La favola della volpe e della panchina

La mia scuola elementare è piccola. Si trova in un paese di montagna, che è piccolo anch’esso. Sono stato mandato a dirigerla tanti anni fa. Ho avuto tante opportunità di avvicinarmi alla città dove abito, che invece è grande. Ma sono rimasto quassù, in questo paese piccolo, che invece alla distanza si è rivelato grande, perché ha qualcosa di speciale rispetto alle città. Queste, crescendo, diventano informi e piano piano perdono quello di speciale che avevano e apparendo sempre più omogenee, alla fine quasi tutte uguali nelle loro cinture periferiche. I paesi no. Soprattutto in montagna, crescendo sembrano invece andare nella direzione opposta; anche perché crescono lentamente; e per questo, espandendosi lungo questa o quella strada, sembrano accentuare le proprie tradizionali peculiarità che, frequentando le persone, riconosci anche nel modo di salutarti, di comunicarti un sentimento. Ogni nuova casa, ogni nuovo cantiere, ogni nuova strada sono occasioni per una festa. Ieri è arrivata la gru per costruire un piccolo albergo all’estremità orientale del paese: era accompagnata dalla banda musicale in costume. Per me un tempo questo era folclore, perché il punto di vista non era diverso da quello del turista o del frequentatore occasionale. Poi ho riflettuto sul fatto che in questo paese avrei avuto un ruolo importante e che non potevo vivere da estraneo. Non è stato facile. Per chi di noi in questo paese è arrivato dall’esterno comprendere il carattere particolare delle persone che lo abitano, un carattere grande in un paese piccolo, non è facile. Richiede sforzi. Esige impegno. Soprattutto, impone tanti passi indietro. Ebbene, impegnandosi cosa impari? Che ogni paese ha la sua storia. E in quelle storia c’è quasi sempre uno iato, un evento tragico che ha spezzato in due la storia della comunità. Anche qui c’è stato. E da allora le sue persone sono per me tutte in un modo o nell’altro anime speciali, perché direttamente o indirettamente collegate a quella tragedia che le ha segnate. Queste persone hanno delle storie. Storie diverse, vissute da individui l’uno diverso dall’altro, che metterebbero a dura prova gli schematismi delle scienze umane. E pensare che quelle teorie costituiscono la base della formazione di tante persone che insegnano in questa scuola che dirigo adesso; non sarà forse un caso che vengano quasi tutte, come me, da fuori? Alcuni, le loro storie, te le raccontano senza pudicizia alcuna. Altri le vivono in modo diverso, più riservato e spesso addirittura quasi reticente. C’è anche chi parla dandoti quasi l’impressione di metterti alla prova, per capire se meriti di conoscere il modo in cui ha vissuto quei tragici eventi. Non devi parlare. Devi metterti in ascolto. Questo loro ti chiedono. Sono queste storie che con il passare degli anni mi hanno fatto amare le persone e hanno creato un certo tipo di legame che ancora, pur dopo tanto tempo, non trovo le parole precise per definire. Tale è la frattura che quella tragedia ha scavato tra loro e gli altri, cioè noi, che veniamo da fuori; per quanti sforzi possiamo produrre, mai saremo parte di quella singolare condivisione collettiva del trauma. Tra noi e loro una distanza rimarrà inevitabilmente, anche perché non hanno mai elaborato in tutto questo lasso di tempo una modalità comune di vivere e condividere un dolore di tale entità, fatto di perdite, di lacerazioni di famiglie, di distruzione di oggetti e anche di affezioni dell’anima. A me piace parlare con loro. Soprattutto con quelli che – lo capisci con gli anni, conoscendoli – hanno avuto bisogno di tempi più lunghi per metabolizzare un dramma di quelle dimensioni. Chi parla di più trova il modo di far scaturire la rabbia che allora invase la comunità; chi invece è, per diversità di carattere, meno loquace, necessita di aiuto, ha bisogno di essere rispettato nel suo silenzio e, se possibile, ascoltato, qualora decida, prima o poi, di esprimere qualcosa del suo dolore. Da Sergio, marito di Chiara, un’insegnante della mia scuola, una delle poche che è originaria del paese, impiegato in una delle tre banche del paese, un giorno, proprio qui nel mio ufficio, appresi, per caso forse quella che, tra tutte le storie che dalla tragedia traevano origine, è ancora per me la favola più bella. Ricordo che pioveva a dirotto quel giorno. Eravamo alla fine delle lezioni. Era sabato. La moglie, in dolce attesa, era venuta a scuola senza ombrello e lui, che era a casa dal lavoro, poteva riportarla a casa, lassù in fondo al paese, su in quella villetta al limitare del bosco che sarà lo spazio della nostra favola, quasi alla fine della forestale rimasta incompiuta, che doveva portare alla stazione a monte degli impianti da sci. Lui non apparteneva alla prima delle due categorie, ma alla seconda, quella dei più silenziosi. E il fatto che si sia aperto qui con me, nell’attesa del suono della campanella e dell’uscita di Chiara, fu davvero singolare. Era noto in paese a tutti per la sua estrema riservatezza ed era quello che forse, tra tutti, sembrava che avesse avuto una dose di dolore maggiore da elaborare dentro la sua anima. Lo dimostrava il fatto che  avesse deciso di parlare con me, il dirigente scolastico della scuola di sua moglie Chiara, uno di fuori, estraneo alla piccola comunità e ai suoi antichi riti, e di farlo soprattutto in modo così sereno. Occorse tempo perché capissi la motivazione di quell’inattesa confidenza. Fu necessario parlare con altri del paese, raccogliere informazioni, mettere a posto alcune tessere del puzzle che le parole di Sergio avevano lasciato fuori posto. Fu necessario riflettere a lungo, perché, come Sergio testualmente mi disse quel giorno, mentre la pioggia batteva sui vetri dell’ufficio, “quando si ha a che fare con i sentimenti delle persone, si deve sempre essere molto cauti: non si deve mai giocare con le anime delle persone.” Ricordo che Sergio andò alla finestra che si affaccia sulla piazza centrale del paese e consente di vedere il caffè Prati, luogo di incontro per tanti di noi, la banca dove Sergio lavora, la chiesa con il vicino camposanto che contiene tutte le vittime di quella tragedia e il monumento pubblico, eretto al centro della piazza, in loro onore. ” … e chi lo ha fatto, spero se ne sia pentito”, concluse con l’indice puntato proprio al monumento, un gesto che solo alla fine del racconto capirete, come ho capito io stesso. Alla fine ne nacque una storia e decisi di scriverla. Penso di non fare torto a nessuno, soprattutto a suoi due protagonisti, se per voi la chiamo favola.  Non saprei quale ne sia l’inizio vero e proprio, se ci sia o no un “C’era una volta …”; ancor meno sono in grado di dire quale ne possa essere la conclusione. Posso solo dire che tanti dilemmi, tante domande rimaste senza risposta, tante reticenze spesso male intese si chiarirono in una notte autunnale di pioggia, lassù in quella casetta che si intravvede al limitare del bosco, dove quell’anima speciale decise di conservare a lungo, forse troppo a lungo, quei segreti che in pochi minuti, invece, mi aveva squadernato nel mio ufficio.

I rumori notturni lo mettevano sempre in agitazione. Era una notte di vento che preannunciava burrasca. Davvero tanti e diversi tra loro erano quei rumori. Aveva sempre avuto paura del buio, da quel giorno, o meglio, da quella sera. Eppure, l’aver deciso di abitare in quella casetta isolata fuori dal paese, da lui stesso scelta e pazientemente ristrutturata, anche insieme a Chiara, faceva parte di quelle che gli altri chiamavano le contraddizioni della sua vita. Lui semplicemente le accettava, senza pretendere di dar loro un nome. Aveva paura del buio, ma lo cercava. Si lamentava della solitudine: non solo ci stava bene, ma l’aveva scelta come sua fissa dimora, prima di condividerla con Chiara. Era reso inquieto dalla notte, ma nulla aveva mai esercitato in lui fascino maggiore di una notte come quella, piena di vento, di rumori, di una vita che si sente dappertutto, ma non si lascia vedere, che per altri sarebbe inquietante, ma non per lui. Si era addormentato solo con i boxer. Il fuoco della stufa a legna aveva reso davvero tanto calda la sua piccola casa ed era veramente alta la temperatura, quando si era addormentato con la tv, come spesso capitava, accesa. Ma l’abbassarsi della temperatura esterna, l’alzarsi di quel vento forte in piena notte e lo spegnersi lento della stufa avevano piano piano, con il passare delle ore, raffreddato l’ambiente. Trovò solo una felpa leggera a portata di mano. Attento che Chiara non si svegliasse,  scalzo andò alla finestra di cui erano rimasti aperti gli scuroni esterni. Il cielo era terso; le stelle si vedevano bene. Le fronde erano scosse con violenza dal vento forte, che cercava ogni pertugio per inserirsi. Chiara amava la storia delle parole e diceva che i bambini a cui insegnava ne erano spesso affiascinati: “Pertundo. Dal suo participio pertusus, colpito con forza fino a creare un varco, viene molto probabilmente la parola italiana pertugio”. Da uno di quei pertugi che la sua anima, accortamente blindata e inchiavardata, aveva distrattamente dimenticato, Chiara era entrata nella sua vita. Da quei pertugi stava adesso entrando di tutto. Dai pertugi dell’assito di legno sulla pianta dei piedi nudi arrivava aria. Dai pertugi delle pareti di legno, intorno agli infissi, che non aveva completamente chiuso, arrivavano refoli fino al suo corpo; dai pertugi delle finestre a ribalta, rimaste parzialmente aperte per aerare i bagni, arrivavano carezze d’aria al suo viso. Si sedette su una poltrona in ascolto di quel vento. Era l’una di notte. Difficilmente con quel vento, con quei rumori che invadevano e avvolgevano la casa, avrebbe ripreso sonno. Accanto alla poltrona c’erano ancora i due bicchieri vuoti e la bottiglia di rosso, rimasta a metà. Ne versò due dita nel bicchiere che aveva usato lui, ma con gli occhi su quello che aveva ancora le tracce del rossetto di lei. Il calore del vino corposo lo pervase velocemente. Chiuse gli occhi. Non appoggiò il bicchiere. Rimase per un attimo in ascolto. Poi decise di alzarsi. Con il bicchiere in mano andò alla porta d’ingresso. La aprì. Uscì nella veranda rialzata e si appoggiò alla balaustra. Il movimento delle fronde lasciava vedere ogni tanto qualche luce delle prime case del paese. Folate calde si alternavano ad altre fresche. Folate più violente si alternavano ad altre più carezzevoli. A quel vento aveva tante volte invano chiesto di ripulire, saccheggiare, scozzonare tutta la sua vita. Alle forze della natura aveva tante volte chiesto di fare quello che le sue non avevano più la possibilità, forse neanche la volontà, di portare a effetto: sbarbarire l’anima. Ma la natura esitava. Sferzava con quel vento, ma, nel momento stesso in cui lo fustigava, lo ammansiva; nel momento stesso in cui lo flagellava, lo scoraggiava ancora di più. Eppure amarlo, amare quel vento, faceva parte di quel mondo di dolci aporie, che gli altri ostinatamente chiamavano contraddizioni. Plasmava con il dolore forme di amore: le ombre disegnate delle fronde agitate contro la frangia rocciosa, a cui era appoggiata la casa, prendevano vita. Bevve un altro sorso di rosso e anche il suo sangue riprese vita. Scese dal loggiato del piano rialzato da cui si accedeva alla casetta e poggiò i piedi nudi sul prato; allora, solo in quell’attimo fuggevole, tutto riprese vita intorno a lui, si animò, assunse forme note e amiche. Bevve un ultimo sorso. Raggiunse la panchina di legno che insieme a Chiara aveva costruito un giorno con dei residui trovati nella segheria di suo zio: due grossi ceppi tondi come base, a cui era inchiodato un mezzo tronco appena scorticato, levigato e verniciato; ai due estremi due fioriere di gerani. Non c’era schienale, non c’erano braccioli. Non era fatta per sostenere un corpo stanco, sfibrato, snervato. Il piano che fungeva da seduta traballava. Ma era bella, perché nella sua dozzinale forma di manufatto abbozzato, esprimeva in quel momento la risposta alla domanda che lui esattamente le aveva posto, sedendocisi. Una domanda ossessiva, angosciosa, esacerbante. Una domanda senza risposta da anni. Un abbozzo come quella panchina: lo scartafaccio che non aveva ancora preso forma. Su quella panchina si era seduto sempre e solo lui; insieme non si erano mai seduti, benché insieme l’avessero voluta, costruita e messa lì, nell’unico lembo del prato da cui si vedevano i primi spioventi del paese. Era un cantuccio che per lui era bello proprio per quello, perché appartato, perché riservato, perché ricco della sua incompiutezza. Per lei era la panchina dei fiori. Lei aveva preso quelle fioriere. Lei aveva scelto i gerani. Lei, nondimeno, non si era mai seduta su quella panchina. Perché? Grovigli di memorie chiedevano di essere districati.

Era una pungente giornata di fine novembre. Era sabato. Non erano ancora sposati. Alle 12 Chiara uscì da scuola e lo chiamò. Era eccezionalmente in ufficio a sistemare alcune pratiche, che una collega non aveva terminato il giorno prima alla chiusura, perché non stava bene. Vedendola pallida in viso, le aveva detto di andare a casa prima della chiusura, ché ci avrebbe pensato lui con calma nel fine settimana. “Andiamo a bere qualcosa da Prati?” gli aveva chiesto Chiara. Lui lasciò il lavoro quasi finito e la raggiunse al Prati, il caffè in piazza, alla base degli impianti, che da lì a qualche giorno, con l’inizio della stagione invernale, avrebbe totalmente cambiato fisionomia. Chiara era particolarmente felice in quei giorni. Lui la rendeva sicuramente felice, facendo la sua parte. Non aveva dubbi. Ma c’era qualcos’altro, che non riusciva a capire in Chiara, che contribuiva a questa gioia singolare. Presero due tramezzini e una birra e passarono più di due ore insieme. Chiara era euforica. Lui le aveva più volte chiesto come mai quel giorno fosse così felice. Ma lei aveva sempre glissato e deviato l’argomento. Mentre erano in auto ed erano diretti a casa di lui, a lei venne quella singolare idea della panchina. Si fermarono nella segheria di suo zio, fratello del babbo di lui, dove lei vide i due grossi ceppi tondi, che fece solo tagliare, in modo che fossero della medesima altezza, e il mezzo tronco lungo quasi due metri, che insieme avrebbero sistemato e inchiodato ai due ceppi; questi dovettero essere anche svasati, per realizzare l’incavo, in cui posizionare il tronco orizzontale. Chiara e Sergio lavorarono tutto il pomeriggio: prima scorticarono il mezzo tronco, poi lo levigarono con la pialla, poi lo verniciarono e lo posizionarono sui due ceppi. Alla fine con quattro grossi chiodi lo fissarono. Chiara era euforica dall’entusiasmo. E lui continuava a non capire. Ma aveva deciso di non fare più domande.

