Buon Anno!

Nel momento in cui tutti augurano novità importanti per il 2020 venturo, nel momento in cui gli astrologi fanno a gara a chi la spara più grossa, mi viene in mente l’aneddoto, tramandato da Valerio Massimo, che ha come personaggi Dionisio il Vecchio, odiato tiranno di Siracusa, e una vecchietta che, invece di augurarsi la sua fine, come tutti i suoi concittadini, rivolge preghiere per la sua buona salute e perché resti il più possibile alla guida dello stato. Dionisio, stupito della singolarità del comportamento, le chiede perché lo fa. E lei risponde: “Una volta su Siracusa comandava un tiranno crudele e ingiusto. Dopo la sua morte un tiranno ancora più spietato di lui occupò la rocca di Siracusa: perciò ho pregato che anche il suo dominio fosse breve. Ma a quel punto sei arrivato tu e la tua crudeltà, superiore a quella dei precedenti, è nota a tutti. Così dedico in voto agli dei la mia vita in difesa della tua buona salute, perché dopo la tua morte non ci tocchi un altro tiranno ancora peggiore di te!”

Dunque? A che pro auspicare il meglio, memori di quanto trascorso? Viviamo in una nazione la cui tradizione, la cui cultura, la cui arte, il cui estro e la cui identità sono ovunque oggetto di ammirazione. Perché cercare il meglio nel futuro, oppure lontano da noi, oppure in chissà quali novità che potrebbero deludere come le tante da cui si siamo stati recentemente illusi? Perché non cercare una volta tanto il meglio in noi stessi, nei nostri gesti, nei nostri comportamenti, nella nostra lingua, nella nostra letteratura e arte, nella nostra tradizione e nella nostra identità, tutto assolutamente prodotto della nostra terra, che tanti riconoscimenti, anche nel paesaggio, continua a ricevere? Non sento il bisogno di costruire chissà quali mondi nuovi o migliori o di spaccare chissà quali montagne. Ho tutto quello che serve per migliorarmi intorno a me, nelle mie città, nei miei paesaggi, nelle persone con cui vivo, nei miei libri, nel mio lavoro, nei miei studenti. Tra questi stimoli ce ne sono anche che vengono da lontano? Bene. Valutiamo senza preconcetti ciò che può migliorarci e auguriamo un sincero e sereno 2020, che sia migliore perché più vero e meno ipocrita, più riservato e meno ciarliero, più consapevole e meno farlocco, più sociale e meno social, più sentito e meno imitato, più compartecipato e meno condiviso, più solidale e meno egoista.

Può bastare un gesto semplice come un dono. Nel vedere un mendicante seminudo che pativa per il freddo durante un acquazzone, Martino di Tours gli dona metà del suo mantello; poco dopo incontra un altro mendicante e gli regala l’altra metà: subito il cielo si schiarisce e la temperatura diventa più mite. Non siamo in Italia, ma in Francia. Ma la tradizione ci accomuna in questo caso e ci offre queste perle per la riflessione. L’episodio fu un tema molto amato dalla pittura italiana e tra le tante possibili rappresentazioni ho volutamente scelto quella che forse è la più semplice, una tavoletta da 20 x 16 cm del Sassetta, pittore senese, maestro al suo tempo, il XV secolo, poco conosciuto al pubblico di oggi, che non sa scoprire tesori: su un semplice fondo oro neutro Martino dona il mantello al povero: due sole persone, ma due mondi si contrappongono in quelle due figure di cui la prima, a sinistra, a cavallo e riccamente vestita, la seconda, a destra, a piedi e seminuda; in mezzo, al centro di questa narrazione per immagini, un mantello rosso. È tutto qui. Non c’è altro da dire, se non ricordare quello che del Sassetta lapidariamente scrisse lo storico dell’arte Cesare Brandi: “non dice tutto quello che sa, ma ben sa tutto quello che dice”. A questa tavoletta la definizione si attaglia a pennello. Ecco cosa mi sento di augurarvi: non c’è bisogno che diciamo sempre tutto quello che crediamo di sapere, cerchiamo di far capire che ben sappiamo quello che narriamo. Che nostro 2020 sia tutto in quel mantello! Chiedo tanto? Forse sì. Ma credo sia bene così. Auguri a tutti.

