La mia scuola elementare è piccola. Si trova in un paese di montagna, che è piccolo anch’esso. Sono stato mandato a dirigerla tanti anni fa. Ho avuto tante opportunità di avvicinarmi alla città dove abito, che invece è grande. Ma sono rimasto quassù, in questo paese piccolo, che invece alla distanza si è rivelato grande, perché ha qualcosa di speciale rispetto alle città. Queste, crescendo, diventano informi e piano piano perdono quello di speciale che avevano e apparendo sempre più omogenee, alla fine quasi tutte uguali nelle loro cinture periferiche. I paesi no. Soprattutto in montagna, crescendo sembrano invece andare nella direzione opposta; anche perché crescono lentamente; e per questo, espandendosi lungo questa o quella strada, sembrano accentuare le proprie tradizionali peculiarità che, frequentando le persone, riconosci anche nel modo di salutarti, di comunicarti un sentimento. Ogni nuova casa, ogni nuovo cantiere, ogni nuova strada sono occasioni per una festa. Ieri è arrivata la gru per costruire un piccolo albergo all’estremità orientale del paese: era accompagnata dalla banda musicale in costume. Per me un tempo questo era folclore, perché il punto di vista non era diverso da quello del turista o del frequentatore occasionale. Poi ho riflettuto sul fatto che in questo paese avrei avuto un ruolo importante e che non potevo vivere da estraneo. Non è stato facile. Per chi di noi in questo paese è arrivato dall’esterno comprendere il carattere particolare delle persone che lo abitano, un carattere grande in un paese piccolo, non è facile. Richiede sforzi. Esige impegno. Soprattutto, impone tanti passi indietro. Ebbene, impegnandosi cosa impari? Che ogni paese ha la sua storia. E in quelle storia c’è quasi sempre uno iato, un evento tragico che ha spezzato in due la storia della comunità. Anche qui c’è stato. E da allora le sue persone sono per me tutte in un modo o nell’altro anime speciali, perché direttamente o indirettamente collegate a quella tragedia che le ha segnate. Queste persone hanno delle storie. Storie diverse, vissute da individui l’uno diverso dall’altro, che metterebbero a dura prova gli schematismi delle scienze umane. E pensare che quelle teorie costituiscono la base della formazione di tante persone che insegnano in questa scuola che dirigo adesso; non sarà forse un caso che vengano quasi tutte, come me, da fuori? Alcuni, le loro storie, te le raccontano senza pudicizia alcuna. Altri le vivono in modo diverso, più riservato e spesso addirittura quasi reticente. C’è anche chi parla dandoti quasi l’impressione di metterti alla prova, per capire se meriti di conoscere il modo in cui ha vissuto quei tragici eventi. Non devi parlare. Devi metterti in ascolto. Questo loro ti chiedono. Sono queste storie che con il passare degli anni mi hanno fatto amare le persone e hanno creato un certo tipo di legame che ancora, pur dopo tanto tempo, non trovo le parole precise per definire. Tale è la frattura che quella tragedia ha scavato tra loro e gli altri, cioè noi, che veniamo da fuori; per quanti sforzi possiamo produrre, mai saremo parte di quella singolare condivisione collettiva del trauma. Tra noi e loro una distanza rimarrà inevitabilmente, anche perché non hanno mai elaborato in tutto questo lasso di tempo una modalità comune di vivere e condividere un dolore di tale entità, fatto di perdite, di lacerazioni di famiglie, di distruzione di oggetti e anche di affezioni dell’anima. A me piace parlare con loro. Soprattutto con quelli che – lo capisci con gli anni, conoscendoli – hanno avuto bisogno di tempi più lunghi per metabolizzare un dramma di quelle dimensioni. Chi parla di più trova il modo di far scaturire la rabbia che allora invase la comunità; chi invece è, per diversità di carattere, meno loquace, necessita di aiuto, ha bisogno di essere rispettato nel suo silenzio e, se possibile, ascoltato, qualora decida, prima o poi, di esprimere qualcosa del suo dolore. Da Sergio, marito di Chiara, un’insegnante della mia scuola, una delle poche che è originaria del paese, impiegato in una delle tre banche del paese, un giorno, proprio qui nel mio ufficio, appresi, per caso forse quella che, tra tutte le storie che dalla tragedia traevano origine, è ancora per me la favola più bella. Ricordo che pioveva a dirotto quel giorno. Eravamo alla fine delle lezioni. Era sabato. La moglie, in dolce attesa, era venuta a scuola senza ombrello e lui, che era a casa dal lavoro, poteva riportarla a casa, lassù in fondo al paese, su in quella villetta al limitare del bosco che sarà lo spazio della nostra favola, quasi alla fine della forestale rimasta incompiuta, che doveva portare alla stazione a monte degli impianti da sci. Lui non apparteneva alla prima delle due categorie, ma alla seconda, quella dei più silenziosi. E il fatto che si sia aperto qui con me, nell’attesa del suono della campanella e dell’uscita di Chiara, fu davvero singolare. Era noto in paese a tutti per la sua estrema riservatezza ed era quello che forse, tra tutti, sembrava che avesse avuto una dose di dolore maggiore da elaborare dentro la sua anima. Lo dimostrava il fatto che avesse deciso di parlare con me, il dirigente scolastico della scuola di sua moglie Chiara, uno di fuori, estraneo alla piccola comunità e ai suoi antichi riti, e di farlo soprattutto in modo così sereno. Occorse tempo perché capissi la motivazione di quell’inattesa confidenza. Fu necessario parlare con altri del paese, raccogliere informazioni, mettere a posto alcune tessere del puzzle che le parole di Sergio avevano lasciato fuori posto. Fu necessario riflettere a lungo, perché, come Sergio testualmente mi disse quel giorno, mentre la pioggia batteva sui vetri dell’ufficio, “quando si ha a che fare con i sentimenti delle persone, si deve sempre essere molto cauti: non si deve mai giocare con le anime delle persone.” Ricordo che Sergio andò alla finestra che si affaccia sulla piazza centrale del paese e consente di vedere il caffè Prati, luogo di incontro per tanti di noi, la banca dove Sergio lavora, la chiesa con il vicino camposanto che contiene tutte le vittime di quella tragedia e il monumento pubblico, eretto al centro della piazza, in loro onore. ” … e chi lo ha fatto, spero se ne sia pentito”, concluse con l’indice puntato proprio al monumento, un gesto che solo alla fine del racconto capirete, come ho capito io stesso. Alla fine ne nacque una storia e decisi di scriverla. Penso di non fare torto a nessuno, soprattutto a suoi due protagonisti, se per voi la chiamo favola. Non saprei quale ne sia l’inizio vero e proprio, se ci sia o no un “C’era una volta …”; ancor meno sono in grado di dire quale ne possa essere la conclusione. Posso solo dire che tanti dilemmi, tante domande rimaste senza risposta, tante reticenze spesso male intese si chiarirono in una notte autunnale di pioggia, lassù in quella casetta che si intravvede al limitare del bosco, dove quell’anima speciale decise di conservare a lungo, forse troppo a lungo, quei segreti che in pochi minuti, invece, mi aveva squadernato nel mio ufficio.