Il vento stava rinforzando e qualche nube iniziava a celare la vista delle stelle. Non era un vento freddo. Al contrario. Poggiati i gomiti sulle ginocchia nude, si prese la testa tra le mani e lo sguardo si posò sui suoi piedi nudi e sull’erba, di cui essi avvertivano tutta la soffice morbidezza. Un sentimento di tenerezza salì dentro di lui. Memorabile. Chiuse gli occhi. Il vento aumentava di intensità. Il bicchiere, poggiato sulla panchina, cadde; ma era di quelli di plastica da campeggio. E non si ruppe. Il prato era in leggera pendenza verso la casa. Il bicchiere iniziò a rotolare, dapprima lentamente; poi nella discesa prese velocità e andò a fermarsi, quando da ultimo sbatté contro il primo dei gradini che portavano al loggiato d’ingresso della casetta. Lo seguì in quella corsa, la cui accelerazione era regolare, esattamente come regolare era stata l’accelerazione della relazione con Chiara: un corsa proprio come quella del bicchiere. Nel momento in cui aveva assunto maggiore velocità, al primo ostacolo ebbe un brusco stop. Perché? Si alzò. Andò a raccogliere il bicchiere, tornò in casa, salì sul soppalco, infilò un paio di jeans vecchi, che usava da lavoro. Riempì di nuovo il bicchiere, incurante di un filo d’erba che vi era rimasto dentro. E tornò fuori. Volle conservare quel sentimento di dolcezza e di tenerezza, che la soffice erba gli trasmetteva attraverso le piante dei piedi e rimase scalzo. Il cielo si stava coprendo. Il vento aumentava ancora l’intensità delle sue folate; sbuffava nervoso tra le fronde. Non si diresse subito alla panchina. Vide qualcosa muoversi proprio vicino ad essa. Sapeva già di cosa si trattava, era una presenza consueta: le antiche popolazioni di quei luoghi le invocavano come sagge protettrici e sapienti conoscitrici dei boschi in cui vivevano. Non doveva avere la sua tana lontana. E quella panchina le piaceva. Tante sere l’aveva vista fermarsi lì sotto. Era un dialogo a distanza quello tra lui e quella volpe rossa. In una leggenda che circolava tra i più anziani del posto erano l’incarnazione delle fate dei boschi. Era bello pensarla come Fata, che addita, propone e suggerisce la strada; bella o brutta che essa sia, lei non dice. Rimase lì ai piedi della scaletta, sul ciglio del prato, sull’orlo che disegna il confine tra la dolcezza della vita e la spigolosità di un legno morto, usato per costruire la dimora dei vivi. Era un ciclo che partiva dalla terra e tornava alla terra. Era l’ordine naturale delle cose. E in base a quell’ordine naturale era giusto che lui fosse lì e che la volpe restasse a custodire quell’oggetto così speciale e singolare, fortemente voluto da Chiara, ma il cui significato attendeva ancora una risposta. Si sedette sugli scalini. Gli occhi della volpe, acciambellata sotto la panchina, erano puntati dritti sui suoi. E non poté non pensare a lei, poco fa anima di fuoco di quella casetta, a lei in cui poco prima aveva fatto penetrare un amore profondo come la memoria di quella casa, di quello che da sempre era il guscio protettivo della sua vita. Chiara era l’unico progetto che stava per essere veramente compiuto tra i tanti abbozzati. La amava, la sua casa, perché lì amava stare Chiara. La adorava, quella villetta di legno, perché lì adorava incontrarlo Chiara. La venerava quasi come un feticcio, perché lì, tra rocce, boschi e prati, Chiara, lontana dalla scuola, assumeva quelle forme diverse, naturali, più autentiche e spontanee, che la facevano apparire a lui più simile. Questo comunicava il dialogo tra i suoi occhi e quelli della volpe. Lì si sentiva protetto dalla montagna. Era sul lato sicuro della valle, era lontano dal fiume, era difeso dalla foresta, era protetto da una massiccia e compatta rupe. A questa, come a larici, faggi, abeti e pini, aveva affidato la sua custodia. Se a loro si fossero affidati anche i suoi genitori, adesso forse non sarebbe lì, non avrebbe bisogno di sentirsi forte, proprio perché lontano dalle altre persone. Quella casetta era per lui un simbolo di rinascita dopo la tragedia. La frana si era staccata dall’altra parte della valle; aveva travolto tre case, un capannone e diverse auto che stavano sfortunatamente passando sulla strada in quel momento; soltanto lui della sua famiglia non si trovava per un puro caso del destino in casa sua, ma era dai nonni. Il nonno aveva detto più volte di non costruire lì, che l’autorizzazione del comune era stata data incautamente, che quella montagna si muoveva. Ogni sasso che cadeva per lui era un segno. Gli anziani sanno ascoltare la montagna. Ogni albero che si spostava per lui era un segno; ogni sentiero che in primavera andava ridisegnato, prendendo una forma diversa da quella dell’anno precedente, era un segno. Il babbo, invece, aveva preferito ascoltare il geometra e si fidava di lui, che era suo amico d’infanzia. Ma il geometra non abitava più in quel paese da quando era bambino: non avvertiva più il respiro di quella montagna, che era viva come loro. Al babbo piacque il progetto e lì costruì la sua casa. Non era possibile dimenticare quel terribile boato. Lo sentiva di notte, lo sentiva di giorno, lo sentiva da solo, lo sentiva in compagnia; e l’effetto era sempre quello: ansia, paura, sensazioni di mancanza di respiro, mani sul viso, nel malcelato tentativo di nascondere inevitabili lacrime. Uno sfogo che era un rito della memoria, un omaggio inutile ma inevitabile al sacrificio di tante vite. Sergio aveva quattordici anni, quando rimase l’unico superstite, perché non presente sul posto, di una famiglia di sei persone: babbo, mamma e tre fratelli aveva lasciato sotto quella massa di roccia e fango, che aveva sradicato e trascinato con sé tronchi e arbusti d’ogni genere. Da allora avrebbe dovuto avere paura della montagna. E invece no: Sergio non ne ebbe mai paura. Ebbe paura, piuttosto, dell’uomo che non la sapeva o non la voleva ascoltare e rispettare. Appena poté, coronò il suo sogno di uscire da quel paese maledetto, pieno dei segni di quella tragedia. Il monumento in piazza, le lapidi nelle scuole, in comune, il museo con le fotografie della tragedia … Ma perché l’uomo è così sadico? Perché non capisce che queste tragedie non hanno bisogno di monumenti pubblici, ma devono rimanere nella dimensione della memoria privata? Non sopportava questa autolesionistica mania di celebrare in pubblico una sofferenza che solo in privato per lui si doveva vivere e si poteva comprendere. Non rispondeva d’abitudine alle domande di chi chiedeva, per semplice curiosità, particolari della frana, ma un giorno fece un’eccezione. Uscendo dall’ufficio, vide scendere una coppia di giovani da una macchina parcheggiata proprio sotto quell’odioso monumento pubblico eretto in piazza, opera d’arte commissionata a un grande scultore, inaugurata alla presenza di un ministro della Repubblica e di tutti i politici locali, più o meno vicini alle sorti del paese. La ragazza, che si presentò poi come Asia, lo guardò, lesse la didascalia che ricordava l’occasione in cui fu innalzato e disse rivolta proprio a lui, che passava a piedi davanti alla loro auto, uscendo dalla banca: “Non le sembra una cosa tristissima questo monumento? Ma perché si fanno queste cose? A me sembra anche brutto.” Sergio capì di avere di fronte una persona dotata di intelligenza sufficiente per approfondire la questione. Per lui era come se avesse già capito qualcosa di quella tragedia e li invitò entrambi al Prati, lì in quella stessa piazza. Non entrò in dettagli sulla sua famiglia, ma volle che fosse chiaro questo concetto: “Tu, Asia, hai capito una cosa importante: quanto pericoloso sia giocare con i sentimenti altrui, pensando principalmente a se stessi. Questo monumento, a tutte e tre le famiglie che quel giorno furono devastate, fa male; eppure, a noi cittadini, pur chiedendoci sempre il voto, nessuno ha chiesto mai un parere. Questo paese, tutto intero, è diventato da quel giorno un grande, collettivo monumento alla frana. Ma a loro interessa il monumento pubblico, non la nostra anima ferita: per quello hanno pagato e per quello, che tutti vedono, hanno preso voti. Amo le persone, certe persone, ma non posso più dire da quel giorno di amare il paese. Se fosse rimasta una piccola memoria nel nostro cimitero, in un luogo segreto, appartato, vicino ai nostri cari, frequentato solo da chi ha consapevolezza del dolore di quel giorno, sarei contento e amerei ancora questo paese; ma avere dato in pasto in modo così plateale una tragedia come questa, nella piazza centrale, dove passano tutti i turisti, non è un comportamento da persone degne di questo nome. Del resto con i sentimenti che l’anima conserva gelosa voti non se ne prendono; si prendono da chi si squarcia il petto in piazza, da chi posta frasi a effetto sui social, da chi organizza i minuti di silenzio e le cerimonie con la banda, lo faccia o no con sincera partecipazione.” Il ragazzo ascoltò quelle parole forti, guardò la ragazza, le prese la mano, dopo che il dialogo era sempre stato tra Sergio e lei, per la prima volta aprì bocca e disse: “Immagino che lei ne sappia qualcosa – come dire? – da vicino.” Sergio non ebbe il coraggio di dire, il cuore gli fece un salto fino alla gola. Non uscì dalle sue labbra altro se non un laconico “Sì.” Li salutò, offrì loro la consumazione e uscì dal locale. Lui era uno dei pochi che tutti i giorni, uscendo dal lavoro, passando accanto alla chiesa, possibilmente senza dare nell’occhio, apriva il cancello metallico dell’adiacente piccolo cimitero, attento che cigolasse il meno possibile sui cardini arrugginiti, entrava e pregava. Non sapeva chi dovesse pregare dopo quella sciagura che lo aveva distaccato un po’ da tutto, anche dalla parrocchia, dalla chiesa e da chi la frequentava. Ma sentiva che qualcuno da pregare ci doveva essere da qualche parte. Il parroco, se lo vedeva, scendeva, si metteva al suo fianco, gli metteva una mano sulla spalla. Non diceva una parola a Sergio, perché anche la sua era una di quelle anime ferite e comprendeva la necessita di condividere il dolore in silenzio. Anche lui disprezzava quel monumento sguaiato proprio davanti alla sua chiesa. Sergio non comprava fiori. Non dava neanche questa soddisfazione a chi – lo diceva sempre, tanto spesso che era quasi un’ossessione – faceva del lucro sui sentimenti altrui. Usava le rose o altri fiori di casa sua, secondo la stagione. Chiara adorava i fiori e con vasi di ogni forma e fioriere di ogni genere e materiale aveva dato un tocco molto personale alla casetta di legno. Ogni mattina Sergio se li portava in ufficio e ogni sera li depositava sulla tomba. Un rito che continuava ormai da trent’anni. Il vento ora parlava tra gli alberi. Era la voce di Silvano per gli antichi. Andava ascoltata. Perché lì, nella montagna, nei boschi e nelle tante forme di vita che li animavano era la risposta a tutto; nella terra, che i suoi piedi nudi interrogavano, era la ragione della frattura che aveva spezzato la sua vita, devastato la sua anima. La volpe rossa si alzò e con movimento lento si spostò altrove. Ma prima di andarsene, per nulla intimorita dalla sua presenza per lei ormai naturale, restò per un attimo con i suoi occhi puntati su di lui. Gli aveva detto qualcosa di sfuggita? Scomparve. Sergio bevve un altro sorso di rosso. Alzò gli occhi e vide una stella accendersi e spegnersi a intermittenza al passaggio delle nubi, ancora rade. Per un attimo la volpe riapparve nel punto in cui finiva il prato e iniziava la forestale che scendeva in paese. Ebbe come l’impressione che la sua Fata lo invitasse. Si alzò. Andò fino all’inizio della strada. Eccola. La volpe stava scendendo proprio lungo la stessa sterrata. Ne percorse una decina di metri, poi bruscamente voltò a destra e con un balzo, uscita dal cono di luce dell’unico fioco lampioncino, s’immerse nel bosco. La Fata aveva detto abbastanza. Che il destino fosse segnato?

Non puoi pensare – aveva detto Chiara poco prima quando lui era uscito da lei – che condividere la vita nella memoria del passato sia un’esperienza che possa apprezzare oltre un certo ragionevole limite chi quell’esperienza conosce soltanto per sentito dire, da te come da altri; oppure la legge sui libri, anche se la rispetta profondamente.” Chiara parlava da insegnante con periodi lunghi, ma aveva parlato da amante, stringendo forte le sue mani tra le proprie. Era un modo per dirgli ‘Quello che ti dico farà male, ma devo dirtelo, per il tuo bene.’ Sergio ripensava a quelle parole così forti, rivolte da Chiara a lui che di quella tragedia aveva eretto il monumento nella sua anima, un monumento ben più importante di quello in piazza. In quel sacrario, costituito di memorie che avevano come interrotto per lui il procedere del tempo, non potevano entrare altri. E quando la mente si lasciava prendere dal vortice doloroso di quel flusso di memorie, il dolore diventava per lui esperienza quasi piacevole, placandosi in una dimensione lontana dalla vita vera. Da quella realtà Chiara ormai si sentiva fondamentalmente estranea. Aveva fatto tanti sforzi per cercare di capire come entrare in quella dimensione. Ma alla fine aveva ritenuto di dover prendere una decisione dolorosa. Quando, terminata la cena, sul letto, lì accanto a lei, lo aveva visto per l’ennesima volta ansimare e mettersi le mani sul volto, drizzandosi a sedere all’improvviso, aveva creduto di aver compreso tutto, si era rivestita ed era uscita, senza dire una parola, quasi innervosita e indispettita. Sergio, da come si era comportata, aveva buone ragioni per temere che non sarebbe più tornata. E invece così non fu. Chiara tornò. Lo abbraccio e gli chiese scusa. Il vento aveva fatto sbattere violentemente uno scurone non fissato bene alla parete della casetta. Sergio lo fermò.

Il dolore è una cosa che ti ha segnato in modo indelebile – aveva detto nel corso di quella serata Chiara, mentre cenavano giù nella sala riscaldata dal camino – ma non puoi pretendere che un sentimento individuale e tutto interiore come questo diventi una forma di esperienza totalizzante. Nella tua anima è giusto che viva la memoria del passato. Quello che non è giusto è che la tua anima sia rimasta abbarbicata a quella memoria e che il dolore che evoca sia l’unica cosa che dà un significato ai gesti della tua vita.” Sergio non aveva saputo dare risposta a quelle parole, sempre forbite e ben costruite, come in altre occasioni invece era capitato. Chiara parlava, lui poteva solo patire. Chiara rimaneva indispettita da quel silenzio, lui s’innervosiva per non trovare parole adeguate alla grandezza del sentimento che avrebbe dovuto esprimere. Aveva pensato anche al fatto che quelle stesse parole erano state pronunciate, in forma non molto dissimile, dal suo direttore, il 13 maggio precedente, anniversario della tragedia, quando tutto l’ufficio era sceso per partecipare al breve momento di raccoglimento in piazza, insieme a tante altre persone del paese, ma lui non era voluto andare con gli altri ed era rimasto in ufficio. Lo scurone non poteva più sbattere. Aveva fatto male alla casa, aveva fatto male all’unico nido che lo proteggeva. Ora quel legno era innocuo. Non lo era però quello della panchina, che esercitava sempre un singolare fascino.