Specchi della modernità

Balzac, Flaubert, Zola, Maupassant: quattro pretesti per trovare un senso ad un concetto da sempre molto difficile da definire: modernità. Il saggio di Gabriella Maldini attraversa l’opera di questi quattro autori con la leggerezza che si chiede di solito ad un racconto.

Di Balzac la scrittrice forlivese evidenzia quella sorta di laica etica del lavoro, non esente da quella passionalità ancora permeata dallo spirito romantico, come parametro per misurarne la ‘modernità’.

Molto diverso il contributo del più appartato Flaubert, carattere molto particolare il suo, infanzia difficile, problemi di salute che lo portano a ritenere come proprio intendimento quello di contribuire allo straordinario con il silenzio dell’ordinario, e ci riuscirà mirabilmente in quel personaggio incredibile che è m.me Bovary.

Di Zola sarebbe in discesa la strada se si confondesse innovazione con modernità, trappola in cui Gabriella Maldini avvedutamente non cade; il figlio d’immigrati che viene dal sud, l’estroverso che si contrappone a quell’orso normanno, come Flaubert viene chiamato dalla scrittrice, offre un contributo esemplare nel mettere a nudo la periferia metropolitana di una rivoluzione industriale che, come tutti i grandi processi storici, ha una seconda faccia della medaglia, in cui troviamo i flaneur che sono il controcanto dei piccoli borghesi cantati da Flaubert, troviamo il popolo splendidamente decadente di Pigalle che gioisce del suo lento deperire nel vizio e nell’ozio, troviamo quel rusco e quella monnezza che nessuno mai più forse riuscirà a rendere epica come Zola.

E infine Maupassant, il maestro della della prosa breve che diede di se stesso quella bellissima definizione che Gabriella Maldini ricorda: “Sono entrato nella letteratura come una meteora, ne uscirò come un fulmine”; la modernità di Maupassant è nel pessimismo che si stempera nelle forme di una narrazione che la scrittrice più volte chiama istintiva, come avviene nelle pagine dedicate allo scandaglio del sentimento della paura, titolo di un celebre racconto.

Ebbene, traendo una conclusione dalla lettura di questo raffinato gioiello, non tanto di critica, quanto piuttosto di passione per la buona prosa, a questo punto mi par di avvertire l’istintivo bisogno di riflettere su questa parola tanto difficile che è ‘modernità’. Mi trattengo dallo scadere in banalità e rimando ad altro: leggiamo allora insieme il bell’articolo che il blog “Una parola al giorno” le dedica, o meglio dedica all’aggettivo ‘moderno’ da cui il sostantivo deriva: https://unaparolaalgiorno.it/significato/moderno. Merita per davvero. E non dico altro. Tutto è bello perché cambia secondo il punto di vista. Ne avevo uno. Ho letto l’articolo. Ora cambio idea. Avevo letto il saggio di Gabriella Maldini con un giudizio preconfezionato nella mia mente su questi quattro autori, quello della scuola, delle antologie del biennio e delle medie; ora ne ho mille altri che fanno a botte tra di loro. Il bello della letteratura è proprio questo: quando le idee fanno a botte tra di loro. E tu dovresti esserne il paciere, l’arbitro con il fischietto. Ma non sempre ci riesci. Lo senti come un fallimento? Al contrario! Senti lo sprone a leggere ancora.

Gabriella Maldini, I narratori della modernità, CartaCanta, Forlì 2018.

Buon Natale!

Nel corso del nostro anno triste e razionale, sopravvive una sola festività tra le antiche e allegre ricorrenze un tempo diffuse in tutto il mondo. Il Natale continua a ricordarci le epoche, pagane o cristiane, in cui invece di poche persone che scrivevano poesie, ve ne erano molte che le recitavano.