I rumori notturni lo mettevano sempre in agitazione. Era una notte di vento che preannunciava burrasca. Davvero tanti e diversi tra loro erano quei rumori. Aveva sempre avuto paura del buio, da quel giorno, o meglio, da quella sera. Eppure, l’aver deciso di abitare in quella casetta isolata fuori dal paese, da lui stesso scelta e pazientemente ristrutturata, anche insieme a Chiara, faceva parte di quelle che gli altri chiamavano le contraddizioni della sua vita. Lui semplicemente le accettava, senza pretendere di dar loro un nome. Aveva paura del buio, ma lo cercava. Si lamentava della solitudine: non solo ci stava bene, ma l’aveva scelta come sua fissa dimora, prima di condividerla con Chiara. Era reso inquieto dalla notte, ma nulla aveva mai esercitato in lui fascino maggiore di una notte come quella, piena di vento, di rumori, di una vita che si sente dappertutto, ma non si lascia vedere, che per altri sarebbe inquietante, ma non per lui. Si era addormentato solo con i boxer. Il fuoco della stufa a legna aveva reso davvero tanto calda la sua piccola casa ed era veramente alta la temperatura, quando si era addormentato con la tv, come spesso capitava, accesa. Ma l’abbassarsi della temperatura esterna, l’alzarsi di quel vento forte in piena notte e lo spegnersi lento della stufa avevano piano piano, con il passare delle ore, raffreddato l’ambiente. Trovò solo una felpa leggera a portata di mano. Attento che Chiara non si svegliasse, scalzo andò alla finestra di cui erano rimasti aperti gli scuroni esterni. Il cielo era terso; le stelle si vedevano bene. Le fronde erano scosse con violenza dal vento forte, che cercava ogni pertugio per inserirsi. Chiara amava la storia delle parole e diceva che i bambini a cui insegnava ne erano spesso affiascinati: “Pertundo. Dal suo participio pertusus, colpito con forza fino a creare un varco, viene molto probabilmente la parola italiana pertugio”. Da uno di quei pertugi che la sua anima, accortamente blindata e inchiavardata, aveva distrattamente dimenticato, Chiara era entrata nella sua vita. Da quei pertugi stava adesso entrando di tutto. Dai pertugi dell’assito di legno sulla pianta dei piedi nudi arrivava aria. Dai pertugi delle pareti di legno, intorno agli infissi, che non aveva completamente chiuso, arrivavano refoli fino al suo corpo; dai pertugi delle finestre a ribalta, rimaste parzialmente aperte per aerare i bagni, arrivavano carezze d’aria al suo viso. Si sedette su una poltrona in ascolto di quel vento. Era l’una di notte. Difficilmente con quel vento, con quei rumori che invadevano e avvolgevano la casa, avrebbe ripreso sonno. Accanto alla poltrona c’erano ancora i due bicchieri vuoti e la bottiglia di rosso, rimasta a metà. Ne versò due dita nel bicchiere che aveva usato lui, ma con gli occhi su quello che aveva ancora le tracce del rossetto di lei. Il calore del vino corposo lo pervase velocemente. Chiuse gli occhi. Non appoggiò il bicchiere. Rimase per un attimo in ascolto. Poi decise di alzarsi. Con il bicchiere in mano andò alla porta d’ingresso. La aprì. Uscì nella veranda rialzata e si appoggiò alla balaustra. Il movimento delle fronde lasciava vedere ogni tanto qualche luce delle prime case del paese. Folate calde si alternavano ad altre fresche. Folate più violente si alternavano ad altre più carezzevoli. A quel vento aveva tante volte invano chiesto di ripulire, saccheggiare, scozzonare tutta la sua vita. Alle forze della natura aveva tante volte chiesto di fare quello che le sue non avevano più la possibilità, forse neanche la volontà, di portare a effetto: sbarbarire l’anima. Ma la natura esitava. Sferzava con quel vento, ma, nel momento stesso in cui lo fustigava, lo ammansiva; nel momento stesso in cui lo flagellava, lo scoraggiava ancora di più. Eppure amarlo, amare quel vento, faceva parte di quel mondo di dolci aporie, che gli altri ostinatamente chiamavano contraddizioni. Plasmava con il dolore forme di amore: le ombre disegnate delle fronde agitate contro la frangia rocciosa, a cui era appoggiata la casa, prendevano vita. Bevve un altro sorso di rosso e anche il suo sangue riprese vita. Scese dal loggiato del piano rialzato da cui si accedeva alla casetta e poggiò i piedi nudi sul prato; allora, solo in quell’attimo fuggevole, tutto riprese vita intorno a lui, si animò, assunse forme note e amiche. Bevve un ultimo sorso. Raggiunse la panchina di legno che insieme a Chiara aveva costruito un giorno con dei residui trovati nella segheria di suo zio: due grossi ceppi tondi come base, a cui era inchiodato un mezzo tronco appena scorticato, levigato e verniciato; ai due estremi due fioriere di gerani. Non c’era schienale, non c’erano braccioli. Non era fatta per sostenere un corpo stanco, sfibrato, snervato. Il piano che fungeva da seduta traballava. Ma era bella, perché nella sua dozzinale forma di manufatto abbozzato, esprimeva in quel momento la risposta alla domanda che lui esattamente le aveva posto, sedendocisi. Una domanda ossessiva, angosciosa, esacerbante. Una domanda senza risposta da anni. Un abbozzo come quella panchina: lo scartafaccio che non aveva ancora preso forma. Su quella panchina si era seduto sempre e solo lui; insieme non si erano mai seduti, benché insieme l’avessero voluta, costruita e messa lì, nell’unico lembo del prato da cui si vedevano i primi spioventi del paese. Era un cantuccio che per lui era bello proprio per quello, perché appartato, perché riservato, perché ricco della sua incompiutezza. Per lei era la panchina dei fiori. Lei aveva preso quelle fioriere. Lei aveva scelto i gerani. Lei, nondimeno, non si era mai seduta su quella panchina. Perché? Grovigli di memorie chiedevano di essere districati.