Il fervore che manifestò Chiara quel giorno in cui la panchina prese vita lo aveva colpito. Era appassionata, tra le altre cose, di medicina tradizionale cinese e, mentre lavorava alla realizzazione della panchina trattando il legno, parlava, parlava, parlava. Poi, interrompendo l’attività, fece un gesto particolare: gli disse di rialzarsi, gli tolse la polo che indossava, lo lasciò a torso nudo e disse una cosa che lo riguardava, passando e ripassando le mani sul suo torace: “La persona che incarna l’elemento ligneo, uno dei cinque elementi fondamentali, deve essere magra e armoniosamente proporzionati devono essere il suo portamento e la sua muscolatura, deve avere arti e addome slanciati e ampio torace, ma anch’esso proporzionato con l’insieme del corpo”. Poi gli prese le mani e continuò dicendo: “Deve avere mani allungate e magre con dita lunghe dalle articolazioni ben marcate.” Poi tornò sull’addome: “Può esserci un po’ di adipe, ma senza esagerare. Non è il tuo caso. Direi che tu potresti incarnare fisicamente il tipo ideale della persona lignea.” E lui alla fine, rimettendosi la polo, le chiese: “Ma avrà qualche difetto questa persona?” Chiara ci pensò un po’. Poi disse: “Maledettamente cocciuta.” Non parlò più, fino a quando non ebbero finito di lavorare insieme alla costruzione della panchina. Alla fine Chiara le girò attorno a lungo e poi, dopo aver pensato, disse: “Eppure, c’è qualcosa che non mi convince. Non riesco a capire che cosa, ma c’è qualcosa che mi lascia un po’ perplessa.” Sergio la ricordava in tutta la sua prorompente bellezza quel giorno: indossava una canottiera bianca e un paio di jeans; calzava un paio di sandali, di cui si era liberata lì sul prato e aveva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, che si agitava in modo direttamente proporzionale all’euforia con cui lavorava. Voci di animali notturni iniziavano a increspare di suoni le tenebre sempre più fitte e tormentate; suoni che mai Sergio aveva temuto, come ben poteva testimoniare il gufo che portava al collo, regalo di Chiara: infatti, tra quei suoni anche l’inconfondibile e sordo verso del gufo non poteva mancare. Lo portò il vento. Lo fece sembrare vicino. Era un verso fatto di richiami brevi ma acuti, nervosi: qualcosa non andava come sarebbe dovuto per il gufo, che mandava segnali da laggiù, in mezzo al bosco, tra i larici e i pini, tra gli abeti e i faggi. Voleva avvertire. Il cielo era ormai del tutto oscurato. Delle stelle più nessuna traccia in cielo. Il grande faggio, armoniosamente cresciuto vicino alla casetta di legno, resisteva più degli abeti e dei pini, le cui cime ondeggiavano con una smania nervosa e un’irrequieta agitazione. Un altro grande albero, il più vicino alla strada, un giovane larice, lasciò cadere una pigna, che arrivò vicina a lui. Un bagliore di luce lo illuminò. Gli antichi ritenevano quell’albero lo strumento attraverso cui Sole e Luna comunicavano con Terra: su di esso passavano bagliori e misteriosi animali e uccelli argentati e dorati. Un albero speciale. Il tecnico del comune lo voleva abbattere, perché pericoloso per il passaggio dei veicoli più alti sulla forestale. Sergio aveva lottato per quel larice, che costringeva in effetti la strada a una strettoia. Erano arrivati a un compromesso: di mezzi ne passavano pochi per quella forestale. Era stata un semplice sentiero per tanti anni, che fu allargato quando vennero costruiti gli impianti che dal paese portavano alle piste; poi quasi mai usata, anche perché il lavoro non fu completato per mancanza di fondi. Qualche chilometro più avanti, dove la sterrata terminava, c’era un vecchio capanno che era stato usato dalla società degli impianti come deposito attrezzi. Lo era ancora, ma a giudicare dai pochi mezzi che Sergio aveva visto passare in quegli anni, era arrivato alla conclusione che anche quegli attrezzi nel capanno dovevano ormai essere poco più che un ammasso di ruggine. Il larice sarebbe stato potato, per consentire a piccoli camion il passaggio, ma non abbattuto. Dei piccoli camion Sergio da allora non ne aveva visto passare ancora uno. Il larice nelle leggende del posto era spesso associato a storie in cui diveniva simbolo di amore. E tutto lì, con intensità maggiore o minore, alludendo più o meno esplicitamente, parlava di Chiara. Il prato era curato da Chiara con amore; i fiori erano innaffiati da Chiara con amore; la casetta era tenuta ordinata e pulita da Chiara con amore; la panchina, su cui Sergio non l’aveva mai vista seduta, era stata voluta da Chiara con amore. Il larice, che poi ricrebbe riprendendosi tutto lo spazio che gli era ingiustamente stato tolto, non fu forse lasciato lì, anche lui, per un gesto d’amore? Sergio raccolse la pigna. Bevve un altro piccolo sorso. Andò sulla panchina. Ancora il gufo. Il verso, se Eco non faceva scherzi, veniva dalla scaffa sopra la casetta, non più dal bosco. Un secondo bagliore. Il baleno illuminò tutta la foresta. Le prime grosse gocce d’acqua caddero sulle sue gambe, sui suoi piedi nudi; si tirò su il cappuccio della felpa. Non si alzò dalla panchina. La pioggia s’infittì. Le gocce divennero più fini e fitte, lacrime del cielo che con altre lacrime si confusero sul suo viso. Il gufo era sempre lì, incurante della pioggia. Cupo e malinconico era il messaggio che mandava. Per tre giorni era piovuto così, a gocce fini e insistenti, fino a quel 13 maggio di trent’anni prima.

Erano le lacrime più dolorose. Avevano quel particolare fascino di recare una paura, che lui non temeva; di evocare un dolore, in cui spesso trovava inattesa serenità; erano lacrime che ne richiamavano altre, indimenticabili, quelle che avevano impresso la direzione alla sua vita. L’auto della polizia municipale arrivò in serata davanti alla casa del nonno. Pioveva ancora a dirotto. Dal grande boato erano passati appena venti minuti e tante voci confuse si rincorrevano. Ma quei due agenti posero fine alla confusione. La nonna lo aveva portato via, trattenendo i singhiozzi. Aveva capito. Il nonno non voleva capire, non voleva pensare e non voleva immaginare nulla. Aprì la porta. Uno dei due agenti disse: “C’è appena stata una frana. Di grandi dimensioni. Ha travolto tre case, un capannone e la strada. Delle case una è quella di suo figlio. Speriamo di trovare qualcuno in vita, ma là non c’è più nulla. Ora dobbiamo tornare tutti là sul posto. Siamo qui anche per dirvi che vi siamo vicini in questo difficile momento.” L’agente pose una mano sulla spalla del nonno, che infilò la tuta e disse: “Vengo con voi.” Sergio era rimasto per ore con la nonna, ammutolito, con gli occhi fissi alla finestra, che guardava verso la montagna che aveva cambiato forma, che aveva ridisegnato il paesaggio, che, soprattutto, aveva chiesto un sacrificio. Si fece notte. Dal luogo della frana si vedevano le luci dei grandi riflettori che illuminavano la zona dove i soccorritori cercavano superstiti. Il nonno rincasò alle quattro del mattino: una maschera irriconoscibile di fango. “Li abbiamo trovati tutti: dodici persone che erano nelle case, undici nel capannone e sette di passaggio nelle auto. Nessuno si è salvato. Erano sepolti da metri di fango.” Non disse ‘ve l’avevo detto’. Andò in camera. Si chiuse là dentro. La nonna strinse Sergio forte a sé. Sergio per sette giorni non parlò, non volle uscire dalla casa dei nonni; dimagrì in modo preoccupante, perché non mangiava quasi niente. I compagni di scuola e gli amici chiedevano di lui, ma lui non sarebbe più stato il Sergio di prima da quel giorno, chiuso in un mutismo che preoccupava tutti, i nonni, gli amici e gli insegnanti. Sergio, da allora, sarebbe cresciuto nel corpo, diventato aittante e sportivo, le ragazze parlavano molto di lui e alle ragazze lui sapeva di piacere; ma l’anima sarebbe rimasta inchiodata a quel maledetto 13 maggio. “Tu devi in qualche modo metabolizzare il passato. Non puoi rimanerne così schiavo”, gli aveva più volte detto Chiara. Metabolizzare. Accettava quelle parole solo da Chiara. Lei era del paese. Sergio aveva studiato il greco a scuola e sapeva il significato di quella parola, che veniva un verbo che significa ‘trasformo’, ‘lancio via in un’altra dimensione’, ‘supero’, ‘porto a compiuto sviluppo’. “Cosa intendi per ‘metabolizzare’?”, aveva chiesto a Chiara. “Intendo che devi passare oltre, superare quella data a cui sei rimasto inchiodato.” Sergio rifletté a lungo prima di rispondere, poi disse, con quel suo solito, modo di parlare lento, a basso volume e a occhi bassi che per Chiara era irritante: “Metabolizzare significa anche portare a compiuto sviluppo un processo.” E Chiara: “E tu cos’hai portato a compimento da allora?” Sergio aspettò ancora più a lungo, irritando ancora di più Chiara: “Il dolore. Ho portato a compimento un processo di elaborazione del dolore, l’unico ineluttabile e necessario firmamento della vita.” Chiara scosse la testa e disse “No”. Urlò più volte, a ripetizione, quel no. Aveva meglio di lui stesso capito tutto di Sergio, ma lui era convinto che lei facesse così perché si rifiutava di ascoltare e comprendere il suo dolore, di condividere le regole che governavano la convivenza in quel mondo speciale di memoria in cui pochi eletti erano stati ammessi. Chiara era stata ammessa. Lei avrebbe preferito restarne fuori. Ma lui aveva preteso che lei entrasse. Errore. Stramaledetto errore. Amore e dolore devono reggere la volta, come due colonne: devono rimanere distanti uno dall’altro, devono alzarsi paralleli ed esattamente uguali, anzi perfetti nella loro uguaglianza di forme e dimensioni, senza toccarsi mai, se vogliono che la loro funzione sia svolta secondo la regola dell’arte. Così aveva sempre detto agli amici e ai conoscenti, che lo esortavano nei momenti di abbattimento, come dicevano loro con termine delicatamente edulcorato, di depressione e di ansia, come ben sapeva lui, fuori di ogni infingimento. Al momento in cui dalle parole si sarebbe dovuto passare ai fatti, si era reso conto che aveva parlato bene, ma razzolato malissimo. Errore. Pretendere che entrasse l’amore in quel mondo di dolore era stato un maledetto errore. Chiara sarebbe dovuta restarne fuori. La felpa era ormai intrisa d’acqua. Non distingueva più le lacrime del cielo da quelle degli occhi. Tutto era confuso. Un informe e caliginoso paesaggio notturno offuscava la vista nelle tenebre, dalla terra si alzava vapore, dal cielo scendeva pioggia. La terra si bagnava, diventava fango e lui sprofondò, inevitabilmente, sotto quel fango, che sognava a occhi aperti, mentre con fragoroso boato precipitava dalla montagna dall’altra parte della valle e distruggeva, devastava i corpi di alcuni e annichiliva le anime di altri, poneva fine ad alcune vite, rendeva un inferno quelle di altri. La pioggia aumentò d’intensità. Il vento non calava. Scuoteva le fronde degli alberi, che si agitavano come braccia di fantasmi disperati nella notte. Aveva tenuto il bicchiere protetto sotto la panchina. Lo prese. Entrò in casa. Si tolse la felpa fradicia. Si asciugò i piedi nudi. Salì sul soppalco, dove aveva camera e bagno. Fece la doccia. Aveva tanto fango da togliersi. Ma non era quella l’acqua che l’avrebbe pulito, benché più volte fosse passato e ripassato con la mano insaponata. Effimero sollievo fu quel trascorrere del flusso caldo sul suo corpo raggelato. Erano le tre del mattino. Il battito incessante della pioggia sul tetto, i fulmini con i loro subitanei bagliori attraverso i vetri, i tuoni, non uno uguale all’altro e perciò l’uno più inquietante dell’altro, dei quali tutta la valle rimbombava, il vento, che trovava ogni pertugio per intrufolarsi nel suo mondo, tutta quell’invasione nei sensi, da cui non poteva escludersi, faceva male, perché riavvolgeva il film della vita e lo riportava ineluttabilmente là dove il dolore aveva la sua origine. Lo riconduceva là dove l’anima era ancora tenacemente allignata. Riannodava i fili del tempo là da dove erano partiti i silenzi, le riflessioni, le tante domande, i tanti perché, domande che aveva preteso di fare solo a se stesso, domande che non riteneva nessun altro in grado di intendere, domande che lo avevano segregato lassù, allontanato dal paese, isolato dai colleghi, dagli amici e dai conoscenti, indotto a perdere fiducia nel prossimo che l’avrebbe invece potuto aiutare. Quella casa al limitare della grande foresta, in una piccola radura che si apriva sulla strada abbandonata e mai finita, la forestale degli impianti, appoggiata al dorso di una grande frangia, protetta da un’altrettanto grande scaffa sporgente, non era solo un guscio, un nido, ma diventava in quei momenti il simbolo più eloquente dell’emarginazione, che solo lui pretendeva di comprendere. “Dovresti avere quarantaquattro anni e invece mi sono resa conto che nei hai solo quattordici e che questa casa sta diventando un malsano feticcio”, aveva detto pochi giorni prima Chiara proprio lì dentro, nella casetta che anche lei adorava, nel letto su cui lui credeva di curare il dolore con l’amore. Eppure lei aveva amato quella casa, aveva con le sue mani contribuito a renderla più ridente e accogliente, aveva saputo apprezzarne e anche valorizzarne tanti aspetti. Alla fine era andata oltre quel sottile strato di bellezza tangibile, che ammaliava gli occhi con il paesaggio meraviglioso in cui lui aveva saputo inserire la sua piccola dimora. Quel contesto affascinava l’udito con i suoi pacifici silenzi interrotti solo dai suoni della foresta e riportava a quell’ordine naturale che lei aveva inizialmente inteso come il recupero di una dimensione più atavica e semplice; e invece non era così. Riuscendo a penetrare quella patina superficiale, abilmente costruita da lui per coprire la parte brutta di tutto quel mondo di fascino, Chiara aveva avuto la possibilità di percepire un flusso di dolore e anche i suoi gesti, le sue parole, i suoi lavori per quella casetta piano piano si erano pervasi di questo flusso negativo. Chiara, insomma, con il protrarsi della relazione, aveva compreso che quella casetta mascherava con provetta accortezza un’angoscia devastante. Sergio appariva come l’impiegato di banca serioso e riservato, preciso nel suo lavoro, sempre corretto e sorridente con la clientela; si era costruito con sicura destrezza un personaggio pubblico, con il quale faceva a pugni quello che invece, senza farsi notare, portava ogni giorno un fiore sulla tomba di famiglia, nell’angolo del camposanto in cui erano state raccolte tutte le trenta vittime della frana, e poi, in punta di piedi, silenziosamente, si eclissava ai margini di quella vita, lassù, nella casetta di legno sulla forestale mai finita. Chiara aveva capito che quel 13 maggio di trent’anni prima non era più solo un momento di dolore; era una data sul calendario che possedeva, proprio grazie alla sua carica di dolore, un’irresistibile forza di attrazione. Il simbolo di tutto quello, il luogo in cui l’anima trovava la sua pace nell’ansia, era la casetta a margini della foresta. Come a quella casetta mancavano ancora tanti dettagli, alla strada su cui si trovava mancava un traguardo: una grande incompiuta, proprio come quella vita che aveva conosciuto uno sviluppo nel corpo, una maturazione nello studio e nella carriera professionale, ma che nell’anima a quattordici anni aveva subito un trauma da cui non si era mai scossa. Chiara rimase affascinata dalla forza di quegli occhi neri, più neri dei suoi già neri, quel giorno in cui l’impiegato che la seguiva di solito in banca era assente per un corso di formazione e venne affidata a un suo collega, appunto a Sergio; con tre o quattro pretesti nei giorni successivi tornò da Sergio, anche quando era rientrato l’altro impiegato che l’aveva fino a quel momento seguita; le colleghe a scuola le avevano consigliato di informarsi per un fondo pensione, che a loro era sembrato migliore di quello proposto dai sindacati. E così si erano conosciuti; fu un attimo passare dall’sms, che fissava l’appuntamento di lavoro in banca, al messaggio in chat privata, che ne fissava un altro da Prati, quando la mano di lui si poggiò per la prima volta su quella di lei, trasmettendole quella parvenza di sicurezza, che sarebbe stata per anni al contempo l’inganno e il mistero di Chiara. Quanto inganno e quanto mistero ci fosse in quegli occhi vivi lassù nella casetta, ma spenti quaggiù in paese, Chiara ancora non sapeva quantificare, nel momento in cui, riprendendosi dal sesso, Sergio la abbracciava stritolandola tra le sue braccia, come se volesse con lei stritolare un coacervo di memoria e di dolore. Quale rapporto intercorresse tra la passione che lo animava lassù e la malinconia che lo schiacciava quaggiù Chiara non volle mai chiedersi. E c’era sempre quella panchina là fuori: anche lei avrebbe dovuto avere schienale e braccioli. Era un oggetto su cui si stava solo sospesi, con la terra come unico sostegno, firmamento lo chiamava lui. Sergio non aveva mai chiesto a Chiara perché non si fosse mai seduta su quella panchina, che aveva voluto lei, ma che poi aveva preferito trasformare in fioriera. I lampi illuminavano ogni tanto anche la radura con il prato sempre tenuto accuratamente tagliato, che Chiara voleva curato alla perfezione, davanti alla casetta. Sergio si affacciò alla finestra della mansarda, che era stata recuperata come soppalco e camera da letto, e la vide: la volpe rossa era tornata sotto la panchina, dove l’acqua non arrivava. Da quando viveva lì era la prima volta che la vedeva in un giorno di pioggia. Il suo rosso era come un’insperata nota di vita in quella tenebra d’ansia, da ore agitata e scossa dagli elementi.