Gilbert. K. Chesterton, Eretici, Lindau editore, Torino 2010

Frammento di crisi

Tre quarti d’ora di lettura per apprezzare il racconto Scusate tutti di Marco Missiroli (Parma, Guanda 2014). Una storia di oggi, un frammento della crisi occupazionale, finanziaria, economica, culturale e umana che sta travolgendo quel nord Italia che aveva realizzato soltanto pochi decenni fa uno dei miracoli più belli: ridare dignità a un popolo che la guerra aveva lasciato a terra. Si dice spesso che il dolore toglie la dignità alla persona. È vero. Ma anche il lavoro ha il suo ruolo. L’uomo senza lavoro non è uomo. L’uomo senza lavoro viene travolto dal dolore. Scusate tutti è la storia di Maurizio, operaio milanese che la crisi lascia a piedi. Viene licenziato dopo sedici di lavoro in fabbrica. Ha una cinquantina d’anni. Una famiglia. Una moglie che lo ama. Due figlie da mantenere all’università. Una mano monca frutto di un incidente e che finora non è mai stata un problema per guidare il muletto. Ma ora i tempi cambiano. E anche quella mano finisce per essere un ostacolo nel tentativo di rimettersi in marcia. Maurizio si vergogna di dire in casa la verità. Vive di notte nella finzione. Cerca lavoro. Comunista mangiapreti, rivolge una preghiera lassù. Tutto succede in pochi giorni, meglio, in poche notti, di un autunno come tanti. Un racconto fin troppo bello per essere vero, fin troppo vero per essere bello.

Cavalieri di Malta

Ricordo l’autore di questo libro appena letto, Paolo Gambi, come alunno della mia scuola, nei miei primi anni di insegnamento. Come definirlo non saprei. Ha scritto romanzi come questo, La carezza del cavaliere, ha composto poesie, ha avuto ed ha esperienze come giornalista in testate locali in Romagna e come blogger presso testate nazionali come Il Giornale e Huffington Post. Imparo che ha una laurea in psicologia e pratica mental coaching, allenatore di menti. Ho appena finito di leggere La carezza del cavaliere, che Paolo Gambi ha deciso di autopubblicare con Amazon-Kdp, usando una formula sempre più seguita oggi per la sua libertà e semplicità. Vorrei cogliere l’occasione per parlare di entrambe le cose, perché forse non tutti sanno che cosa sia veramente l’autopubblicazione.

Partiamo da libro che è una duplice storia d’amore, in parte d’ambientazione storica nel periodo dei regni latini di Terrasanta, in parte nella Roma odierna. Un cavaliere giovannita, Bertrand, dell’ordine ospedaliero da cui deriverà l’Ordine di Malta, s’innamora di Halima, una ragazza araba musulmana, e conosce intrighi e storture dell’avventura crociatistica che sui libri di scuola raramente si ha occasione di studiare: trame e scontri tra principi cristiani, lotte di potere tra potentati musulmani, la presenza della setta degli assassini, è questa la quinta su cui si muovono i protagonisti di una narrazione nella quale Bertrand, arrivato infiammato dalla passione di tanti giovani cavalieri, esce fuori e si trova a contatto con la parte forse meno edificante di quella storia che lui vive nella finzione.

Nanà, soprannome di un altisonante nome dalle nobili origini, anziano cavaliere del Sovrano Militare Ordine di Malta, che vive nell’austero palazzo di via Condotti, sede dell’ordine, del rango più elevato e quindi religioso e vincolato ai tre voti di obbedienza, povertà e castità, ritrova Henriette, la fiamma di gioventù che potrebbe diventare per lui non solo l’occasione per riaprirsi alla vita in tarda età, ma anche per liberarsi dai vincoli di un ambiente reso marcio da torbidi e da congiure di potere, in cui si trova coinvolto a causa di denunce orribili per la sua immagine.

Le due storie hanno una tortora in comune, che nel simbolo delle famiglie di Bertrand e Nanà ha sostituito uno dei tre corvi originali. La tortora è simbolo di amore. L’amore che vince sulla calunnia: direi che è questo il messaggio finale che questo godibile e lodevole libro, che vi consiglio, lascia al lettore.

E veniamo alla formula editoriale scelta. Paolo Gambi è già noto e affermato, ma ha voluto sperimentare questa soluzione dell’autopubblicazione. Si tratta di un canale nuovo, soprattutto alla portata di tutti. Ed è proprio quest’ultimo aspetto quello su cui inviterei a fare una riflessione in più. I più noti editori attivi nel settore dell’autopubblicazione (Kdp di Amazon, iBooks Author di Apple, StreetLib, Lulu, Youcanprint e altri) offrono servizi gratuiti e non. L’autore deve fare tutto da solo, ma, se preferisce, può avere anche i servizi tradizionali di editing, correzione bozze, progetto grafico per la copertina, deposito legale, codice isbn. Tutto tranne la cosa più importante: quella promozione che è arduo cimento anche per tanti editori tradizionali. Arma a doppio taglio dunque: l’autore deve decidere se intende soltanto pubblicare e compiere la classica operazione di tirare fuori dal cassetto il proprio libro, oppure se intende avere anche dei lettori. E credo di aver detto tutto.