Era una pungente giornata di fine novembre. Era sabato. Non erano ancora sposati. Alle 12 Chiara uscì da scuola e lo chiamò. Era eccezionalmente in ufficio a sistemare alcune pratiche, che una collega non aveva terminato il giorno prima alla chiusura, perché non stava bene. Vedendola pallida in viso, le aveva detto di andare a casa prima della chiusura, ché ci avrebbe pensato lui con calma nel fine settimana. “Andiamo a bere qualcosa da Prati?” gli aveva chiesto Chiara. Lui lasciò il lavoro quasi finito e la raggiunse al Prati, il caffè in piazza, alla base degli impianti, che da lì a qualche giorno, con l’inizio della stagione invernale, avrebbe totalmente cambiato fisionomia. Chiara era particolarmente felice in quei giorni. Lui la rendeva sicuramente felice, facendo la sua parte. Non aveva dubbi. Ma c’era qualcos’altro, che non riusciva a capire in Chiara, che contribuiva a questa gioia singolare. Presero due tramezzini e una birra e passarono più di due ore insieme. Chiara era euforica. Lui le aveva più volte chiesto come mai quel giorno fosse così felice. Ma lei aveva sempre glissato e deviato l’argomento. Mentre erano in auto ed erano diretti a casa di lui, a lei venne quella singolare idea della panchina. Si fermarono nella segheria di suo zio, fratello del babbo di lui, dove lei vide i due grossi ceppi tondi, che fece solo tagliare, in modo che fossero della medesima altezza, e il mezzo tronco lungo quasi due metri, che insieme avrebbero sistemato e inchiodato ai due ceppi; questi dovettero essere anche svasati, per realizzare l’incavo, in cui posizionare il tronco orizzontale. Chiara e Sergio lavorarono tutto il pomeriggio: prima scorticarono il mezzo tronco, poi lo levigarono con la pialla, poi lo verniciarono e lo posizionarono sui due ceppi. Alla fine con quattro grossi chiodi lo fissarono. Chiara era euforica dall’entusiasmo. E lui continuava a non capire. Ma aveva deciso di non fare più domande.
Il vento stava rinforzando e qualche nube iniziava a celare la vista delle stelle. Non era un vento freddo. Al contrario. Poggiati i gomiti sulle ginocchia nude, si prese la testa tra le mani e lo sguardo si posò sui suoi piedi nudi e sull’erba, di cui essi avvertivano tutta la soffice morbidezza. Un sentimento di tenerezza salì dentro di lui. Memorabile. Chiuse gli occhi. Il vento aumentava di intensità. Il bicchiere, poggiato sulla panchina, cadde; ma era di quelli di plastica da campeggio. E non si ruppe. Il prato era in leggera pendenza verso la casa. Il bicchiere iniziò a rotolare, dapprima lentamente; poi nella discesa prese velocità e andò a fermarsi, quando da ultimo sbatté contro il primo dei gradini che portavano al loggiato d’ingresso della casetta. Lo seguì in quella corsa, la cui accelerazione era regolare, esattamente come regolare era stata l’accelerazione della relazione con Chiara: un corsa proprio come quella del bicchiere. Nel momento in cui aveva assunto maggiore velocità, al primo ostacolo ebbe un brusco stop. Perché? Si alzò. Andò a raccogliere il bicchiere, tornò in casa, salì sul soppalco, infilò un paio di jeans vecchi, che usava da lavoro. Riempì di nuovo il bicchiere, incurante di un filo d’erba che vi era rimasto dentro. E tornò fuori. Volle conservare quel sentimento di dolcezza e di tenerezza, che la soffice erba gli trasmetteva attraverso le piante dei piedi e rimase scalzo. Il cielo si stava coprendo. Il vento aumentava ancora l’intensità delle sue folate; sbuffava nervoso tra le fronde. Non si diresse subito alla panchina. Vide qualcosa muoversi proprio vicino ad essa. Sapeva già di cosa si trattava, era una presenza consueta: le antiche popolazioni di quei luoghi le invocavano come sagge protettrici e sapienti conoscitrici dei boschi in cui vivevano. Non doveva avere la sua tana lontana. E quella panchina le piaceva. Tante sere l’aveva vista fermarsi lì sotto. Era un dialogo a distanza quello tra lui e quella volpe rossa. In una leggenda che circolava tra i più anziani del posto erano l’incarnazione delle fate dei boschi. Era bello pensarla come Fata, che addita, propone e suggerisce la strada; bella o brutta che essa sia, lei non dice. Rimase lì ai piedi della scaletta, sul ciglio del prato, sull’orlo che disegna il confine tra la dolcezza della vita e la spigolosità di un legno morto, usato per costruire la dimora dei vivi. Era un ciclo che partiva dalla terra e tornava alla terra. Era l’ordine naturale delle cose. E in base a quell’ordine naturale era giusto che lui fosse lì e che la volpe restasse a custodire quell’oggetto così speciale e singolare, fortemente voluto da Chiara, ma il cui significato attendeva ancora una risposta. Si sedette sugli scalini. Gli occhi della volpe, acciambellata sotto la panchina, erano puntati dritti sui suoi. E non poté non pensare a lei, poco fa anima di fuoco di quella casetta, a lei in cui poco prima aveva fatto penetrare un amore profondo come la memoria di quella casa, di quello che da sempre era il guscio protettivo della sua vita. Chiara era l’unico progetto che stava per essere veramente compiuto tra i tanti abbozzati. La amava, la sua casa, perché lì amava stare Chiara. La adorava, quella villetta di legno, perché lì adorava incontrarlo Chiara. La venerava quasi come un feticcio, perché lì, tra rocce, boschi e prati, Chiara, lontana dalla scuola, assumeva quelle forme diverse, naturali, più autentiche e spontanee, che la facevano apparire a lui più simile. Questo comunicava il dialogo tra i suoi occhi e quelli della volpe. Lì si sentiva protetto dalla montagna. Era sul lato sicuro della valle, era lontano dal fiume, era difeso dalla foresta, era protetto da una massiccia e compatta rupe. A questa, come a larici, faggi, abeti e pini, aveva affidato la sua custodia. Se a loro si fossero affidati anche i suoi genitori, adesso forse non sarebbe lì, non avrebbe bisogno di sentirsi forte, proprio perché lontano dalle altre persone. Quella casetta era per lui un simbolo di rinascita dopo la tragedia. La frana si era staccata dall’altra parte della valle; aveva travolto tre case, un capannone e diverse auto che stavano sfortunatamente passando sulla strada in quel momento; soltanto lui della sua famiglia non si trovava per un puro caso del destino in casa sua, ma era dai nonni. Il nonno aveva detto più volte di non costruire lì, che l’autorizzazione del comune era stata data incautamente, che quella montagna si muoveva. Ogni sasso che cadeva per lui era un segno. Gli anziani sanno ascoltare la montagna. Ogni albero che si spostava per lui era un segno; ogni sentiero che in primavera andava ridisegnato, prendendo una forma diversa da quella dell’anno precedente, era un segno. Il babbo, invece, aveva preferito ascoltare il geometra e si fidava di lui, che era suo amico d’infanzia. Ma il geometra non abitava più in quel paese da quando era bambino: non avvertiva più il respiro di quella montagna, che era viva