Si tolse l’accappatoio. Lo specchio rifletté un’immagine denudata di tutto, priva di ogni protezione, priva di ogni copertura, priva di tutto quanto la potesse rendere fallace. Era l’immagine di un ragazzino nudo e spaurito, a cui il destino aveva tolto ogni sicurezza, che aveva costretto negli angusti limiti di quello spazio marginale e incompiuto, ma dove ogni alito di vita era quello dell’ordine naturale. “Devo essere sincera e dire le cose, così come veramente le sento. Mi piaci tanto e con te mi sento bene; sei un uomo decisamente bello, sportivo, atletico; sai apparire forte, quando vuoi dare questa impressione; c’è un indubbio fascino che emana dalla tua persona di lavoratore, in banca e in casa, che non conosce stanchezza e infonde sicurezza agli altri, come quando corri a piedi su questi sentieri o ti alleni con la bicicletta su per i passi; sei una persona che legge e sa tante cose e mi hai dato tanto nel momento in cui avevo bisogno di qualcuno al mio fianco; hai saputo darmi amore come nessuno ha mai fatto. Ma ogni tanto mi chiedo perché quassù ogni cosa sembri aver bisogno di un passo in avanti, di una mossa in più, di una spinta, di un aiuto che le è mancato e che non dovrei essere io a dare.” Chiara lo aveva detto poche ore prima. Sentendo il bisogno di non coprire quella veritiera nudità riflessa dalla specchio, Sergio si lasciò cadere sul letto. Disegnò un cuore con le dita sul ventre di lei. E prese sonno. Ma prima di addormentarsi gli era parso di aver sentito la sua voce: “Ti amo, Sergio.”

Erano le nove del mattino, quando un rumore lo svegliò. Chiara non era accanto a lui. Non era la sveglia, che di domenica non puntava mai. Il sole illuminava la radura e la panchina, per la sua posizione, era la prima ad essere raggiunta. Aprì la finestra che dava sul retro verso il paese. Il soppalco aveva due finestre, entrambe sui lati corti della casa: da una si vedeva la parte della foresta che declinava verso le prime case del paese, di cui si vedevano alcuni tetti lucidi della pioggia caduta copiosa nella notte; dall’altra si vedeva la parte del prato in cui era stata collocata la panchina. Solo allora si rese conto di cosa fosse il rumore che lo aveva svegliato. Veniva dal piano di sotto. Qualcuno bussava alla porta. Ma non c’erano auto.

Indossò velocemente il primo paio di calzoncini che trovò e scese ad aprire. Chiara era sulla soglia. Bella, bella come tutto non poteva non essere bello in quell’inondazione di luce dopo le tempeste notturne. Indossava un completo da corsa rosso con i bordi bianchi, con canottiera rossa, calzoncini corti rossi e scarpe da corsa bianche con bordi rossi. I lunghi capelli d’oro erano raccolti in una coda di cavallo. Era uscita per correre. I suoi occhi neri, con i quali aveva spesso saputo parlare meglio che con le parole, erano fissi sui suoi ancor più neri. Non dissero nulla per un attimo. Avevano troppe parole da dirsi. Poi fu lei a prendergli la mano destra e a portarlo fuori, sul prato che attraversarono insieme. Chiara si posizionò davanti alla panchina, rimase a guardarla a lungo, strinse forte la mano di lui come in cerca di un aiuto; Sergio rispose stringendo anche lui la mano di lei. Chiara allora si sedette sulla panchina e disse: “Aspetto un bambino, Sergio. Ripartiamo da qui. Schienale e braccioli. Subito. Vèstiti e andiamo a cercare il legno. Entro stasera la voglio completa e finita.” La volpe rossa, con le sue zampe di un grigio chiaro tendente quasi al bianco, aveva solo cambiato posto. Aveva lasciato la panchina e si era stesa a sonnecchiare sotto la legnaia. Ogni tanto apriva gli occhi. Poi discretamente li richiudeva. Li vide sedersi. Allora si alzò, li guardò da lontano e con passo lento riprese il posto a lei assegnato, nell’ordine naturale cui tutto lì doveva obbedire, tra i faggi, i pini e gli abeti.

Così finì quella che da allora in paese sarebbe stata per tanti di noi, ma soprattutto per i bambini e per gli insegnanti della mia scuola, la favola della volpe e della panchina: di una volpe sagace, premurosa e attenta, che andava e veniva, appariva e scompariva, ben sapendo quando comparire o quando congedarsi; di una panchina, per tanto tempo rimasta fragile e incompiuta, ma che di quella volpe da allora non avrebbe mai più potuto fare a meno.

Ma c’è una cosa che Chiara e Sergio sicuramente ancora non sanno. L’ho saputa per caso un giorno a un tavolino del Prati dallo zio di Sergio. Il legno del tronco, che fa da seduta della panchina, e quello dei due grossi ceppi, che ne formano la base, vengono da alcuni dei tanti alberi che furono sradicati dalla frana quel 13 maggio di tanti anni fa e poi raccolti nella sua segheria. Con quei legni sono stati fatti tanti altri lavori in paese. Quel legno è come se vivesse ancora. Per quello Chiara non amava sedersi. Quella notte è stato animato da una volpe e la volpe ha detto che quel legno vive. Ha parlato prima a Sergio e poi deve aver parlato anche a Chiara. Con quali parole, non saprei dire; solo le Fate hanno di questi poteri, del resto. Chissà, forse un giorno la favola avrà una fine diversa da questa. Ma a me piace così com’è, anche se restano tanti segreti che la lasciano sospesa, come tanti nelle anime di questa gente da quel 13 maggio di tanti anni fa. In fondo, tante anime di questo paese hanno sofferto senza colpa e conservato nel cuore quei segreti.

La campanella è suonata. Chiara è uscita. Sergio mi ha salutato ed è uscito con lei sotto l’ombrello. E mentre dal mio ufficio esattamente di fronte alla chiesa sento cigolare sui suoi cardini arrugginiti quel cancello, so che il dono segreto e quotidiano del fiore è il modo che una di quelle anime ha trovato per conservare il suo sentimento. Ognuno ha la sua commozione e la sua percezione di quell’evento, qualcuno la esterna, altri no; tutto avviene assolutamente al di fuori di ogni schema e senza regole; lavorare in questo paese mi ha insegnato una cosa semplice: a nessuno spetta cercare regole, né tanto meno imporle, quando al fondamento di comportamenti ritenuti atipici, fuori dei binari imposti, ci sono tragedie di queste dimensioni. Tenerne uno per me di questi sentimenti e di questi segreti e trattenermi quando vedo il piccolo Luigi giocare con le macchinine su quella panchina, ora completa di schienale e braccioli, significa sentirmi un po’ come una di queste anime e partecipare a mio modo a quel dolore che ognuno ha metabolizzato in modo diverso. E come la volpe, quando lascia la panchina e torna nel bosco, anch’io mi ritiro alla mia scrivania, nel posto a me assegnato. E quel cigolio del cancello del camposanto, faccio finta di non averlo mai sentito.

I nostri Anni Ruggenti dal punto di vista di un veneto in terra di Romagna

Sono gli strani casi della vita che portano a leggere Il grande Gatsby, originale rivisitazione critica degli Anni Ruggenti del primo dopoguerra americano, e poi un libro scritto da un amico e pubblicato da un’associazione culturale romana: Ricordi una giovinezza troppo breve di Lorenzo Pagiaro (Campi di Carta, Roma 2017). Lorenzo è una persona che, sapendoci fare bene con le mani, ha deciso di mettere alla prova anche l’uso delle parole. Ne è uscito un libro che, ammantandolo di ironia, ci riporta agli anni del boom economico, i nostri anni ruggenti, quelli del secondo dopoguerra. Schietto è il quadro in cui si muovono quelli che sono i personaggi della vita di Lorenzo, negli anni in cui avviene la sua crescita; decisamente schietta è la rappresentazione che riceve il tormentato rapporto con il padre, su cui non vorrei soffermarmi. Ma soprattutto schietta è la rappresentazione degli oggetti della vita di quegli anni, le radio, i primi ciclomotori, i primi componenti elettronici; questi gli oggetti, autentici simboli di un’era, in cui trascorre la vita del giovane Lorenzo, figlio, come tanti di noi nati in quegli anni, di una terra che stava cambiando forse troppo in fretta. Ho apprezzato anche le pagine dedicate al servizio militare. Ma su un altro aspetto, più particolare, vorrei soffermarmi. Nelle famiglie si parlava allora un dialetto che ancora sapeva di vita contadina, ma questa stessa vita contadina, con i suoi ritmi che erano rimasti inalterati per secoli, si spegneva, si eclissava, scompariva, perdeva identità, nel momento in cui i giovani di quelle famiglie capivano che il futuro non era più tra i campi, ma sarebbe stato nell’industria, nella manifattura, nel meccanico, nel tessile, o, come dalle mie parti, nel chimico. I giovani studiavano e, se non fosse stato per quell’interessante rapporto con il padre – che non a me ma ad altri spetterebbe analizzare – anche Lorenzo forse avrebbe avuto un destino diverso. La sua vita, dalla provincia padovana, lo ha portato a Ravenna. Allora il Veneto era ancora molto povero e in Romagna il polo chimico di Ravenna attraeva a 360°: dalle campagne venete, soprattutto padovane, rodigine e veneziane (ancora si vedono nel ravennate le costruzioni in stato di abbandono di quello che fu l’Ente Delta Padano), dalle montagne forlivesi e marchigiane e da tutto il litorale adriatico, giù giù fino alla punta del Salento. La famiglia di mia mamma venne a Ravenna da Firenze (mio nonno era ufficiale pilota di Aeronautica) proprio per assistere a quella repentina trasformazione da cittadina a metà strada tra la campagna e il mare – che ancora non era il Divertimentificio della signora Coriandoli – in porto industriale al servizio di uno dei poli chimici più grandi d’Europa. Da meno di 30.000 abitanti in pochi anni la popolazione conobbe un’esplosione fino ad arrivare a poco più dei 100.000 attuali. Tutto questo in pochi anni. Come si può pensare che un processo di questo genere non abbia delle conseguenze all’interno delle famiglie? La sociologia studierà con le statistiche i dati delle migrazioni di quegli anni. Ma cosa potrà rendere meglio di un libro come quello di Lorenzo il mutare dei sentimenti che il boom economico determinò nelle famiglie, nelle singole persone. Questi libri sono sempre utili esercizi di memoria. Colmano un vuoto che le scienze umane non potranno mai riempire: dietro ai processi sociali ed economici ci sono le anime delle persone. Come quella di Lorenzo. Grazie, Lorenzo.

 

 

© 2018. Stefano Tramonti

 

Pensa un po’! Tutto inizia e tutto finisce lì: una spina d’acacia

Sono rientrato in un bagno di sudore dal giro in bici. Infilo la mano nel taschino posteriore per prendere le chiavi e aprire il garage e mi pungo. Avevo dimenticato di averla conservata. Non c’era qualche ora prima quando ero partito. Eppure, da quella goccia di sangue, da quel frammento di natura messo chissà perché in quel taschino, da lì mi piace riavvolgere il racconto. Da qualche ora prima. Quando il sole non troneggiava ancora così spavaldo in mezzo al cielo, ma iniziava appena a intravvedersi a spicchi tra le cimase e la temperatura era di almeno dieci gradi più bassa. Da un paesaggio diverso, da colori e odori diversi, da spettacoli diversi, da mondi dell’anima così maledettamente ma anche meravigliosamente diversi. Quella goccia di sangue rende diverso il dito dagli altri. Penso a un sacrificio: il sangue rimanda al sacrificio; penso a un’espiazione: il sangue ricollega alla colpa e alla sua espiazione. Ho fatto un viaggio. Ho espiato. Cosa ho espiato? Se sono stato parte di un’esperienza di sacrificio, tutto questo a che pro? Il sangue riporta il girovagare dell’anima, attraverso i contorti meandri della mente e gli errabondi pellegrinaggi della memoria, anche al dolore. Amore e dolore sono i due pilastri della vita, si sa. Si legge forse anche sui bigliettini dei baci Perugina. Eppure è così. Quel sangue, non saprei dire perché e per come, fatto sta che adesso ha un potere che nessuno gli può impedire di esercitare: riavvolge la bobina della memoria.