Complimenti a Paolo Gambi e vi ricordo gli estremi: P. Gambi, La carezza del cavaliere, autopubblicazione su Amazon-Kdp.

Dialogo di un dirigente d’industria e di un insegnante

La colazione al bar, nelle città di provincia, è spesso il momento per gli incontri inattesi: questa volta un genitore di un ex alunno, situazione che, si può immaginare, in una città di centomila abitanti dopo ventisette anni di servizio e un centinaio scarso di nuovi genitori ogni anno, diventa piuttosto frequente. Si parla del più e del meno e alla fine la discussione si fa interessante. Il mio interlocutore sostiene che il ruolo dell’insegnante come educatore si dovrebbe manifestare anche nella capacità di scegliere chi può o chi non può andare avanti. Sostiene anche che la scuola che promuove tutti fallisce rispetto alle sue finalità educative, perché il mondo del lavoro oggi è estremamente selettivo. Ascolto con attenzione, perché in queste occasioni mi rendo conto dello iato tra le prassi educative sul piano pedagogico e didattico e gli ingranaggi sociali del mondo lavorativo in quasi tutti i settori, soprattutto in quelli che, con orribile parola, si chiamano produttivi. Rincara la dose il mio interlocutore, dicendo che gli studenti arrivano alla fine del loro percorso di studi senza sapere scrivere correttamente, senza saper fare collegamenti logici, senza saper calcolare. Questo, del resto, si sente dire, si legge un po’ dappertutto, ormai come un mantra. Ebbene? Occorre una risposta. Ho tante idee che frullano. Gli argomenti non mancano. Bisogna metterle in ordine. Ci provo.