come loro. Al babbo piacque il progetto e lì costruì la sua casa. Non era possibile dimenticare quel terribile boato. Lo sentiva di notte, lo sentiva di giorno, lo sentiva da solo, lo sentiva in compagnia; e l’effetto era sempre quello: ansia, paura, sensazioni di mancanza di respiro, mani sul viso, nel malcelato tentativo di nascondere inevitabili lacrime. Uno sfogo che era un rito della memoria, un omaggio inutile ma inevitabile al sacrificio di tante vite. Sergio aveva quattordici anni, quando rimase l’unico superstite, perché non presente sul posto, di una famiglia di sei persone: babbo, mamma e tre fratelli aveva lasciato sotto quella massa di roccia e fango, che aveva sradicato e trascinato con sé tronchi e arbusti d’ogni genere. Da allora avrebbe dovuto avere paura della montagna. E invece no: Sergio non ne ebbe mai paura. Ebbe paura, piuttosto, dell’uomo che non la sapeva o non la voleva ascoltare e rispettare. Appena poté, coronò il suo sogno di uscire da quel paese maledetto, pieno dei segni di quella tragedia. Il monumento in piazza, le lapidi nelle scuole, in comune, il museo con le fotografie della tragedia … Ma perché l’uomo è così sadico? Perché non capisce che queste tragedie non hanno bisogno di monumenti pubblici, ma devono rimanere nella dimensione della memoria privata? Non sopportava questa autolesionistica mania di celebrare in pubblico una sofferenza che solo in privato per lui si doveva vivere e si poteva comprendere. Non rispondeva d’abitudine alle domande di chi chiedeva, per semplice curiosità, particolari della frana, ma un giorno fece un’eccezione. Uscendo dall’ufficio, vide scendere una coppia di giovani da una macchina parcheggiata proprio sotto quell’odioso monumento pubblico eretto in piazza, opera d’arte commissionata a un grande scultore, inaugurata alla presenza di un ministro della Repubblica e di tutti i politici locali, più o meno vicini alle sorti del paese. La ragazza, che si presentò poi come Asia, lo guardò, lesse la didascalia che ricordava l’occasione in cui fu innalzato e disse rivolta proprio a lui, che passava a piedi davanti alla loro auto, uscendo dalla banca: “Non le sembra una cosa tristissima questo monumento? Ma perché si fanno queste cose? A me sembra anche brutto.” Sergio capì di avere di fronte una persona dotata di intelligenza sufficiente per approfondire la questione. Per lui era come se avesse già capito qualcosa di quella tragedia e li invitò entrambi al Prati, lì in quella stessa piazza. Non entrò in dettagli sulla sua famiglia, ma volle che fosse chiaro questo concetto: “Tu, Asia, hai capito una cosa importante: quanto pericoloso sia giocare con i sentimenti altrui, pensando principalmente a se stessi. Questo monumento, a tutte e tre le famiglie che quel giorno furono devastate, fa male; eppure, a noi cittadini, pur chiedendoci sempre il voto, nessuno ha chiesto mai un parere. Questo paese, tutto intero, è diventato da quel giorno un grande, collettivo monumento alla frana. Ma a loro interessa il monumento pubblico, non la nostra anima ferita: per quello hanno pagato e per quello, che tutti vedono, hanno preso voti. Amo le persone, certe persone, ma non posso più dire da quel giorno di amare il paese. Se fosse rimasta una piccola memoria nel nostro cimitero, in un luogo segreto, appartato, vicino ai nostri cari, frequentato solo da chi ha consapevolezza del dolore di quel giorno, sarei contento e amerei ancora questo paese; ma avere dato in pasto in modo così plateale una tragedia come questa, nella piazza centrale, dove passano tutti i turisti, non è un comportamento da persone degne di questo nome. Del resto con i sentimenti che l’anima conserva gelosa voti non se ne prendono; si prendono da chi si squarcia il petto in piazza, da chi posta frasi a effetto sui social, da chi organizza i minuti di silenzio e le cerimonie con la banda, lo faccia o no con sincera partecipazione.” Il ragazzo ascoltò quelle parole forti, guardò la ragazza, le prese la mano, dopo che il dialogo era sempre stato tra Sergio e lei, per la prima volta aprì bocca e disse: “Immagino che lei ne sappia qualcosa – come dire? – da vicino.” Sergio non ebbe il coraggio di dire, il cuore gli fece un salto fino alla gola. Non uscì dalle sue labbra altro se non un laconico “Sì.” Li salutò, offrì loro la consumazione e uscì dal locale. Lui era uno dei pochi che tutti i giorni, uscendo dal lavoro, passando accanto alla chiesa, possibilmente senza dare nell’occhio, apriva il cancello metallico dell’adiacente piccolo cimitero, attento che cigolasse il meno possibile sui cardini arrugginiti, entrava e pregava. Non sapeva chi dovesse pregare dopo quella sciagura che lo aveva distaccato un po’ da tutto, anche dalla parrocchia, dalla chiesa e da chi la frequentava. Ma sentiva che qualcuno da pregare ci doveva essere da qualche parte. Il parroco, se lo vedeva, scendeva, si metteva al suo fianco, gli metteva una mano sulla spalla. Non diceva una parola a Sergio, perché anche la sua era una di quelle anime ferite e comprendeva la necessita di condividere il dolore in silenzio. Anche lui disprezzava quel monumento sguaiato proprio davanti alla sua chiesa. Sergio non comprava fiori. Non dava neanche questa soddisfazione a chi – lo diceva sempre, tanto spesso che era quasi un’ossessione – faceva del lucro sui sentimenti altrui. Usava le rose o altri fiori di casa sua, secondo la stagione. Chiara adorava i fiori e con vasi di ogni forma e fioriere di ogni genere e materiale aveva dato un tocco molto personale alla casetta di legno. Ogni mattina Sergio se li portava in ufficio e ogni sera li depositava sulla tomba. Un rito che continuava ormai da trent’anni. Il vento ora parlava tra gli alberi. Era la voce di Silvano per gli antichi. Andava ascoltata. Perché lì, nella montagna, nei boschi e nelle tante forme di vita che li animavano era la risposta a tutto; nella terra, che i suoi piedi nudi interrogavano, era la ragione della frattura che aveva spezzato la sua vita, devastato la sua anima. La volpe rossa si alzò e con movimento lento si spostò altrove. Ma prima di andarsene, per nulla intimorita dalla sua presenza per lei ormai naturale, restò per un attimo con i suoi occhi puntati su di lui. Gli aveva detto qualcosa di sfuggita? Scomparve. Sergio bevve un altro sorso di rosso. Alzò gli occhi e vide una stella accendersi e spegnersi a intermittenza al passaggio delle nubi, ancora rade. Per un attimo la volpe riapparve nel punto in cui finiva il prato e iniziava la forestale che scendeva in paese. Ebbe come l’impressione che la sua Fata lo invitasse. Si alzò. Andò fino all’inizio della strada. Eccola. La volpe stava scendendo proprio lungo la stessa sterrata. Ne percorse una decina di metri, poi bruscamente voltò a destra e con un balzo, uscita dal cono di luce dell’unico fioco lampioncino, s’immerse nel bosco. La Fata aveva detto abbastanza. Che il destino fosse segnato?