Si parte. Il sole è alto di poche spanne sulla linea dell’orizzonte. L’aria fresca del primo mattino di metà giugno invita a essere assaporata. Cosa meglio di un rampichino (qualcuno la chiama mountain bike) consente di fare questo bagno di bellezza in un paesaggio classificato tra quelli con maggiore biodiversità di tutto il mondo? Si tratta del tratto di costa tra le ultime case a sud dell’abitato in direzione della pineta, in direzione del mare verso la foce del fiume, risultato dell’artificiale confluenza tra due alvei, ancora ricchi di acqua grazie alle abbondanti nevi invernali e alle copiose piogge primaverili. Un bagno di bellezza. Sì. Lo è per davvero nella pacifica e silenziosa solitudine di queste prime ore del mattino. E chi lo snobba dicendo che il rampichino è fatto solo per la montagna sarà un fenomeno della bicicletta – e questo triste primato nessuno glielo vuol contendere – ma non sa cosa si perde se sa guardare non solo con gli occhi della testa, ma con quelli dell’anima, se sa dare un significato agli opposti fortori di letame e di tiglio, ai ritmi del contadino che ha battuto il grano per tutta notte con il fresco e spegne i potenti riflettori del trattore quando arrivo io: il nostro essere urbanizzati non è più avvezzo a questi ritmi, ritmi da recuperare, anche solo come esperienza visiva, ritmi che andrebbero vissuti e farebbero bene ogni tanto all’anima.

Un bagno di bellezza. Non solo: quello che tu prevedi, attendi, desideri come bagno di bellezza potrebbe, chissà, diventare a tua insaputa, come premio della tua totalmente disinteressata esperienza di viaggio, un premio di sapienza. Cerchiamo di farci capire. Ma per essere chiari bisogna vivere quel viaggio tra coltivi e incolti, tra acque e terre, tra bosco secolare e larghe di bonifica, tra residui di saline, che richiamano alla mente l’immane disumanità di certi mestieri, che nulla avevano da invidiare alle miniere quanto a malattie e ridotta speranza di vita. Accompagnare in questo paesaggio di bellezza persone in viaggio, come un cicloturista olandese, che ha incrociato la mia traiettoria per caso, e spiegargli che qua persino i medici condotti per tanti anni sono stati mandati per punizione, perché nessuno voleva venire in posti dove chiunque aveva paura di ammalarsi e di morire e dove la speranza di vita non era bassa solo per chi faceva i durissimi lavori di salinaro o pignarolo, ecco, spiegare queste cose lascia spesso a bocca aperta il tuo interlocutore. Anche questa è biodiveristà. L’Archivio storico comunale di Cesenatico, poco più di sud di qui, lo può documentare in tutta la sua cruda e drammatica realtà. Sale e pinoli erano oro per queste genti; per il primo, il sale, ravennati e forlivesi hanno litigato per secoli, finché non sono arrivati quelli più grossi di loro a farli star zitti, prima Venezia, poi lo Stato pontificio; per il secondo, il pinolo, assai più avaro, le dicerie popolari erano assai antiche. Tre anni impiega un pinolo dentro la pigna a maturare e 30 kg di pigne occorrono per 1 kg di pinoli. Forse per questo loro carattere misterioso, per questa lentezza a crescere, per questa rarità nel farsi trovare, per questa difficoltà nel farsi cogliere già Apicio nella sua Ars coquinaria li riteneva afrodisiaci? Il filosofo persiano Avicenna disse addirittura che nessun altro prodotto di natura aveva la capacità del pinolo di far aumentare la produzione di sperma nel maschio e favorire il coito. Al popolo forse le sue dotte disquisizioni su Aristotele saranno passate inosservate; ma queste sicuramente no. Il ciclista olandese non mi segue. Pazienza. Mi chiedo come faccia a stare, lungo lungo e secco secco com’è, su quella bici che non è della sua taglia. Ma mi chiedo come faccia a tenere quella barba così lunga, da cui scendono gocce di sudore, con questo caldo. Non faccio domande. Fatti suoi.

Finita la stagione dell’asparago selvatico, che dà il meglio di sé appena si dissipano le ultime brume invernali, ci si accontenta delle tante erbette che crescono sulla buona terra dei rivali, in attesa della raccolta di more in agosto. Sono i tempi dell’uomo che vive la pineta e ne sfrutta quel sottobosco così tanto amato anche dai timidi daini, che solo all’alba o all’imbrunire si avvicinano ai sentieri. Al campeggio gli avevano detto, a lui, al cicloturista olandese con barba da filosofo greco, che in pineta avrebbe visto i daini; sì, così gli avevano detto i sapientoni che si definivano protettori e grandi conoscitori dell’ambiente, proprio come se i daini fossero ammaestrati a fare le belle statuine per i turisti.

Il cicloturista olandese è stupito da questa narrazione, mentre procediamo, passando repentinamente dal paesaggio assolato del rivale del fiume a quello del lido affollato di turisti, da quello della campagna dove il fieno pervade tutti i sensi, ma proprio tutti, al viale di tigli che ci introduce in una strada bianca nelle cui piazzole giovani ragazze nere attorno a un camper mettono un brusco stop al bagno di bellezza. Loro sono belle, non lo è quello che sono costrette a fare: oltre il passaggio a livello un camposanto di paese, un tuffo nella storia di quel paese, dove anche giovani caduti in guerra vanno fieri della loro foto in divisa; ma quante domande pongono quegli uomini anziani che, forse appena usciti dal camposanto stesso, si mettono in fila fuori dal camper? Lui, il barbuto cicloturista che viene da un paese dove il sesso a pagamento si fa in negozio con ricevuta, scatta foto, assai inopportune. Gli spiego che potrebbe esserci il protettore da qualche parte e che forse è meglio fotografare uccelli e fiorellini. Credo che non abbia capito. O forse ha capito altro. Comunque, non sembra sveglio.

Procediamo oltre la statale, tra le larghe di bonifica; un pozzo di metano troneggia al centro di un vastissimo campo di colza appena battuto, alimentando quella visione di contrasti che pongono sempre domande senza risposte; un campo appena arato è aggredito da decine e decine di gabbiani; il vomere ha rivoltato le zolle e tutta la vita di vermiciattoli, che sotto di esse si era per mesi celata, è stata messa brutalmente a disposizione di quegli aggressivi uccelli di mare. Anche loro fanno come noi; se l’obiettivo dei sapiens è arrivare alla fine del mese guadagnando di più e lavorando di meno, non è forse più sapiens di noi chi ci fa capire che è più facile mangiare quei lombrichi, che volare ore e ore in cielo sul mare sperando di vedere affiorare un misero pesciolino pieno di lische?

Il cicloturista olandese, tecnologicamente dotato di tutto quello che su una povera bici può essere montato, mi fa notare che rispetto al suo gps siamo finiti fuori strada. Gli dico di non preoccuparsi. Per noi italiani tutte le strade portano a Roma. Ride e mi segue, con la sua bici a cui è attaccato di tutto: campanelli, fanali, navigatori, computer, portacellulari, portattrezzi; insomma, un albero di Natale fuori stagione. Mi sta cominciando a diventare un po’ più simpatico.

Ho appena detto che l’Italia è così varia che basta passare un ponte che cambia tutto: paesaggio, lingua, abitudini. L’ho appena detto che, passato un ponte su un canale, ci troviamo fuori dalle desolate larghe di bonifica, in un campo di girasoli più alti di noi, con tante case sparse circondate di tigli e di querce. E i tigli si sentono. Eccome se si sentono. Li riconosce anche iron-man, che pigia tasti ovunque in quel coacervo di elettronica di cui ha appesantito la sua bici. Ma se un cellulare ha già l’app con il gps, che bisogno c’è del gps?, gli chiedo, così, in modo del tutto disinteressato e distratto. Mi dice che è più preciso. Ma se un cellulare ben configurato ti dice già che consumo calorico e che dispendio energetico in watt hai avuto dalla partenza, che bisogno c’è di cardiofrequenzimetri e altri marchingegni?, gli chiedo sempre più distrattamente. Mi dice che sono più precisi. Fatti suoi. In fondo, è lui che viaggia per l’Europa portandoseli addosso. Tipo ben strano, comunque. Mi chiede una pizzeria per mangiare. Una pizzeria? Ma hai capito dove siamo? Siamo tra pinete e piallasse, larghe di bonifica e rivali di canali. Una pizzeria! Ma da che pianeta è cascato questo?

Ho capito che non è tipo da idilli bucolici. Lo riporto sull’asfalto della statale, tra i camion e le auto che sfrecciano. Probabilmente un paese con una pizzeria qua c’è. Infatti è là che maneggia pigiando tasti sulle sue diavolerie elettroniche. Questo ha fame. Lo vedo in difficoltà. Accendo il mio cellulare. Ricordo di aver installato un’app per trovare ristoranti nelle vicinanze. E trovo una pizzeria aperta a mezzogiorno a 8 km dal punto in cui siamo, sicuramente uno di quei posti frequentati dalle squadre di lavoratori, quasi tutti stranieri, che lavorano nei campi. Credo di averlo fatto veramente felice dal luminoso sorriso con cui si congeda da me facendo dietrofront. Fa parte della biodiversità anche lui, in effetti, penso tra me e me. Appena trovata una sterrata più adatta alle mie ruote grasse, ritorno in direzione del mare e in quelle larghe verdi, secate da canali che non fanno una curva, una minima deviazione per chilometri. Arrivo a una chiusa, nelle cui vicinanze è una fontana, dove sciacquo finalmente la borraccia impolverata e la riempio; quanta acqua devo sprecare, prima che ne esca che non sia bollente! Alla fine inizia a diventare un po’ più fresca, poi davvero fredda. E finalmente posso bere acqua che non sia calda e non sappia di polvere, con quel singolare retrogusto di plastica e gomma che prende dopo un po’ nella borraccia. E allo sciabordio della gora tra le paratie della chiusa tutte aperte affido la pausa pranzo: un sacchetto di frutta secca, una banana, una mezza borraccia di acqua. Fresca, acqua vera. Silenzio tutt’intorno. In lontananza si vede una macchia nel cielo. Disegna figure cangianti. Sto assistendo a uno degli spettacoli forse più emozionanti che queste terre sanno regalare: il volo in gruppo dei fenicotteri rosa. Riparto per ritornare a casa. Ma il bagno di bellezza mi ha riservato un ultimo dono. Non me lo aspettavo.

Appena uscito dalla pineta, sopra i campi di colza appena battuti lo vedo volare. Horus aveva le sue sembianze. La sua intelligenza ne ha fatto per l’uomo antico simbolo non solo di preveggenza, come la poiana per gli aruspici etruschi e poi romani, ma di accorta avvedutezza, di capacità di organizzare, di non aver mai fretta per raggiungere l’obiettivo. Lui infatti studia a lungo dall’alto, esamina, valuta, calcola traiettorie, fa tutto con freddezza e perfezione e raramente sbaglia, quando il suo piano è portato a effetto. Mi fermo. Lo guardo. Le sue ali sono immobili, dritte nella fase di studio; ma ecco, a un certo punto le punte di quelle ali cambiano d’un tratto posizione, si piegano, la velocità del volo non sfrutta più le ascensionali, deve vincerle esprimendo quella che è considerata la velocità maggiore in natura: la picchiata del falco pellegrino. Neanche un’auto di formula uno è ancora arrivata a tanto. Prendo il cellulare e mi informo. 372 km/h è la velocità massima raggiunta da una Mercedes in gara; 387 km/h è quella che può raggiungere il volo in picchiata del falco pellegrino. Riparto con la mia diversità in quel grande palcoscenico di altre diversità. La mia mente è presa dal babbo che non c’è più, dai suoi moniti e dai suoi silenzi: lui avrebbe parlato per ore di quel falco; la mente è invasa dalle scadenze del lavoro, che stonano quanto mai là in mezzo; eppure senza quel bagno di bellezza e senza quell’esperienza di sapienza, lenta e oculata pianificazione, e infine perfezione all’atto dell’esecuzione del volo del falco, forse non esagero se dico che sarei diverso. Anche senza quella maledetta spina d’acacia, lunga come mezzo pollice e che mi ha forato la posteriore nella discesa di un rivale ad appena 5 km da casa, sarei forse diverso. Anche senza quel bizzarro cicloturista che cercava pizzerie in mezzo alle piallasse, sarei forse diverso. Ho estratto quella spina d’acacia, l’ho maledetta in tutti i modi; però poi l’ho messa nel taschino e me la sono portata in garage. In fondo, di tutta quella bellezza e di tutta quella sapienza, una volta lavata dalla polvere e dalla sabbia la bici, alla fine, dopo tante pretese, dopo tante riflessioni, dopo tanti andirivieni nel tempo e nello spazio, alla fine non resta forse solo lei, una spina d’acacia?

E credo proprio che sia giusto così. Solo una spina d’acacia.