“Lei è dirigente in uno stabilimento industriale nel settore chimico. Io insegno lettere classiche. Lei è appassionato lettore di storia antica. Io ritengo che un approccio analitico, proprio dello statuto delle discipline scientifiche, sia ormai entrato nella mia prassi didattica. Dunque, i presupposti per trovare un punto d’incontro ci sono. Nonostante questa modalità di approccio, mi ritengo all’antica nella mia prassi didattica. Perché? Guardi, la risposta è molto semplice: lo sono perché credo nel valore educativo della lezione frontale. Credo nella forza propositiva della figura dell’insegnante come modello culturale, come paradigma di un’azione dettata da una formazione, di un’attività professionale intesa come elezione, passione e dedizione. Ho sperimentato anche altro prima di arrivare a questa convinzione. Dunque, non sono pervenuto a questa conclusione del valore formativo della lezione frontale semplicemente in virtù del fatto che tutti diventiamo tradizionalisti con il passare degli anni, qualcuno dice conservatori, usando una parola che mi è sempre piaciuta poco. Ci sarà anche del vero, ma credo di poter dire che sono sempre stato un tradizionalista, per il fatto che la tradizione non è la vacua nostalgia del buon tempo che fu, come generalmente si pensa, ma la consegna ai posteri di quanto l’emittente di un messaggio, portatore di una personalità intrisa dei contenuti che lui ha scelto, a sua volta sceglie da consegnare a un destinatario, nella fattispecie i suoi alunni. Dunque tradizione significa setaccio. Conservazione significa altro. Tradizione significa apertura al cambiamento e al futuro, memori dell’esperienza pregressa. Conservazione significa lasciare tutto com’è, con un atteggiamento che personalmente ho sempre giudicato passivo e soprattutto condizionato da un bagaglio di elementi assunti acriticamente, insomma, pregiudizi. Insegno lettere classiche, dunque materie a contatto con i testi. Lavoro principalmente nella lettura e nell’analisi dei testi. Ma sono laureato in storia, ho un dottorato in storia antica e la ricerca storica, che ho praticato per anni, parte da una rigorosa riflessione metodologica sull’esegesi delle fonti. La prassi didattica a cui mi attengo oggi è dunque di tipo applicativo: si legge, si analizza la lingua, lo stile, si traduce, si presta attenzione al delicato momento del passaggio tra la destrutturazione da un codice alla ristrutturazione in un altro codice, si lavora sui temi, si approfondisce passando dal testo al contesto con l’analisi delle relazioni intertestuali e, laddove possibile, extratestuali. La metodologia è questa. Chi la fa sua impara l’arte della profondità analitica nella lettura, nello studio e nella conoscenza di tanti testi come condizione imprescindibile per l’elaborazione di una sintesi complessiva. L’intendimento è quello di mettere nella condizione di divulgare con cognizione di causa, sulla base di argomenti e non di giudizi preconfezionati, come accadrebbe se non si partisse dal testo, ma lo si utilizzasse soltanto per dimostrare quanto precedentemente sostenuto in sede storico-letteraria. La lezione frontale diventa pertanto occasione per presentare una modalità di lettura di un periodo storico o di un autore, che non sarà mai perfetta, in quanto sempre più o meno condizionata dalla personalità del docente, ma avrà un suo particolare calore umano e non lascerà mai l’impressione di qualcosa di asettico. Non occorre avere qualità eccelse. né tanto meno cadere nella trappola di considerare la professione una pretesa. È un lavoro di responsabilità, come il suo, ma con una differenza: mentre lei riceve una pianta già cresciuta e deve fare con quello che ha, il mio compito è di far di tutto perché cresca bene. Occorre studiare, leggere, praticare quella fatica e quel piccolo sacrificio di quotidiano dialogo con i classici, che diventa anche un esercizio e un allenamento per la mente. La lezione frontale intesa come momento di confronto analitico sul testo presenta un enorme vantaggio rispetto a quella intesa puramente come trasmissione di un messaggio preconfezionato: mette a nudo il docente con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, perché sarà sempre il frutto di quella differenza che sin dalla nascita ci rende tutti assolutamente originali. La lezione frontale è un antidoto all’omologazione delle menti, perché propone un esempio. Sta al singolo docente dare a quell’esempio la forza necessaria, con l’uso sapiente e bilanciato della retorica e della dialettica. L’insegnante, diversamente dal politico, non deve convincere, ma educare; non deve persuadere, ma proporre esempi attraverso i testi, la loro analisi, attenendosi alle procedure che l’esperienza e il confronto professionale insegnano e aiutano a declinare secondo le esigenze e le attese degli studenti. La lezione frontale è interazione continua tra chi parla e chi ascolta, in un processo che vive una sua continua evoluzione, e per questo non può essere incasellata in schemi. Vive di una sua vita che non conosce regole prefissate, ma solo tendenze che hanno bisogno di una guida. Se la scuola si rendesse conto che questo è il cardine della funzione docente, tante aberrazioni, carenze e storture, di cui le parla. sono sicuro che non ci sarebbero. Non occorre essere dei geni per capire che un dirigente di una scuola deve mettere i docenti nella condizione di essere esempi, perché educare non significa ridurre a schema, ma condurre fuori, mettere nella condizione di affrontare con spalle forti le sfide della vita. Forse si stupirà se le dico che a me interessa non tanto che i miei studenti conservino la conoscenza delle regole linguistiche, ma il metodo di analisi dei testi, perché è l’unica scuola utile a formare una personalità che sappia un giorno costruire una sintesi con cognizione di causa.”

Il mio interlocutore ascolta con attenzione e mi dice: “Rifletterò. Ci sono dettagli che mi sento di condividere subito, altri su cui dovrei pensare di più. Ma mi sento di dirle una cosa per il momento. Il mondo del lavoro avrebbe tanto da imparare sulla scuola e dalla scuola, prima di tranciare giudizi. Mi piacerebbe assistere a qualche lezione.”

“Credo che tra i miei colleghi tanti la ringrazierebbero se lo facesse. Ma credo che lei stesso si convincerebbe di quanto sia vero che non si smette mai di imparare. Eppure, sembra un ostacolo insormontabile avere l’umiltà di ammetterlo, come lei ha appena fatto.”

“La prossima volta mi piacerebbe parlare di docimologia e valutazione, se non le dispiace.”

“A sua disposizione. Come vede, i bar offrono occasioni per bellissimi incontri. Questa del sabato è una mia ora libera, utile per un caffè rigenerativo. Lei sa dove trovarmi.” E ci salutiamo.