“Non puoi pensare – aveva detto Chiara poco prima quando lui era uscito da lei – che condividere la vita nella memoria del passato sia un’esperienza che possa apprezzare oltre un certo ragionevole limite chi quell’esperienza conosce soltanto per sentito dire, da te come da altri; oppure la legge sui libri, anche se la rispetta profondamente.” Chiara parlava da insegnante con periodi lunghi, ma aveva parlato da amante, stringendo forte le sue mani tra le proprie. Era un modo per dirgli ‘Quello che ti dico farà male, ma devo dirtelo, per il tuo bene.’ Sergio ripensava a quelle parole così forti, rivolte da Chiara a lui che di quella tragedia aveva eretto il monumento nella sua anima, un monumento ben più importante di quello in piazza. In quel sacrario, costituito di memorie che avevano come interrotto per lui il procedere del tempo, non potevano entrare altri. E quando la mente si lasciava prendere dal vortice doloroso di quel flusso di memorie, il dolore diventava per lui esperienza quasi piacevole, placandosi in una dimensione lontana dalla vita vera. Da quella realtà Chiara ormai si sentiva fondamentalmente estranea. Aveva fatto tanti sforzi per cercare di capire come entrare in quella dimensione. Ma alla fine aveva ritenuto di dover prendere una decisione dolorosa. Quando, terminata la cena, sul letto, lì accanto a lei, lo aveva visto per l’ennesima volta ansimare e mettersi le mani sul volto, drizzandosi a sedere all’improvviso, aveva creduto di aver compreso tutto, si era rivestita ed era uscita, senza dire una parola, quasi innervosita e indispettita. Sergio, da come si era comportata, aveva buone ragioni per temere che non sarebbe più tornata. E invece così non fu. Chiara tornò. Lo abbraccio e gli chiese scusa. Il vento aveva fatto sbattere violentemente uno scurone non fissato bene alla parete della casetta. Sergio lo fermò.
“Il dolore è una cosa che ti ha segnato in modo indelebile – aveva detto nel corso di quella serata Chiara, mentre cenavano giù nella sala riscaldata dal camino – ma non puoi pretendere che un sentimento individuale e tutto interiore come questo diventi una forma di esperienza totalizzante. Nella tua anima è giusto che viva la memoria del passato. Quello che non è giusto è che la tua anima sia rimasta abbarbicata a quella memoria e che il dolore che evoca sia l’unica cosa che dà un significato ai gesti della tua vita.” Sergio non aveva saputo dare risposta a quelle parole, sempre forbite e ben costruite, come in altre occasioni invece era capitato. Chiara parlava, lui poteva solo patire. Chiara rimaneva indispettita da quel silenzio, lui s’innervosiva per non trovare parole adeguate alla grandezza del sentimento che avrebbe dovuto esprimere. Aveva pensato anche al fatto che quelle stesse parole erano state pronunciate, in forma non molto dissimile, dal suo direttore, il 13 maggio precedente, anniversario della tragedia, quando tutto l’ufficio era sceso per partecipare al breve momento di raccoglimento in piazza, insieme a tante altre persone del paese, ma lui non era voluto andare con gli altri ed era rimasto in ufficio. Lo scurone non poteva più sbattere. Aveva fatto male alla casa, aveva fatto male all’unico nido che lo proteggeva. Ora quel legno era innocuo. Non lo era però quello della panchina, che esercitava sempre un singolare fascino.
Il fervore che manifestò Chiara quel giorno in cui la panchina prese vita lo aveva colpito. Era appassionata, tra le altre cose, di medicina tradizionale cinese e, mentre lavorava alla realizzazione della panchina trattando il legno, parlava, parlava, parlava. Poi, interrompendo l’attività, fece un gesto particolare: gli disse di rialzarsi, gli tolse la polo che indossava, lo lasciò a torso nudo e disse una cosa che lo riguardava, passando e ripassando le mani sul suo torace: “La persona che incarna l’elemento ligneo, uno dei cinque elementi fondamentali, deve essere magra e armoniosamente proporzionati devono essere il suo portamento e la sua muscolatura, deve avere arti e addome slanciati e ampio torace, ma anch’esso proporzionato con l’insieme del corpo”. Poi gli prese le mani e continuò dicendo: “Deve avere mani allungate e magre con dita lunghe dalle articolazioni ben marcate.” Poi tornò sull’addome: “Può esserci un po’ di adipe, ma senza esagerare. Non è il tuo caso. Direi che tu potresti incarnare fisicamente il tipo ideale della persona lignea.” E lui alla fine, rimettendosi la polo, le chiese: “Ma avrà qualche difetto questa persona?” Chiara ci pensò un po’. Poi disse: “Maledettamente cocciuta.” Non parlò più, fino a quando non ebbero finito di lavorare insieme alla costruzione della panchina. Alla fine Chiara le girò attorno a lungo e poi, dopo aver pensato, disse: “Eppure, c’è qualcosa che non mi convince. Non riesco a capire che cosa, ma c’è qualcosa che mi lascia un po’ perplessa.” Sergio la ricordava in tutta la sua prorompente bellezza quel giorno: indossava una canottiera bianca e un paio di jeans; calzava un paio di sandali, di cui si era liberata lì sul prato e aveva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, che si agitava in modo direttamente proporzionale all’euforia con cui lavorava. Voci di animali notturni iniziavano a increspare di suoni le tenebre sempre più fitte e tormentate; suoni che mai Sergio aveva temuto, come ben poteva testimoniare il gufo che portava al collo, regalo di Chiara: infatti, tra quei suoni anche l’inconfondibile e sordo verso del gufo non poteva mancare. Lo portò il vento. Lo fece sembrare vicino. Era un verso fatto di richiami brevi ma acuti, nervosi: qualcosa non andava come sarebbe dovuto per il gufo, che mandava segnali da laggiù, in mezzo al bosco, tra i larici e i pini, tra gli abeti e i faggi. Voleva avvertire. Il cielo era ormai del tutto oscurato. Delle stelle più nessuna traccia in cielo. Il grande faggio, armoniosamente cresciuto vicino alla casetta di legno, resisteva più degli abeti e dei pini, le cui cime ondeggiavano con una smania nervosa e un’irrequieta agitazione. Un altro grande albero, il più vicino alla strada, un giovane larice, lasciò cadere una pigna, che arrivò vicina a lui. Un bagliore di luce lo illuminò. Gli antichi ritenevano quell’albero lo strumento attraverso cui Sole e Luna comunicavano con Terra: su di esso passavano bagliori e misteriosi animali e uccelli argentati e dorati. Un albero speciale. Il tecnico del comune lo voleva abbattere, perché pericoloso per il passaggio dei veicoli più alti sulla forestale. Sergio aveva lottato per quel larice, che costringeva in effetti la strada a una strettoia. Erano arrivati a un compromesso: di mezzi ne passavano pochi per quella forestale. Era stata un semplice sentiero per tanti anni, che fu allargato quando vennero costruiti gli impianti che dal paese portavano alle piste; poi quasi mai usata, anche perché il lavoro non fu completato per mancanza di fondi. Qualche chilometro più avanti, dove la sterrata terminava, c’era un vecchio capanno che era stato usato dalla società degli impianti come deposito attrezzi. Lo era ancora, ma a giudicare dai pochi mezzi che Sergio aveva visto passare in quegli anni, era arrivato alla conclusione che anche quegli attrezzi nel capanno dovevano ormai essere poco più che un ammasso di ruggine. Il larice sarebbe stato potato, per consentire a piccoli camion il passaggio, ma non abbattuto. Dei piccoli camion Sergio da allora non ne aveva visto passare ancora uno. Il larice nelle leggende del posto era spesso associato a storie in cui diveniva simbolo di amore. E tutto lì, con intensità maggiore o minore, alludendo più o meno esplicitamente, parlava di Chiara. Il prato era curato da Chiara con amore; i fiori erano innaffiati da Chiara con amore; la casetta era tenuta ordinata e pulita da Chiara con amore; la panchina, su cui Sergio non l’aveva mai vista seduta, era stata voluta da Chiara con amore. Il larice, che poi ricrebbe riprendendosi tutto lo spazio che gli era ingiustamente stato tolto, non fu forse lasciato lì, anche lui, per un gesto d’amore? Sergio raccolse la pigna. Bevve un altro piccolo sorso. Andò sulla panchina. Ancora il gufo. Il verso, se Eco non faceva scherzi, veniva dalla scaffa sopra la casetta, non più dal bosco. Un secondo bagliore. Il baleno illuminò tutta la foresta. Le prime grosse gocce d’acqua caddero sulle sue gambe, sui suoi piedi nudi; si tirò su il cappuccio della felpa. Non si alzò dalla panchina. La pioggia s’infittì. Le gocce divennero più fini e fitte, lacrime del cielo che con altre lacrime si confusero sul suo viso. Il gufo era sempre lì, incurante della pioggia. Cupo e malinconico era il messaggio che mandava. Per tre giorni era piovuto così, a gocce fini e insistenti, fino a quel 13 maggio di trent’anni prima.