© 2018. Stefano Tramonti

Il premio

La temperatura si era abbassata dopo il temporale notturno. La pioggia caduta copiosa nella notte aveva lasciato tanta umidità nell’aria, di cui tutto era impregnato. Dalle staccionate le gocce scendevano con ritmo regolare, formando pozze che riflettevano il grigio dominante. Le nubi basse avvolgevano anche il fondovalle e la nebbia s’infittiva più ci si avvicinava al fiume. La montagna, che in quella giornata sarebbe stata protagonista, si nascondeva con atteggiamento quasi maligno dietro quelle fitte caligini mattutine. Il silenzio avvolgeva le squadre e il loro séguito di staff tecnici e medici, di amici, parenti e conoscenti, la stampa, i tifosi accorsi numerosi nonostante il clima e i valligiani, quasi tutti, anche i meno giovani, in un modo o nell’altro coinvolti come volontari nell’organizzazione di quell’atteso evento, per il momento avvolto in un grigio che metteva pensierosa preoccupazione in tutti, nei corridori soprattutto; molti di loro erano in sella alle bici sin dalle prime ore del mattino con il cellulare fisso sul meteo, la grande incognita che avrebbe potuto mandare all’aria strategie studiate e perfezionate da giorni. Con questo dominio di grigio creava un singolare contrasto la vivacità dei colori delle divise delle squadre già in allenamento e dei loro pullman parcheggiati in prossimità degli alberghi. A Marco piaceva e riusciva a infondere un po’ di carica e di alacrità il giallo-blu del pullman della sua Alberti Costruzioni, ma anche il rosso del pullman della Robocycling, la sua ex squadra, due curve più su, davanti a un altro albergo, ricordava momenti vissuti da guerriero. In mezzo un altro albergo e davanti a quello un altro pullman completamente bianco con le scritte nere: era quello della tedesca BTW-Plastik, l’ultima squadra a essersi iscritta. Anche Marco era già in divisa. Qualcuno era già uscito e aveva fatto con la bici qualche chilometro di allenamento. Tre alberghi della zona erano stati occupati dalle squadre iscritte. Altri gruppi sarebbero arrivati con gli autobus da altri alberghi in località vicine. Da anni desiderava partecipare a quella classica alpina, da poco nel calendario delle competizioni più importanti. Finalmente la sua squadra aveva deciso di puntare su di lui. Era una grande giornata. Da anni non sentiva il peso della responsabilità, ma, quando la preparazione è attenta e curata, quel peso si alleggerisce e viene sostituito dalla convinzione di poter fare bene. La sua squadra e il suo precedente direttore sportivo non lo avevano ritenuto fino ad allora adatto a gare di quel genere con un dislivello totale così impegnativo, circa 3200 km. Il suo nuovo direttore sportivo, Lorenzo Ferrucci, arrivato quest’anno e alla sua prima esperienza nella categoria più alta, aveva adesso su Marco altre idee rispetto al precedente, che lo aveva ritenuto solo adatto a gare più lunghe e a tracciati caratterizzati più da brevi ma cattivi strappi, che da percorsi con lunghe e selettive salite. Ferrucci era un toscano vecchio stampo, pane al pane, vino al vino. Non pianificava le strategie di gara sulla base di quanto diceva lo staff medico o i preparatori, non dava troppa importanza ai motivatori, di cui altre squadre facevano, secondo lui, eccessivo uso; seguiva i suoi atleti negli allenamenti, li guardava negli occhi, affiancandosi con l’auto quando li vedeva in difficoltà, per capire se non andavano le gambe o la testa. E quando era un problema di gambe, li affidava allo staff dei preparatori; quando era un problema di testa, ci pensava lui di persona. Marco però non era un atleta facile da gestire e Ferrucci lo aveva capito subito; per questo il suo rapporto con la squadra era completamente diverso dall’approccio che riservava a Marco, ragazzo descritto come atleta dalle enormi potenzialità, che però il suo precedente collega non aveva mai sfruttato e aveva sempre confinato in una posizione secondaria. Marco era per Lorenzo Ferrucci l’atleta dei ma: era forte in velocità, ma …; era potente sul piano, ma …; andava come una palla da schioppo a cronometro, ma … C’erano tutti questi ‘ma’ da capire. Lorenzo aveva voluto conoscere la sua storia, aveva provato a instaurare un dialogo personale, oltre il livello professionale e sportivo, ma non ci era ancora riuscito. C’era qualcosa che doveva scattare soltanto nella testa di quel corridore che era veramente forte, perché la gamba era fenomenale. Per anni Marco era stato tenuto come uomo da gare secondarie, non da salite come quelle che caratterizzavano il tracciato di quella gara nuova, salite che hanno fatto e faranno sempre l’epica del ciclismo. Per anni era stato messo come capitano soltanto in gare di riempimento, quelle che servono alle squadre per arricchire la stagione, per prepararsi ad altri più impegnativi appuntamenti e dare la possibilità ad atleti forti, ma non di prima linea, di avere i loro momenti di gloria. Eppure da anni Marco scalpitava per dimostrare di essere forte in salita e su grandi salite aveva fatto recentemente tanti chilometri di preparazione invernale. Conosceva bene quelle strade, conosceva alla perfezione quelle altimetrie, aveva in mente la tabella dei rapporti da usare quasi curva per curva. Incurante della bassa temperatura, andò al pullman dove i meccanici erano già al lavoro e si fece dare la sua bici che era già stata preparata: “Marco, oggi siamo tutti con te! Sarai contento. Da quanto tempo aspettavi quest’occasione …”, gli disse Giovanni, il più anziano dei quattro meccanici che erano venuti su. “Sì, sono molto emozionato e carico. Sarà freddo su in quota. Mi sono preparato molto con il freddo. Mi sento bene oggi,” rispose Marco. “Hai guardato la lista degli iscritti?”, chiese Giovanni, mentre finiva di registrare gli ultimi dettagli. Aveva posto quella domanda in modo apparentemente distratto. Marco non rispose a tono e chiese: “Ce la fai a togliermi un pignone in mezzo, per mettermi un 11 dietro?”, chiese Marco. “Che te ne fai dell’11 oggi con questo dislivello?”. Marco lo guardò negli occhi e i loro sguardi si incontrarono. “Non ti preoccupare, Gio. Ho un’idea.” Giovanni sapeva che quando Marco non voleva parlare, non avrebbe detto nulla e non insistette, tornando alla domanda di partenza, a cui Marco non aveva risposto. “Hai visto la lista degli iscritti? Ci sono delle novità dell’ultimo momento,” disse Giovanni, mentre svolgeva il lavoro richiesto da Marco sul rocchetto posteriore. “Novità? Ho visto sul sito la lista alla chiusura della settimana scorsa.” “Allora credo che sia meglio che la riguardi. Ci sono novità importanti.” Giovanni glielo aveva detto in modo strano, con un insolito tono della voce, ponendogli una mano sulla spalla. Marco seguì il lavoro di Giovanni, che senza discutere aveva già rimontato il rocchetto con la modifica richiesta. L’11 era il rapporto più lungo, adatto alla pianura, fatto per chi deve dare il massimo in volata; alcuni lo montano, se vogliono fare allunghi in discesa, ma Marco non aveva mai amato in modo particolare la discesa. Giovanni fece quanto richiesto, ma perplesso. “Non è giorno da 11. Non è giorno da 11”, ripeteva mentre completava la registrazione del delicato cambio elettronico con un occhio che ogni tanto andava al cielo e alle nubi. Tutti avevano visto le previsioni ed erano preoccupati. “Guarda la lista, Marco. E tieni conto anche del meteo.” “Lo farò dopo. Per il meteo non sono preoccupato: se piove per me, pioverà anche per gli altri. O no? Adesso mi voglio scaldare un po’. Andò sui rulli e fece un po’ di riscaldamento. Poi prese la bici e andò a fare un tratto di una delle tre strade in salita, che dal paese si inerpicavano sui grandi passi, dove si era spesso scritta la storia di quello sport, soprattutto nelle grandi gare a tappe: su quelle strade aveva trascorso settimane in inverno, per affinare la sua preparazione in salita, e aveva curato anche la tecnica in discesa, un particolare che aveva sempre trascurato nella propria preparazione. Conosceva quelle salite e quelle discese curva per curva. Aveva la cartina altimetrica di ogni strada e di ogni valico ormai stampata nella memoria, da ognuno dei versanti che lo raggiungevano. Tornò per fare colazione con i compagni di squadra e nel raggiungere il suo albergo vide, parcheggiato vicino a un altro albergo, il pullman della sua ex squadra, quella che lo aveva costretto dopo anni ad andarsene sbattendo la porta. Sapeva che la sua ex squadra sarebbe stata presente quel giorno. Aveva controllato bene la lista degli iscritti e Lorenzo Ferrucci lo aveva rassicurato. Sapeva che Marco temeva sempre quel confronto, sapeva che per anni, da quando la Robocycling lo aveva praticamente costretto ad andarsene, aveva fatto lo slalom partecipando solo alle gare in cui Demetrio Piras non fosse presente. Marco, come sempre da sei anni a quella parte, per giorni era stato quasi incollato a internet e aveva tirato un sospiro di sollievo, quando aveva visto che le iscrizioni erano chiuse e l’assenza di lui, di Demetrio, era confermata. Ma sapeva, dentro di sé, che neanche lui si sarebbe mai iscritto a una gara sapendo che si sarebbe dovuto confrontare con Marco. Lo conosceva molto bene. Ma là intorno a quel pullman della sua ex squadra aveva visto un’agitazione molto particolare, un clima di festa e gridi di incitamento che non si spiegava, se erano venuti solo per cercare di non fare una brutta figura. Aveva visto Landi agitato e molto impegnato a dare ordini a dritta e a manca. Landi, il suo ex direttore sportivo alla Robocycling, faceva così solo quando partecipava con i suoi a una gara per vincere. Marco lo conosceva da anni; per anni aveva corso con lui. Uno strano rapporto di amore e odio aveva legato lui a Mattia Landi, uomo dal carattere duro e spigoloso, irritabile e scostante, certamente rude nel rapportarsi agli altri, ma imbattibile in due cose: nel pianificare le strategie per vincere le gare e nel valorizzare e motivare i suoi atleti in gara. Mentre faceva colazione con i compagni di squadra, che lo incoraggiavano tutti in un modo diverso, insolito, e mentre ascoltava le ultime raccomandazioni di Ferrucci, che, lanciando spesso occhiate a lui, ricordava la strategia di squadra messa a punto il giorno prima, distrattamente i suoi occhi caddero sulla lista degli iscritti che Giovanni gli aveva detto di controllare. Ebbe un sussulto, quando lesse quel nome in testa alla lista della Robocycling. Le squadre erano in ordine alfabetico, la sua, Alberti Costruzioni, era la prima, con la bandierina tricolore e con il nome del suo capitano, Marco Benini, in grassetto; la sua vecchia squadra, la Robocycling, con la bandierina bianco-azzurra di San Marino, era nell’ultima pagina. In giallo erano indicate le sostituzioni. Dopo la chiusura delle iscrizioni, quando Marco aveva consultato per l’ultima volta la lista, c’erano state solo due sostituzioni, che il regolamento ammetteva, una in una squadra svizzera e una proprio nella Robocycling e il nome in giallo era proprio quello del capitano, in grassetto come il suo, il primo della lista di otto atleti che ogni squadra poteva iscrivere: Demetrio Piras. Ferrucci disse che aveva notato molto motivati i corridori della squadra tedesca BTW-Plastik, una multinazionale con direttore sportivo italiano e atleti quasi tutti sudamericani, dell’est europeo o degli stati dell’Asia centrale.

Ferrucci si alzò e andò a sedersi accanto a lui: “Non me ne sono accorto neanch’io. Se l’avessi saputo, te l’avrei detto.” Marco ebbe un gesto di stizza, che non riuscì a controllare. Lanciò con rabbia un tavagliolo che aveva in mano, sul tavolo, rompendo una tazzina e ro­vesciandone il contenuto sulla tovaglia. Poi si alzò e, correndo, tornò sulla bici. Lorenzo provò a inseguirlo inutilmente. Marco era già partito. Ferrucci si prese il volto tra le mani e lo seguì allontanarsi, giù per la discesa. Alexej e Roger, il kazako e il belga della squadra, raggiunsero il loro direttore sportivo sulla porta dell’albergo e il primo disse: “L’ha presa male.” “Temo di sì. Sarà dura oggi, ragazzi. Dovremo combattere con le gambe, ma soprattutto con la testa. Su, alle 8,30 vi voglio qui fuori per un allenamento come previsto, poi riguardiamo altimetria e planimetria e facciamo un’ultima chiacchierata in pullman. La temperatura è più bassa del previsto. C’è possibilità di pioggia, purtroppo.” Roger disse: “Marco va forte con il freddo.” Lorenzo attese per rispondere; poi disse: “Ma oggi c’è qualcun altro che va molto forte con il freddo, molto forte in salita, e che sa far funzionare molto bene insieme le gambe e la testa.” La partenza era prevista per le 11,30. Giovanni aveva visto sfrecciare Marco in discesa, con colpo di pedale rabbioso. Interruppe il suo lavoro ai cavalletti e raggiunse il suo direttore sportivo: “Non si mette bene, vero?” Lorenzo disse: “Ho sbagliato io. Dovevo dirglielo. Gli ho mentito. Gli ho detto che non lo sapevo.” Giovanni, il più anziano di tutta la squadra, meccanico da anni, non solo aveva seguito Marco nelle vicende che avevano caratterizzato il turbinoso passaggio dalla Robocycling alla Alberti Costruzioni, ma lo aveva visto crescere come sportivo. Era un po’ un secondo babbo. Con lui era passato anche il fisioterapista indiano Chapal, amico e confidente di Marco. Era stata una trattativa nervosa, quasi surreale, non dettata da condizioni economiche, ma da errori umani, commessi da chi non sapeva che gli atleti sono anche uomini, non solo macchine per vincere. Nella sammarinese Robocyling Marco Benini e Demetrio Piras per anni avevano vinto tutto. Era stata addirittura la famiglia di Marco a trovare il denaro nella Repubblica di San Marino, per allestire una squadra nuova, quando quella per cui avevano corso per tanti anni iniziò ad avere serie difficoltà economiche e stava per chiudere la sua attività. Trovare uno sponsor disposto a investire qualche decina di milioni per una stragione in uno sport, seguito da tanti appassionati, ma solo in alcune regioni e che non aveva certamente la visibilità del calcio, non era più facile. Il presidente della società aveva già invitato gli atleti a trovare altre squadre e altri sponsor, quando il babbo di Marco si presentò con un vero cartello di sponsor, che faceva capo a un artigiano che costruiva biciclette a San Marino ed era sostanziato da due banche della piccola repubblica. Nacque così quella Robocycling in cui Demetrio e Marco, aiutati da altri atleti di livello, avrebbero per anni vinto di tutto.

Marco non vedeva il grigio dell’asfalto. Era un altro grigio che vedeva, mentre rab­biosamente pedalava cercando di sfogare quello non sapeva nemmeno lui cosa fosse. Era un grigio che era calato sulla sua vita sei anni prima, quando Demetrio e lui, erano partiti rispettivamente primo e secondo nella classifica generale del Giro dell’Austria il giorno dell’ultima e decisiva tappa: un grande successo si profilava per la Robocycling e per la piccola repubblica che rappresentava. Mai aveva avuto i suoi due uomini più forti primo e secondo in classifica. Tuttavia il destino avverso aveva deciso di farsi sentire con tutta la cattiveria possibile. Sulla discesa che precedeva la salita decisiva, Demetrio forò: il suo primato era in bilico. Dall’ammiraglia il direttore sportivo Mattia Landi gridò a Marco di andare avanti e che ora la squadra doveva puntare tutto su di lui. Ma Marco non era forte come Demetrio in salita e sapeva che senza il suo appoggio Demetrio non avrebbe conservato il primo posto. Nessun altro nella squadra aveva la corporatura e il peso di Demetrio. Solo con la bici di Marco avrebbe potuto continuare e difendere il suo primato in classifica. Marco gli diede la sua bici. Landi urlò di non farlo. Lo minacciò di sanzioni disciplinari. Era furente. Pensava solo ai premi e al denaro. Marco e Demetrio pensavano invece alla loro amicizia. Demetrio era di poche parole: non fece commenti come suo solito. Marco si arrabbiava, lui mai. Ma non seppe prendere una decisione rapida. Marco gli aveva dato la sua bici; il direttore sportivo non era d’accordo e, dando per scontato che Demetrio non ce l’avrebbe fatta a recuperare, voleva che Marco provasse a difendere quello che era in quel momento il primo posto virtuale. Il tempo passava. E fu determinante quell’indecisione. Demetrio ebbe un’altra bici con molto tempo di ritardo, Marco conservò la sua. Ma non riuscirono a riprendere gli avversari agguerriti che, avendo saputo non solo della foratura del primo in classifica, ma addirittura del litigio con il direttore sportivo, ne approfittarono. A dieci chilometri dal traguardo, Marco mise i piedi a terra, scese dalla bici e dichiarò il ritiro, urlando a Landi: “Imbecille, solo lui poteva vincere e con la mia bici, anche senza di me, avrebbe vinto.” Quell’offesa al suo direttore sportivo gli costò l’allontanamento dalla squadra: stagione finita. A fine gara, Demetrio lo cercò, ma non lo trovò. Marco aveva fatto le valigie e si era fatto portare da un taxi alla più vicina stazione da cui, in treno, tornò a casa. Demetrio gli mandò un messaggio: “Grazie, Marco. Sei stato tu il più grande oggi per me.” “Buona fortuna, Met.” Quelle furono le ultime parole tra loro due. Da allora, da quel giorno di sei anni prima, nessuno dei due, per una ragione che aveva a che fare solo con inafferrabili sensi di colpa e con la paura, aveva più avuto il coraggio di contattare l’altro. Da allora sarebbero stati avversari, non più compagni di squadra; il destino, il denaro, la gloria, la perdita di vista dei valori umani avrebbero reso addirittura nemici, che si temevano al punto da evitarsi, due giovani che erano amici da ben ventitré anni, dal primo giorno della scuola dell’infanzia. A tre anni si erano conosciuti. Erano stati amici all’asilo, alle elementari e alle medie, e poi nello sport, crescendo insieme, allenandosi insieme, realizzando un’intesa perfetta e dando vita a un binomio che non solo sulla carta era sempre vincente. Un ingranaggio si era improvvisamente inceppato. E la macchina non andava più avanti. Una banale foratura, un incidente, un contrattempo che in allenamento e in gara capita spesso, avrebbe impresso al destino di due persone un cammino diverso. Demetrio rimase uomo di punta della Robocycling, di cui sarebbe stato capitano nella maggior parte delle gare. Marco dovette ricostruirsi una vita nuova: avrebbe dovuto cercare una squadra nuova, nuovi sponsor. Marco avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo. Da sei anni avevano provato a prendere il telefono per mandarsi un messaggio, un saluto, un augurio; ma non era facile, dopo quello che era successo, trovare le parole giuste. Troppo avvolgente e impegnativo era il clima che avevano costruito in tanti anni di vita insieme. Non solo: con il passare dei giorni, il silenzio divenne piano piano paura. E quel silenzio fatto di paura ebbe come conseguenza quel controllare sempre le liste d’iscrizione alle gare, per evitarsi reciprocamente. Landi diceva a Demetrio che era folle e infantile il suo comportamento e che prima o poi si sarebbero incontrati. Ferrucci, invece, aveva cercato di capire, aveva parlato con Marco, anche perché, diversamente da Landi, che adesso odiava con astio e acido rancore Marco, nutriva profondo rispetto per Demetrio Piras. Non solo: era andato anche a trovarlo e aveva anche cercato di strappargli, inutilmente, qualche parola. Demetrio era persona di poche parole, faceva quello che doveva fare, lo faceva in silenzio senza discutere; non era vulcanico ed estroverso come Marco, spesso quasi intrattabile, quando era furioso. Così diversi, eppure così vicini per una vita intera. Era bastato un incidente da nulla, il più banale incidente che può capitare in una gara ciclistica, per azzerare tutto quanto costruito in una vita intera. Giovanni e Chapal sapevano tutto di quei due ragazzi e avevano anche loro sofferto quella separazione, quando Marco li volle con sé nella nuova squadra e dovettero lasciare Demetrio, il cui nome da allora sarebbe aleggiato solo come la figura di un fantasma prima di ogni gara.