Incursione narrativa in val Resia

Tradizioni antiche, paesaggio di montagna, sciamanesimo, intreccio di rapporti sentimentali tra personaggi … Quando in una narrazione che verte su altro, un thriller nella fattispecie, si vuole mettere dentro troppo, il lettore si disorienta e si perde. Accade in Ninfa dormiente di Ilaria Tuti, che non ritengo all’altezza del primo romanzo Fiori sopra l’inferno, meritevole veramente sotto vari aspetti, primo fra tutti la capacità di orchestrare bene la narrazione. Se quello era un vero thriller psicologico, questo viene presentato come tale, ma, a lettura terminata, non lo è. Si tratta di un thriller avvincente, ma che perde in profondità di analisi dei personaggi quello che aveva lasciato la lettura del primo romanzo. Dico questo perché, quando scrissi un lungo racconto in cui pretesi di realizzare una sorta di mescolanza di più generi letterari, dalla favola alla prosa psicologica, venni rimproverato dai lettori dal palato fine di aver voluto proporre troppo. Ero caduto, insomma, nella trappola della pretesa. Avevano ragione da vendere. Detto questo, la lettura di Ninfa dormiente lascia comunque il desiderio di conoscere un mondo particolare come la val Resia, un’isola slava nella Carnia friulana, che non vuole confondersi con la Slovenia, una cultura e una tradizione antichissime a rischio di estinzione, un retroterra antropologico che affonda le sue radici nelle migrazioni slave del medioevo, quando i popoli delle grandi pianure dell’est portavano con sé tracce sarmatiche, scitiche, persino mongoliche. Il mondo di Ilaria Tuti resta quello della Carnia. Il paesaggio resta quello del primo romanzo. La montagna parla attraverso personaggi che sembrano essere rimasti intatti nel passaggio dei secoli. E, in effetti, le culture montane, si sa, hanno questa caratteristica di essere estremamente conservative. Questo salverei del secondo romanzo di Ilaria Tuti, anche se la quinta geografica e paesaggistica non si amalgama con la narrazione e con l’indagine di Teresa Battaglia, come avveniva nel primo romanzo. Purtuttavia, mi è venuta una gran curiosità di andare in val Resia, nelle Alpi Giulie, sotto il Plauris e il Canin, all’ombra dei monti Musi e di sentir parlare l’antica lingua resiana. Hanno sempre un fascino molto particolare queste comunità che resistono abbarbicate al loro paesaggio. Anche soltanto per questo Ninfa dormiente andrebbe comunque letto.

Paesaggi

Ci sono paesaggi che hanno una carica attrattiva tutta particolare. Tanti dicono che a loro piace il mare. E pubblicano post pieni di foto scattate al mare. Poi mediti e ti rendi conto che quelle foto non riflettono un amore per il mare, ma per se stessi al mare. E ti chiedi se sia la stessa cosa. Ti dai la risposta che non lo è. Ma per loro lo è. Allora qualcosa forse non va. Non va in loro o non va in te? Bella domanda! Il mare a me fa paura. Non entro in dettagli noiosi, che richiederebbero lo scandaglio di un passato gelosamente mio. Mi piace ribadire soltanto questo: il mare mi fa paura. Il che non significa che il mare non possa esercitare anche su di me una certa attrazione. Al contrario. Eccome, se la esercita. Il mare in tempesta, le onde alte che scavalcano da parte a parte la diga foranea, i capanni che ti chiedi come facciano a resistere, il vento senza barriere che corre libero e liberamente devasta tutto, quel mugghiare crudele e feroce che solo il mare incattivito riesce a produrre e che risale da abissi che sai non essere solo fisici e geologici; le dighe di sabbia che da ottobre a maggio l’uomo è costretto a costruire per esorcizzare questa stessa paura. Tutto questo esercita una potente attrazione in me: mi fa sentire complice di quella primordiale fierezza che non conosce freno e che, quando risale, comanda, impone, ingiunge e non sopporta obiezioni di sorta.

Eppure di altro vado alla ricerca. Ambisco, il più spesso invano, a paesaggi che infondano ricariche di serenità. Una serenità soltanto apparente. Ma non importa. So che lo è. E mi basta. Li cerco dappertutto, ma non sulle coste, né sulle onde. Li trovo qualche volta in immagini illusorie. Popolano sogni mai realizzati e ricchi di un’indicibile e malinconica bellezza; sogni belli sicuramente soltanto per questa ragione. Questi paesaggi non hanno un correlato chiaro, evidente. Si manifestano sotto le più svariate declinazioni. Assumono morfologie anche diametralmente opposte. Vivono di palesi contraddizioni. Insomma, sembra che l’unica cosa che li unisca sia soltanto lo spirito della differenza.