Erano le lacrime più dolorose. Avevano quel particolare fascino di recare una paura, che lui non temeva; di evocare un dolore, in cui spesso trovava inattesa serenità; erano lacrime che ne richiamavano altre, indimenticabili, quelle che avevano impresso la direzione alla sua vita. L’auto della polizia municipale arrivò in serata davanti alla casa del nonno. Pioveva ancora a dirotto. Dal grande boato erano passati appena venti minuti e tante voci confuse si rincorrevano. Ma quei due agenti posero fine alla confusione. La nonna lo aveva portato via, trattenendo i singhiozzi. Aveva capito. Il nonno non voleva capire, non voleva pensare e non voleva immaginare nulla. Aprì la porta. Uno dei due agenti disse: “C’è appena stata una frana. Di grandi dimensioni. Ha travolto tre case, un capannone e la strada. Delle case una è quella di suo figlio. Speriamo di trovare qualcuno in vita, ma là non c’è più nulla. Ora dobbiamo tornare tutti là sul posto. Siamo qui anche per dirvi che vi siamo vicini in questo difficile momento.” L’agente pose una mano sulla spalla del nonno, che infilò la tuta e disse: “Vengo con voi.” Sergio era rimasto per ore con la nonna, ammutolito, con gli occhi fissi alla finestra, che guardava verso la montagna che aveva cambiato forma, che aveva ridisegnato il paesaggio, che, soprattutto, aveva chiesto un sacrificio. Si fece notte. Dal luogo della frana si vedevano le luci dei grandi riflettori che illuminavano la zona dove i soccorritori cercavano superstiti. Il nonno rincasò alle quattro del mattino: una maschera irriconoscibile di fango. “Li abbiamo trovati tutti: dodici persone che erano nelle case, undici nel capannone e sette di passaggio nelle auto. Nessuno si è salvato. Erano sepolti da metri di fango.” Non disse ‘ve l’avevo detto’. Andò in camera. Si chiuse là dentro. La nonna strinse Sergio forte a sé. Sergio per sette giorni non parlò, non volle uscire dalla casa dei nonni; dimagrì in modo preoccupante, perché non mangiava quasi niente. I compagni di scuola e gli amici chiedevano di lui, ma lui non sarebbe più stato il Sergio di prima da quel giorno, chiuso in un mutismo che preoccupava tutti, i nonni, gli amici e gli insegnanti. Sergio, da allora, sarebbe cresciuto nel corpo, diventato aittante e sportivo, le ragazze parlavano molto di lui e alle ragazze lui sapeva di piacere; ma l’anima sarebbe rimasta inchiodata a quel maledetto 13 maggio. “Tu devi in qualche modo metabolizzare il passato. Non puoi rimanerne così schiavo”, gli aveva più volte detto Chiara. Metabolizzare. Accettava quelle parole solo da Chiara. Lei era del paese. Sergio aveva studiato il greco a scuola e sapeva il significato di quella parola, che veniva un verbo che significa ‘trasformo’, ‘lancio via in un’altra dimensione’, ‘supero’, ‘porto a compiuto sviluppo’. “Cosa intendi per ‘metabolizzare’?”, aveva chiesto a Chiara. “Intendo che devi passare oltre, superare quella data a cui sei rimasto inchiodato.” Sergio rifletté a lungo prima di rispondere, poi disse, con quel suo solito, modo di parlare lento, a basso volume e a occhi bassi che per Chiara era irritante: “Metabolizzare significa anche portare a compiuto sviluppo un processo.” E Chiara: “E tu cos’hai portato a compimento da allora?” Sergio aspettò ancora più a lungo, irritando ancora di più Chiara: “Il dolore. Ho portato a compimento un processo di elaborazione del dolore, l’unico ineluttabile e necessario firmamento della vita.” Chiara scosse la testa e disse “No”. Urlò più volte, a ripetizione, quel no. Aveva meglio di lui stesso capito tutto di Sergio, ma lui era convinto che lei facesse così perché si rifiutava di ascoltare e comprendere il suo dolore, di condividere le regole che governavano la convivenza in quel mondo speciale di memoria in cui pochi eletti erano stati ammessi. Chiara era stata ammessa. Lei avrebbe preferito restarne fuori. Ma lui aveva preteso che lei entrasse. Errore. Stramaledetto errore. Amore e dolore devono reggere la volta, come due colonne: devono rimanere distanti uno dall’altro, devono alzarsi paralleli ed esattamente uguali, anzi perfetti nella loro uguaglianza di forme e dimensioni, senza toccarsi mai, se vogliono che la loro funzione sia svolta secondo la regola dell’arte. Così aveva sempre detto agli amici e ai conoscenti, che lo esortavano nei momenti di abbattimento, come dicevano loro con termine delicatamente edulcorato, di depressione e di ansia, come ben sapeva lui, fuori di ogni infingimento. Al momento in cui dalle parole si sarebbe dovuto passare ai fatti, si era reso conto che aveva parlato bene, ma razzolato malissimo. Errore. Pretendere che entrasse l’amore in quel mondo di dolore era stato un maledetto errore. Chiara sarebbe dovuta restarne fuori. La felpa era ormai intrisa d’acqua. Non distingueva più le lacrime del cielo da quelle degli occhi. Tutto era confuso. Un informe e caliginoso paesaggio notturno offuscava la vista nelle tenebre, dalla terra si alzava vapore, dal cielo scendeva pioggia. La terra si bagnava, diventava fango e lui sprofondò, inevitabilmente, sotto quel fango, che sognava a occhi aperti, mentre con fragoroso boato precipitava dalla montagna dall’altra parte della valle e distruggeva, devastava i corpi di alcuni e annichiliva le anime di altri, poneva fine ad alcune vite, rendeva un inferno quelle di altri. La pioggia aumentò d’intensità. Il vento non calava. Scuoteva le fronde degli alberi, che si agitavano come braccia di fantasmi disperati nella notte. Aveva tenuto il bicchiere protetto sotto la panchina. Lo prese. Entrò in casa. Si tolse la felpa fradicia. Si asciugò i piedi nudi. Salì sul soppalco, dove aveva camera e bagno. Fece la doccia. Aveva tanto fango da togliersi. Ma non era quella l’acqua che l’avrebbe pulito, benché più volte fosse passato e ripassato con la mano insaponata. Effimero sollievo fu quel trascorrere del flusso caldo sul suo corpo raggelato. Erano le tre del mattino. Il battito incessante della pioggia sul tetto, i fulmini con i loro subitanei bagliori attraverso i vetri, i tuoni, non uno uguale all’altro e perciò l’uno più