Marco, mentre in preda alla furia continuava a pedalare in discesa, senza nemmeno sapere dove stesse andando né cosa stesse facendo, ebbe un ricordo di pochi giorni prima di quella partecipazione al Giro dell’Austria. Francesca aveva detto a Demetrio che era in­cinta. Perché quel ricordo? Marco si arrabbiava quando qualcuno gli ricordava che la vita di Demetrio era stata tutta costruita sulla sua e che anche nella carriera di Demetrio lui aveva sempre avuto un ruolo determinante. Eppure forse era vero, anche se Marco non amava ammetterlo. Per lui, per Marco, Marco Benini e Demetrio Piras erano una cosa sola, stavano uno accanto all’altro, in posizione assolutamente paritaria e nessuno doveva permettersi mai di mettere uno dei due davanti all’altro, nemmeno un direttore sportivo. Francesca era una sua vecchia fiamma dei tempi della scuola superiore. A diciassette anni si erano trovati a una festa in una casa di campagna e si erano messi insieme. Ma a Francesca cominciò a stare stretta la vita da atleta di Marco con tutte le sue lunghe assenze e la loro storia finì. Beffarda ironia avrebbe voluto che, con l’intenzione di dire una battuta durante una cena della squadra, quando due compagni notarono che Demetrio non aveva una ragazza, Marco, appena lasciato da Francesca, disse: “Ce ne sarebbe una libera.” E da quella sera Francesca, che aveva da poco rifiutato un atleta, proprio perché atleta, si sarebbe messa con un altro atleta, lo avrebbe sposato e gli avrebbe dato un figlio. Ma a Demetrio Marco aveva sempre permesso tutto. Erano le 8,30. Sarebbe arrivato tardi all’appuntamento fissato dal direttore sportivo per l’allenamento e il ripasso della strategia di gara. Fece inversione improvvisamente con la bici, incurante di un’auto che suonò a lungo il clacson e si diresse all’albergo, dove arrivò con abbondante ritardo e tutti gli occhi puntati addosso. Salì sui rulli, fece alcuni esercizi, si prestò alle cure del massaggiatore e del suo inseparabile Chapal. Nessuno parlò con lui, ma tutti parlavano con quelli che avevano a che fare con lui. Il clima non era quello consueto del pregara. C’era qualcosa di insolitamente nuovo che aleggiava nell’aria e creava un’inquietudine molto particolare, a cui Marco non era avvezzo. Dopo quell’allenamento ci sarebbe stata la riunione, che, per ragioni di riservatezza, si sarebbe tenuta sul pullman, come di consueto.

Mentre Lorenzo Ferrucci parlava e diceva le cose che Marco già sapeva, che lui era il capitano, che le salite erano quattro, che compito della squadra era fare ritmo con rapporti duri per le prime due, con pendenze medie tra il 6% e il 7%, e che nelle ultime due Alexej e Roger sarebbero subentrati agli altri per assottigliare il gruppo e tirare l’attacco di Marco, previsto sull’ultima salita, con pendenza media dell’8% e massima addirittura del 19%; che dallo scollinamento al traguardo ci sarebbero stati 13 km di discesa e poi tre di piano, fino allo strappo finale, gli ultimi micidiali 400 metri con un tratto addirittura al 22%; insomma, mentre il direttore sportivo ricordava la strategia di squadra, Marco non riusciva a non pensare solo a come si sarebbe comportato lui, Demetrio, e a quale strategia su di lui avrebbe costruito la Robocycling di Mattia Landi. Alla fine, dopo essere stato presente solo fisicamente, ma del tutto assente con la testa, Marco serio alzò la voce, dicendo: “Non dire boiate, Lorenzo. Landi non è venuto per vincere; è qua per farcela pagare. E Demetrio doveva far parte della squadra da sempre; ci ha preso tutti per il naso quel farabutto pieno solo di rancore: lo ha iscritto come sostituto all’ultimo momento apposta. Landi è qua solo perché odia me e oggi imposterà la sua gara solo sull’odio per me.” Tutti tacquero e si voltarono verso il divano posteriore del pullman, dove Marco si era seduto isolato da tutti e da cui si era improvvisamente alzato. Sapevano che aveva ragione da vendere. Roger prese la parola: “Lorenzo, dovevi dirglielo. Perché non l’hai fatto?” Marco si alzò. Era rosso dalla collera. Urlò rivolto a Lorenzo Ferrucci: “Non dirmi che lo sapevate tutti e non me l’avete detto!” Un gelido silenzio avvolse il pullman. Giovanni, il capo meccanico, scuoteva la testa: “Hai sbagliato, Lorenzo. E oggi sarà dura. Marco, calmati. Sono cose che nella vita vanno messe in conto.” Era il più anziano. Quando Giovanni parlava, nessuno lo contraddiceva mai. Nella Alberti Costruzioni non era solo il capo meccanico in quei momenti psicologicamente delicati prima della gara; era una specie di padre spirituale. Ma il gelo nell’aria che si respirava in quel pullman era tanto. Solo Roger si muoveva e lo faceva nervosamente. Gli altri erano immobili. Nessuno osava guardare negli occhi un altro. “Ma come si fa a rovinare in questo modo una gara così importante per tutta la stagione!”, disse sempre Roger nel suo italiano ormai quasi perfetto; era l’unico che riusciva a parlare. Chapal scuoteva la testa, ma neanche lui trovava parole. Ferrucci trovò la forza per parlare: “Ho sbagliato. Va bene. Ho sbagliato. Ho sbagliato. Okay. Ho fatto una cazzata. Ma adesso c’è una gara da vincere e Marco è il nostro capitano. Siamo venuti per farlo vincere. La strategia di gara è questa. Non si cambia.”

Lorenzo – intervenne Alexej, che con i suoi 34 anni era il più anziano dei corridori – con Demetrio in gara Marco in salite dure come queste non ce la farà mai. Marco è venuto per vincere, perché sapeva che Piras non era iscritto, ma la sua preparazione non è al livel­lo di quella di Piras ed è la prima gara della stagione in cui è capitano.” Ci fu un lungo si­lenzio. Tutti erano seduti, tranne Roger, che andava avanti e indietro tra le file dei sedili, e Marco, che era in fondo al pullman.

Attaccherò, se riesco a star con lui. Ma in discesa,” disse Marco, dopo quella lunga pausa.

Cosa! Mai tu sei andato completamente fuori di cervello!” urlò Lorenzo Ferrucci, sa­pendo che la discesa era il punto debole di Marco e avendo studiato il meteo con la stessa acribia dei dati planimetrici e altimetrici.

No, Lorenzo, calmati tu adesso e ragiona, per favore,”, disse di nuovo Alexej, men­tre Chapal continuava a scuotere la testa. “Marco ha detto l’unica cosa sensata di oggi. Non c’è più possibilità di vincere sulla salita. Ascoltami: io e Roger ci risparmiamo più che possiamo nella prima parte di gara, cercando di nasconderci nel gruppo; non tiriamo noi; lasciamo fare agli altri; possiamo provare a fare un buon ritmo nelle ultime due salite, quando io e Roger porteremo davanti Marco; e lì si giocherà tutto; Marco non potrà mai staccare Piras in salita; quest’anno Piras va veramente forte; proveremo noi a tenere alto il ritmo; lui è forte, ma la Robocycling non ha uomini in grado di tenere un alto ritmo in sali­ta; Piras potrebbe rimanere senza squadra e forse anche innervosirsi. Poi in discesa l’attac­co di Marco potrebbe essere la sorpresa anche per lui; nemmeno Piras è forte in discesa, non dimentichiamolo. Per la prima volta intervenne Chapal, il fisioterapista: “Ho seguito molto Marco nella preparazione invernale, come sapete. Marco è migliorato molto in di­scesa.” Aveva detto una bugia, ma una bugia molto utile in quel momento, in cui la testa doveva essere più importante della gamba, in cui l’approccio mentale alla gara diventava più importante di quello fisico, in cui la particolare spiritualità indiana di un fisioterapista avrebbe potuto forse fare la differenza, per risolvere una tensione nervosa assolutamente imprevista alla vigilia. Bisognava fare quadrato attorno al capitano. Marco in quel momento si sentiva più vicino a lui che a Ferrucci. Attraversò tutto il pullman, fino a trovarsi davanti dove erano Lorenzo, Giovanni e Chapal. Lorenzo Ferrucci e Giovanni iniziarono a parlare di dettagli tecnici delle bici. Lo sguardo di Chapal incontrò quello di Marco che, senza il permesso di Lorenzo, stava uscendo dal pullman. Chapal lo seguì fuori. Le foschia del mattino si stava diradando, ma il cielo restava coperto di nubi. Nella riunione Lorenzo aveva detto che la probabilità di pioggia sarebbe stata alta per tutta la durata della gara.

Lo sai che non è così che si fa l’approccio a una gara, Marco, vero?”

Lo so.” Aveva le lacrime agli occhi, segno di quanto alte erano in lui la tensione nervosa e l’ansia. Chapal gli mise una mano sulle spalle e gli fece fare esercizi di respirazione. “Non sarà facile per te oggi, Marco.”

Doveva succedere prima o poi. Il nostro mondo è questo e tutto sommato è anche un piccolo mondo. Evitarsi in eterno era impossibile.”

Non vi siete mai più sentiti da allora? Proprio mai?”

Mai.” Marco si sedette su una panchina. Chapal si sedette accanto a lui. “Dai, parliamo un po’. Come vi siete conosciuti?”

All’asilo. Siamo stati quasi fratelli, più che amici, fino a quel maledetto giorno.”

Se ti va di parlarne, mi fa piacere. Forse ti può far bene parlarne. La polvere non si nasconde sotto il tappeto.”

Questa non è filosofia indiana. Lo diceva anche mia mamma,” ribatté Marco, ritrovando un po’ di serenità. Poi accavallò la destra sulla sinistra, portò le braccia all’indietro, appoggiò sulle mani la nuca, chiuse gli occhi, piegò la testa all’indietro, tirò un profondo sospiro e iniziò a raccontare. C’era ancora un’ora prima della partenza. Due curve più in alto, lungo la strada principale del paese, c’era l’albergo fuori del quale era parcheggiato il pullman della Robocycling. Marco pensò che forse là dentro Mattia Landi stava dando sfogo a tutta la sua vecchia acidità contro di lui nell’illustrare la sua strategia di gara. Landi era veramente bravo nel suo mestiere, aveva la cattiveria giusta che in quel mondo serve per vincere e, se la tirava fuori tutta, lo faceva per una sola ragione: perché sapeva che era venuto solo per vincere. Del fatto che gli atleti hanno un’anima e un passato a lui non era mai interessato nulla e quel fatidico giorno di sei anni prima lo aveva pienamente dimostrato. Ma come direttore sportivo era il più bravo che Marco avesse avuto.

Demetrio era figlio di un portuale. La mamma era alcolista e si era separata dal babbo lasciandolo solo con il figlio e con problemi economici. Sparì nel nulla quella donna, di cui nulla si seppe più. Il babbo di Demetrio fu costretto a mettere il figlio in un costoso asilo privato e poi anche alle elementari, per poterlo riprendere quando usciva dal lavoro, non potendo contare su aiuti e non potendoseli nemmeno permettere. Per noi bambini era una presenza sicuramente diversa quella di Demetrio. Quasi tutti appartenevamo a famiglie benestanti. Rari erano in quell’istituto privato, che aveva scuola dell’infanzia ed elementari, i casi di figli di operai o portuali. Ma la scuola si trovava per il babbo di Demetrio proprio sulla strada che portava al porto e per lui era comoda anche per quella ragione. Ma gli adulti guardano a queste cose, non i bambini. Demetrio veniva spesso a casa mia. Mio babbo aveva saputo del fatto che viveva solo con il suo e lo invitava spesso. Il babbo di Demetrio poté anche accettare un incarico meglio retribuito, che però prevedeva turni di notte. Mio babbo gli disse che Demetrio avrebbe potuto tranquillamente rimanere a dormire a casa nostra e per me, ultimo di quattro figli e con tre sorelle femmine, avere un amico con cui giocare fu bellissimo. Per questo, non a caso, Chapal, ti ho detto che io e Demetrio, più che amici, eravamo quasi fratelli.”

Bella questa storia. Amicizia fraterna. Va’ avanti, Marco,”, disse Chapal, che aveva capito di aver fatto bene a far parlare Marco.

Una storia di amicizia fraterna. Hai detto bene. A casa mia Demetrio vedeva ogni ben di Dio, che a casa sua non avrebbe mai visto. Mio babbo, come tu sai, è titolare di una grande  azienda nel settore agroindustriale. La nostra famiglia era agli antipodi rispetto a quella di Demetrio. Agli antipodi in tutti i sensi.”

Intendi dire anche come visione del mondo?”