È il paesaggio di una dolce collina, disegnata dall’uomo con i suoi giropoggio e lunghe file di cipressi che conducono a dimore meravigliose nel loro vetusto degrado, ricche di una tradizione che pochi sanno conservare e che in certo senso nobilita quello stesso degrado.

È il paesaggio di una frangia rocciosa che dall’altro dei suoi tremila metri di altitudine domina una vallata eternamente insonne per i pericoli che essa da secoli minaccia.

È un fiume che oggi scorre placido in una vallata i cui coltivi e prativi offrono da secoli quella ricchezza che lui ha consentito, anche se ieri è impazzito, ha scavalcato l’argine, la sua camicia di forza, ha distrutto le dimore di chi quell’argine volle, ha dato prova di una forza d’animo che l’uomo non ha mai voluto ascoltare dal canto delle sue acque.

È una chiusa che di un fiume fa tanti canali, che si disperdono nella nebbia delle basse e scompaiono in un orizzonte di campi, ricordando la fatica del lavoro di un tempo, le miserie che quei canali hanno alleviato, il benessere che ha preso il posto del malessere e dei miasmi che la putredine del fiume in città recava.

Sono questi i paesaggi di cui mi sento complice. Non mi attraggono per la paura che infondono. Mi attraggono perché sono come me.

Un libro

Resta l’immagine di una pagina scritta al risveglio. Ripercorri a ritroso un cammino ben consapevole di trovarti in una singolare dimensione. Trovi un libro sul cuscino. Con quello hai congedato la giornata precedente e con quello battezzi la nuova. In mezzo un sogno, ricco di immagini confuse, che sembrano connesse con quelle pagine. Che cos’è quello che ho in mano? Mi piace pensare che sia più di quanto io possa credere, considerando quante ore della giornata i libri occupano. E allora qualche risposta arriva, pensando al sogno e cercando di dare disperatamente un ordine a quel caos di immagini che s’inseguono nella mente.

Un libro è la ricerca di quello che non hai mai trovato, la voglia di fare quello che non hai mai fatto, la voglia di essere quello che non sei mai stato. Lo cerchi tra le righe. Non lo trovi mai. Proprio per questo cerchi sempre. Proprio per questo leggi.

Un libro è un magma di parole che ti ribolle nell’anima, ti appassiona con immagini di fuoco, ti coinvolge con le catene di quelle parole di cui è pieno. Ogni tanto fa il botto e le fa uscire in mille rivoli. Tu cerchi di salvare qualcosa, ma resti costretto ad ammirare da lontano. Non sarai mai degno di catturare quel premio, anche se non mancherà mai chi ti dirà che lo meriteresti. Le parole sono fuoco. Il fuoco attrae, consuma e brucia. Di parole si vive. Di parole ci si consuma.

Un libro è qualcosa che, ti piaccia o no, resta. Un grande poema che tutti ammiriamo volle essere bruciato dal suo autore in punto di morte. Sapeva che quel libro sarebbe stato lui, la sua immagine. Si rendeva conto di quanto impegnativo fosse un tale lascito ai posteri. Non volle. Non si sentì all’altezza. Lui, che tutti avrebbero ritenuto il più grande, si sentì il più piccolo. Ecco: quello sarà sempre il libro perfetto. Quello che il suo autore non avrebbe mai ritenuto perfetto.

Un libro è un sogno, un luogo in cui si entra per curiosità, alla ricerca di quell’emozione che rende ricchi perché dapprima senza un apparente significato, poi, arrivato all’ultima pagina, forse ne avrà anche troppi e allora ti ritroverai al punto di partenza. È un sogno che ti insegna sempre qualcosa proprio perché non comprenderai la ragione per la quale ci sei entrato, un sogno che lascerà sempre il suggello del suo dubbio. In un sogno non si sa perché si entra. Di un sogno non si sa quale sia l’intendimento. Di un sogno non si sa quale sia la matrice. Morpheus a Nero dice di Matrix che “è il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità”. Nel mio sogno vorrei che il libro fosse esattamente il contrario di tutto questo. Ecco perché quelle parole entrano, ma poi trovano anche l’occasione di uscire. Non vorranno mai che esista uno schermo che ne nasconda il senso profondo. Vorranno essere la semplice espressione di uno spirito che vive in qualcosa di incompiuto e che soltanto lì impara quello che occorre per cercare di apparire il più compiuto possibile.

Blog su WordPress.com.

Su ↑