inquietante dell’altro, dei quali tutta la valle rimbombava, il vento, che trovava ogni pertugio per intrufolarsi nel suo mondo, tutta quell’invasione nei sensi, da cui non poteva escludersi, faceva male, perché riavvolgeva il film della vita e lo riportava ineluttabilmente là dove il dolore aveva la sua origine. Lo riconduceva là dove l’anima era ancora tenacemente allignata. Riannodava i fili del tempo là da dove erano partiti i silenzi, le riflessioni, le tante domande, i tanti perché, domande che aveva preteso di fare solo a se stesso, domande che non riteneva nessun altro in grado di intendere, domande che lo avevano segregato lassù, allontanato dal paese, isolato dai colleghi, dagli amici e dai conoscenti, indotto a perdere fiducia nel prossimo che l’avrebbe invece potuto aiutare. Quella casa al limitare della grande foresta, in una piccola radura che si apriva sulla strada abbandonata e mai finita, la forestale degli impianti, appoggiata al dorso di una grande frangia, protetta da un’altrettanto grande scaffa sporgente, non era solo un guscio, un nido, ma diventava in quei momenti il simbolo più eloquente dell’emarginazione, che solo lui pretendeva di comprendere. “Dovresti avere quarantaquattro anni e invece mi sono resa conto che nei hai solo quattordici e che questa casa sta diventando un malsano feticcio”, aveva detto pochi giorni prima Chiara proprio lì dentro, nella casetta che anche lei adorava, nel letto su cui lui credeva di curare il dolore con l’amore. Eppure lei aveva amato quella casa, aveva con le sue mani contribuito a renderla più ridente e accogliente, aveva saputo apprezzarne e anche valorizzarne tanti aspetti. Alla fine era andata oltre quel sottile strato di bellezza tangibile, che ammaliava gli occhi con il paesaggio meraviglioso in cui lui aveva saputo inserire la sua piccola dimora. Quel contesto affascinava l’udito con i suoi pacifici silenzi interrotti solo dai suoni della foresta e riportava a quell’ordine naturale che lei aveva inizialmente inteso come il recupero di una dimensione più atavica e semplice; e invece non era così. Riuscendo a penetrare quella patina superficiale, abilmente costruita da lui per coprire la parte brutta di tutto quel mondo di fascino, Chiara aveva avuto la possibilità di percepire un flusso di dolore e anche i suoi gesti, le sue parole, i suoi lavori per quella casetta piano piano si erano pervasi di questo flusso negativo. Chiara, insomma, con il protrarsi della relazione, aveva compreso che quella casetta mascherava con provetta accortezza un’angoscia devastante. Sergio appariva come l’impiegato di banca serioso e riservato, preciso nel suo lavoro, sempre corretto e sorridente con la clientela; si era costruito con sicura destrezza un personaggio pubblico, con il quale faceva a pugni quello che invece, senza farsi notare, portava ogni giorno un fiore sulla tomba di famiglia, nell’angolo del camposanto in cui erano state raccolte tutte le trenta vittime della frana, e poi, in punta di piedi, silenziosamente, si eclissava ai margini di quella vita, lassù, nella casetta di legno sulla forestale mai finita. Chiara aveva capito che quel 13 maggio di trent’anni prima non era più solo un momento di dolore; era una data sul calendario che possedeva, proprio grazie alla sua carica di dolore, un’irresistibile forza di attrazione. Il simbolo di tutto quello, il luogo in cui l’anima trovava la sua pace nell’ansia, era la casetta a margini della foresta. Come a quella casetta mancavano ancora tanti dettagli, alla strada su cui si trovava mancava un traguardo: una grande incompiuta, proprio come quella vita che aveva conosciuto uno sviluppo nel corpo, una maturazione nello studio e nella carriera professionale, ma che nell’anima a quattordici anni aveva subito un trauma da cui non si era mai scossa. Chiara rimase affascinata dalla forza di quegli occhi neri, più neri dei suoi già neri, quel giorno in cui l’impiegato che la seguiva di solito in banca era assente per un corso di formazione e venne affidata a un suo collega, appunto a Sergio; con tre o quattro pretesti nei giorni successivi tornò da Sergio, anche quando era rientrato l’altro impiegato che l’aveva fino a quel momento seguita; le colleghe a scuola le avevano consigliato di informarsi per un fondo pensione, che a loro era sembrato migliore di quello proposto dai sindacati. E così si erano conosciuti; fu un attimo passare dall’sms, che fissava l’appuntamento di lavoro in banca, al messaggio in chat privata, che ne fissava un altro da Prati, quando la mano di lui si poggiò per la prima volta su quella di lei, trasmettendole quella parvenza di sicurezza, che sarebbe stata per anni al contempo l’inganno e il mistero di Chiara. Quanto inganno e quanto mistero ci fosse in quegli occhi vivi lassù nella casetta, ma spenti quaggiù in paese, Chiara ancora non sapeva quantificare, nel momento in cui, riprendendosi dal sesso, Sergio la abbracciava stritolandola tra le sue braccia, come se volesse con lei stritolare un coacervo di memoria e di dolore. Quale rapporto intercorresse tra la passione che lo animava lassù e la malinconia che lo schiacciava quaggiù Chiara non volle mai chiedersi. E c’era sempre quella panchina là fuori: anche lei avrebbe dovuto avere schienale e braccioli. Era un oggetto su cui si stava solo sospesi, con la terra come unico sostegno, firmamento lo chiamava lui. Sergio non aveva mai chiesto a Chiara perché non si fosse mai seduta su quella panchina, che aveva voluto lei, ma che poi aveva preferito trasformare in fioriera. I lampi illuminavano ogni tanto anche la radura con il prato sempre tenuto accuratamente tagliato, che Chiara voleva curato alla perfezione, davanti alla casetta. Sergio si affacciò alla finestra della mansarda, che era stata recuperata come soppalco e camera da letto, e la vide: la volpe rossa era tornata sotto la panchina, dove l’acqua non arrivava. Da quando viveva lì era la prima volta che la vedeva in un giorno di pioggia. Il suo rosso era come un’insperata nota di vita in quella tenebra d’ansia, da ore agitata e scossa dagli elementi.
