sigle. Narrativa: punto. Di buona qualità.

Courtney Summers, Sadie, Rizzoli, Milano 2019

Blog su WordPress.com.

Su ↑