Si tolse l’accappatoio. Lo specchio rifletté un’immagine denudata di tutto, priva di ogni protezione, priva di ogni copertura, priva di tutto quanto la potesse rendere fallace. Era l’immagine di un ragazzino nudo e spaurito, a cui il destino aveva tolto ogni sicurezza, che aveva costretto negli angusti limiti di quello spazio marginale e incompiuto, ma dove ogni alito di vita era quello dell’ordine naturale. “Devo essere sincera e dire le cose, così come veramente le sento. Mi piaci tanto e con te mi sento bene; sei un uomo decisamente bello, sportivo, atletico; sai apparire forte, quando vuoi dare questa impressione; c’è un indubbio fascino che emana dalla tua persona di lavoratore, in banca e in casa, che non conosce stanchezza e infonde sicurezza agli altri, come quando corri a piedi su questi sentieri o ti alleni con la bicicletta su per i passi; sei una persona che legge e sa tante cose e mi hai dato tanto nel momento in cui avevo bisogno di qualcuno al mio fianco; hai saputo darmi amore come nessuno ha mai fatto. Ma ogni tanto mi chiedo perché quassù ogni cosa sembri aver bisogno di un passo in avanti, di una mossa in più, di una spinta, di un aiuto che le è mancato e che non dovrei essere io a dare.” Chiara lo aveva detto poche ore prima. Sentendo il bisogno di non coprire quella veritiera nudità riflessa dalla specchio, Sergio si lasciò cadere sul letto. Disegnò un cuore con le dita sul ventre di lei. E prese sonno. Ma prima di addormentarsi gli era parso di aver sentito la sua voce: “Ti amo, Sergio.”
Erano le nove del mattino, quando un rumore lo svegliò. Chiara non era accanto a lui. Non era la sveglia, che di domenica non puntava mai. Il sole illuminava la radura e la panchina, per la sua posizione, era la prima ad essere raggiunta. Aprì la finestra che dava sul retro verso il paese. Il soppalco aveva due finestre, entrambe sui lati corti della casa: da una si vedeva la parte della foresta che declinava verso le prime case del paese, di cui si vedevano alcuni tetti lucidi della pioggia caduta copiosa nella notte; dall’altra si vedeva la parte del prato in cui era stata collocata la panchina. Solo allora si rese conto di cosa fosse il rumore che lo aveva svegliato. Veniva dal piano di sotto. Qualcuno bussava alla porta. Ma non c’erano auto.
Indossò velocemente il primo paio di calzoncini che trovò e scese ad aprire. Chiara era sulla soglia. Bella, bella come tutto non poteva non essere bello in quell’inondazione di luce dopo le tempeste notturne. Indossava un completo da corsa rosso con i bordi bianchi, con canottiera rossa, calzoncini corti rossi e scarpe da corsa bianche con bordi rossi. I lunghi capelli d’oro erano raccolti in una coda di cavallo. Era uscita per correre. I suoi occhi neri, con i quali aveva spesso saputo parlare meglio che con le parole, erano fissi sui suoi ancor più neri. Non dissero nulla per un attimo. Avevano troppe parole da dirsi. Poi fu lei a prendergli la mano destra e a portarlo fuori, sul prato che attraversarono insieme. Chiara si posizionò davanti alla panchina, rimase a guardarla a lungo, strinse forte la mano di lui come in cerca di un aiuto; Sergio rispose stringendo anche lui la mano di lei. Chiara allora si sedette sulla panchina e disse: “Aspetto un bambino, Sergio. Ripartiamo da qui. Schienale e braccioli. Subito. Vèstiti e andiamo a cercare il legno. Entro stasera la voglio completa e finita.” La volpe rossa, con le sue zampe di un grigio chiaro tendente quasi al bianco, aveva solo cambiato posto. Aveva lasciato la panchina e si era stesa a sonnecchiare sotto la legnaia. Ogni tanto apriva gli occhi. Poi discretamente li richiudeva. Li vide sedersi. Allora si alzò, li guardò da lontano e con passo lento riprese il posto a lei assegnato, nell’ordine naturale cui tutto lì doveva obbedire, tra i faggi, i pini e gli abeti.
Così finì quella che da allora in paese sarebbe stata per tanti di noi, ma soprattutto per i bambini e per gli insegnanti della mia scuola, la favola della volpe e della panchina: di una volpe sagace, premurosa e attenta, che andava e veniva, appariva e scompariva, ben sapendo quando comparire o quando congedarsi; di una panchina, per tanto tempo rimasta fragile e incompiuta, ma che di quella volpe da allora non avrebbe mai più potuto fare a meno.
Ma c’è una cosa che Chiara e Sergio sicuramente ancora non sanno. L’ho saputa per caso un giorno a un tavolino del Prati dallo zio di Sergio. Il legno del tronco, che fa da seduta della panchina, e quello dei due grossi ceppi, che ne formano la base, vengono da alcuni dei tanti alberi che furono sradicati dalla frana quel 13 maggio di tanti anni fa e poi raccolti nella sua segheria. Con quei legni sono stati fatti tanti altri lavori in paese. Quel legno è come se vivesse ancora. Per quello Chiara non amava sedersi. Quella notte è stato animato da una volpe e la volpe ha detto che quel legno vive. Ha parlato prima a Sergio e poi deve aver parlato anche a Chiara. Con quali parole, non saprei dire; solo le Fate hanno di questi poteri, del resto. Chissà, forse un giorno la favola avrà una fine diversa da questa. Ma a me piace così com’è, anche se restano tanti segreti che la lasciano sospesa, come tanti nelle anime di questa gente da quel 13 maggio di tanti anni fa. In fondo, tante anime di questo paese hanno sofferto senza colpa e conservato nel cuore quei segreti.
La campanella è suonata. Chiara è uscita. Sergio mi ha salutato ed è uscito con lei sotto l’ombrello. E mentre dal mio ufficio esattamente di fronte alla chiesa sento cigolare sui suoi cardini arrugginiti quel cancello, so che il dono segreto e quotidiano del fiore è il modo che una di quelle anime ha trovato per conservare il suo sentimento. Ognuno ha la sua commozione e la sua percezione di quell’evento, qualcuno la esterna, altri no; tutto avviene assolutamente al di fuori di ogni schema e senza regole; lavorare in questo paese mi ha insegnato una cosa semplice: a nessuno spetta cercare regole, né tanto meno imporle, quando al fondamento di comportamenti ritenuti atipici, fuori dei binari imposti, ci sono tragedie di queste dimensioni. Tenerne uno per me di questi sentimenti e di questi segreti e trattenermi quando vedo il piccolo Luigi giocare con le macchinine su quella panchina, ora completa di schienale e braccioli, significa sentirmi un po’ come una di queste anime e partecipare a mio modo a quel dolore che ognuno ha metabolizzato in modo diverso. E come la volpe, quando lascia la panchina e torna nel bosco, anch’io mi ritiro alla mia scrivania, nel posto a me assegnato. E quel cigolio del cancello del camposanto, faccio finta di non averlo mai sentito.
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