Sì, anche come visione del mondo. Il babbo di Demetrio aveva in corpo una rabbia repressa, che si manifestava anche nelle sue idee politiche, sempre espresse in modo radicale ed estremo. Era sindacalista combattivo e militante dell’estrema sinistra. Uomo da battaglia, sempre candidato nelle elezioni amministrative, ma mai eletto; sempre in prima fila in piazza, ma quasi relagato dal destino sempre all’ultimo posto nella scala sociale. Eppure mio babbo prima, io poi, nonostante le enormi differenze abbiamo sempre nutrito rispetto per quella persona per la quale la vita era stata così difficile. Era figlio di immigrati sardi, colpiti dalla chiusura delle miniere, rimasti con un pugno di mosche in mano e costretti a cercare fortuna nel nord. Aveva avuto la sfortuna dell’etilismo della moglie, che, divenuto cronico, l’aveva ridotta a una parvenza di essere umano; dopo la nascita dell’unico figlio, era sparita nel nulla. Nessuno aveva mai più saputo nulla di lei. Si ipotizzò un suicidio, che era ed è tuttora la più probabile tra le ipotesi, ma non è mai stato trovato il corpo. Fatto sta che il bambino non poté che essere affidato al babbo. I miei genitori furono molto bravi. Non ebbero mai atteggiamento paternalistico nei suoi confronti. Mia mamma veniva da una famiglia molto semplice di militari. Mio babbo aveva creato una grande azienda quasi dal nulla, con la voglia di lavorare e rimboccarsi le maniche e anche con quel pizzico di fortuna, che nella vita spesso fa la differenza.”

Fortuna audaces iuvat,” lo interruppe Chapal.

Neanche questo mi sembra faccia parte della filosofia indiana.”

No, infatti,” rise Chapal, contribuendo ad allentare ulteriormente quella tensione che prima nel pullman era salita davvero troppo. Lorenzo Ferrucci, che stava ancora parlando con Giovanni delle biciclette, dei rapporti e di altri aspetti tecnici e con i preparatori della dieta in gara, da dentro il pullman osservava i due che stavano parlando seduti sulla panchina. Aveva da tempo capito che Chapal non era solo un fisioterapista, ma aveva un ascendente sugli atleti e su Marco in particolare, che in certi momenti era importante, talvolta addirittura determinante. Ci sapeva fare quel ragazzo e in quei momenti capiva perché Marco avesse insistito per avere quei due collaboratori con sé, quando fu costretto a cambiare squadra: Giovanni era non solo il meccanico, ma anche l’anziano ex corridore saggio ed esperto; Chapal era non solo il fisioterapista, ma una sorta di motivatore, dotato di una singolare capacità di ascoltare e di creare il clima opportuno nella squadra prima di ogni appuntamento importante della stagione. Il cielo nel frattempo si stava oscurando e la minaccia della pioggia si faceva sempre più concreta.

Fu mio babbo, che era ciclista a livello amatoriale, a capire che il ciclismo sarebbe stato un possibile riscatto per Demetrio. A otto anni eravamo già tutti e due atleti in una squadra. Presto sarebbe iniziato il percorso nelle categorie juniores. Demetrio era sempre il più forte. A me piaceva divertirmi. A lui piaceva vincere. Quando saremmo stati più grandi, avrei capito che era giusto che fosse così.”

Hai detto una cosa bella.”

Non lo dicevo solo io. Lo pensava mio babbo. Voleva veramente molto bene a Demetrio. A diciassette anni eravamo già in quella squadra, la Juke Gelati, che poi sarebbe fallita e che si sarebbe ripresa con il nome di Robocycling grazie proprio al denaro e agli sponsor che in extremis trovò proprio mio babbo a San Marino. Partecipare alle riunioni e sentire i sammarinesi dello staff dirigenziale che parlavano di noi italiani come stranieri faceva una strana impressione. Ma così era. Mio babbo ha sempre sostenuto di aver fatto tutto alla luce del sole. Molti hanno messo in giro invece delle calunnie solo per il fatto che gli sponsor non erano stati trovati in Italia, ma a San Marino. Solo le vittorie avrebbero messo a tacere le malelingue. E così fu. Demetrio era forte in salita e su di lui si puntava per i successi nelle grandi corse a tappe; io invece ero quello più adatto alle lunghe e massacranti gare di un giorno da 250 e passa chilometri; ma, se mi impegnavo e trovavo l’aiuto giusto nella squadra, ero forte anche in volata. Solo dopo, grazie a Demetrio, insieme al quale mi allenavo sempre, avrei acquisito una certa sicurezza e resistenza anche in salite più dure e impegnative di quelle generalmente più brevi delle gare di un giorno. E così diventai piano piano l’ultimo uomo nelle grandi salite. Tra me e Demetrio non c’era bisogno di parole. Quando vedevo che si alzava sui pedali, sapevo che quello era il segnale: ‘vai, Marco; adesso tocca a te, poi parto e li faccio secchi.’ Lo disse una sola volta. Avevamo diciotto anni. Poi non ebbe più bisogno di dirlo.”

Ma quando tu vincesti l’europeo juniores di Zurigo a diciotto anni, andò tutto a rovescio …”, intervenne Chapal.

Faceva parte del gioco. Era una gara lunga di un giorno. Nel finale c’era uno strappo duro. Percorso ideale per me. In sette staccammo il gruppo e partimmo appena la strada iniziò salire. Demetrio a un certo punto salì sui pedali e iniziò a fare un ritmo pazzesco, come solo lui in salita avrebbe potuto fare. Era il segnale. Mi stava preparando. Attaccò la salita a un ritmo infernale. Non fu facile staccare gli altri cinque. Ma in cima arrivammo solo noi due. Lui era stremato. Arrivato in cima, urlò: ‘Vai!’ E si piantò senza fiato. Potevo solo perdere a quel punto.”

Ricordo la giornata e ricordo anche quello che fece Landi.”

Marco non commentò il riferimento di Chapal al fatto che il suo direttore sportivo si era complimentato prima con Demetrio che con lui, il vincitore. A lui non importava se Landi era fatto così. La sua amicizia con Demetrio era qualcosa che Landi mai avrebbe potuto capire, anche se avesse voluto, e per questo ben al di sopra di queste piccolezze.

Della vostra carriera sportiva so tutto. Non c’è bisogno che me ne parli. Mi interessa sapere qualcosa della vostra amicizia in privato.”

Non c’è tanto da dire. La nostra vita privata, da quando siamo passati prima in under 23 poi in élite, è stata sempre molto ristretta. Ti ho già detto di Francesca e del suo matrimonio. L’unica cosa da dire è il dispiacere che mio babbo ha avuto, quando è successo l’episodio del Giro dell’Austria. Per lui era inimmaginabile che io e Demetrio, per lui quasi un quinto figlio, potessimo trovarci non solo separati nella vita, ma addirittura avversari. Del babbo di Demetrio so che pianse addirittura quando seppe dell’accaduto.”

Per Landi forse voi due non eravate diventati solo avversari, ma persino nemici.”

Non si dovrebbe mai usare quella parola, ma forse hai ragione, Chapal.”

Arrivò un’improvvisa folata di vento e le nubi d’un tratto si abbassarono. “Se dovesse piovere, hai sempre intenzione di attaccare in discesa?” chiese Chapal.

Vedremo. Credo sempre fino a un certo punto alle strategie di Lorenzo, ma è lui che deve decidere.”

Ma lui non è di quelli come Landi che le cambiano spesso in gara.”

In questo Landi è sicuramente più flessibile. Posso dire in confidenza con te che è anche più bravo?”

Fa parte della sua cattiveria. La cattiveria può essere una componente agonistica buona nella pratica sportiva.”

Landi non ha intelligenza sufficiente per distinguere. Lui decide in base a premi e compensi. La sua bontà e la sua cattiveria sono sempre strettamente proporzionali all’entità dei premi.”

Del resto è il vostro mestiere. Il dilettante può permettersi di ragionare come dicevi che ragionavi tu nel confronto con Demetrio, quando mi hai detto che lui correva per vincere e tu per divertirti. Adesso correte tutti e due per vincere e non siete più compagni di squadra. Visto che ti sei calmato, mi permetti una domanda impertinente?”

Spara.”

E se dovesse mai succedere che voi due vi trovaste da soli sull’ultima salita?”

Impossibile.”

Invece è possibilissimo, visto il quadro dei concorrenti e la mancanza di altri scalatori, almeno sulla carta, forti come voi due. Assolutamente possibilissimo. E mi rifiuto di credere che tu non ti sia arrabbiato proprio perché sai che è cosa possibilissima.”

Hai detto bene: ‘almeno sulla carta’. Potrà piovere, sarà sicuramente freddo, il fondo stradale sarà a tratti bagnato o addirittura tutto bagnato. Ma lo sarà per tutti. Insomma, si creeranno delle condizioni molto particolari oggi, che metteranno a dura prova i direttori sportivi come Ferrucci poco flessibili e poco propensi a cambiare strategia a gara iniziata. Non credo che succederà.”

Ma se succedesse?”

Credo che ognuno onorerà la maglia che indossa. Siamo professionisti o no?” Chapal si accontentò di quella risposta banale e diplomatica e si limitò a un sorriso ironico. Aveva altre idee in proposito e ben altri erano gli scenari che si prefigurava. Ma preferì tacere. Cadde la prima goccia d’acqua, proprio quando Ferrucci iniziò a chiamare i corridori, che ritirarono dai meccanici le bici. Per ultimo arrivò Marco. Era l’unico che non aveva indossato l’antipioggia. L’unico che non aveva manicotti. E tutta la squadra urlò, come di consueto, quando arrivò insieme a Chapal e lo esortò a gran voce. Alexej e Roger, che avrebbero avuto un ruolo particolare quel giorno, lo abbracciarono con forza. Per ultimo Giovanni, nel consegnargli la bici, gli chiese: “Avevi già deciso prima di attaccare in discesa, quando mi hai chiesto di montare l’11 dietro. Dimmi la verità! Non mi freghi. Ti conosco da troppo tempo, Marco.”

Marco lo guardò fisso negli occhi. “Se ti dicessi di no, non mi crederesti.”

Marco, sta’ attento. Non fare stronzate! Oggi non scherza il meteo.”

Saprò gestirmi, come ho sempre fatto.”

No, oggi non è una giornata come tutte le altre, Marco. Ho paura che tu stia facendo un errore enorme. Pensa a correre e, se possibile, a vincere per te e per la squadra. Siamo venuti per vincere, è vero. Ma una corsa non è una vita. Ce ne saranno tante altre.”

Marco salì in sella e seguito dalla sua squadra aprì la passerella della cerimonia della firma, mentre lo speaker scandiva ad alta voce: “La prima squadra è la Alberti Costruzioni, capitano Marco Benini, Alexej Darumov, Roger Demaire, Pierluigi Emidi, Giammattia Mazzoni, Luigi Montalti, Viktor Stepanenko, Isaias Tekonda”. Marco non vide la Robocycling. Non volle guardare. Si posizionò sulla linea di partenza ed ebbe un sussulto solo quando lo speaker presentò la Robocycling: “Terzultima squadra iscritta è la Robocycling, capitano Demetrio Piras.” Non volle guardare. Non volle nemmeno pensare cosa stesse accadendo nell’animo di Demetrio. Cercò la concentrazione, consapevole di quelle parole che gli aveva appena detto Giovanni, che quella non era ‘una giornata come tutte le altre’. Non era facile trattenersi. La tentazione di voltarsi e di cercare Demetrio era forte. Ma quei silenzi, che con il passare degli anni si erano tramutati in paura, pesavano e con i silenzi e la paura era subentrata in Marco anche la colpa di non aver insistito nel cercare l’amico. Tanto avvolgente era il rapporto che si era creato tra loro due. Eppure, prima o poi i loro sguardi si sarebbero dovuti incrociare. La giornata sarebbe stata lunga. L’ammiraglia della Alberti Costruzioni, guidata da Lorenzo Ferrucci era la prima della lunga fila. Una seconda auto era nella parte terminale dei mezzi al seguito. Marco disse a tutta la squadra di controllare che il collegamento radio con l’ammiraglia funzionasse. Tutti gli diedero l’okay, tranne l’eritreo Tekonda, che poi risolse il problema. Il direttore di gara, prima di salire in auto si complimentò con Marco come vincitore della precedente edizione e gli disse: “Sarà dura oggi. In bocca al lupo! Attenti alla strada se piove, ragazzi. Non fate cazzate.” Per il momento piovigginava a tratti e la strada non era ancora bagnata. Il sindaco del paese volle dare, come da tradizione, la simbolica partenza sventolando la bandierina. L’inizio vero della gara, il km 0, sarebbe stato due chilometri fuori del paese, dopo una passerella in cui i corridori si sarebbero prestati per foto e video dei tifosi. L’organizzazione sapeva quanto le società sportive e soprattutto i loro sponsor tenessero a quei momenti di pubblicità. Oltretutto la località di arrivò non distava molto da quella di partenza e quindi tante di quelle persone che erano presenti alla partenza sarebbero state all’arrivo, sul terribile strappo finale di 400 m, o sull’ultima lunga e difficile salita, resa ancor più impegnativa dal fatto di essere la quarta di una giornata, che prima ne prevedeva una terza non molto diversa come dati e come altimetrie. Al km 0 la strategia di Ferrucci prevedeva di mescolarsi nella ‘pancia’ del gruppo e di non farsi vedere troppo attivi. Così fece anche la Robocycling. Partì subito una fuga in cerca di gloria. Erano quattordici corridori. La Robocycling ne aveva piazzato uno. La Alberti Costruzioni nessuno. Erano stati sorpresi. Primo errore. Prima falla nei piani di Ferrucci. Primo segnale di quanto attenta era stata la preparazione di Mattia Landi. Via radio Marco chiese come comportarsi con la fuga. “Non si cambia quanto deciso,” fu la categorica risposta di Ferrucci. Ora tutti i ruoli erano cambiati. A tavola, in pullman, in allenamento Marco, come capitano, poteva prendersi anche delle libertà con il suo direttore sportivo, ma in gara sapeva che era un piccolo dittatore, che non amava essere contraddetto. Eppure era chiaro che qualcosa non stava andando come previsto, quando dal gruppo partì un secondo gruppetto alla caccia dei fuggitivi. Di questo gruppetto facevano parte due corridori della Robocycling. Landi stava pianificando tutto chilometro per chilometro. Ferrucci restava alla finestra. Demetrio non si faceva vedere, rimanendo sempre attorniato da quattro compagni rimasti con lui. Marco, cui era stato detto di stare in fondo al gruppo con tutti i suoi, lo aveva intravisto da dietro più volte. Parlava spesso alla radio. Landi era molto attivo, evidentemente. Marco si chiedeva il perché dell’attendismo di Ferrucci, ma sapeva che non amava essere chiamato per discutere strategie di gara. Nella prima salita la fuga aveva raggiunto un vantaggio di quasi sei minuti. Il secondo gruppetto di otto non aveva trovato accordo e piano piano era stato ripreso dal gruppo, grazie anche anche alla mancanza di collaborazione dei due della Robocycling. Nella seconda salita non successe nulla e la situazione rimase stazionaria con il gruppo guidato dalla formazione tedesca della BTW-Plastik, che manteneva sempre un ritmo costante, evidentemente con qualche intenzione di scombinare i pronostici, tutti per la coppia Benini-Piras. Aveva buoni scalatori anche la BTW-Plastik, soprattutto il colombiano Anton Felipe Gutierrez, capitano in quell’occasione, che aveva dimostrato di essere in una buona condizione di forma in quel finale di stagione. E da buoni professionisti erano venuti per giocare le loro carte. Per le altre squadre le possibilità erano essenzialmente legate a piazzamenti e buone prestazioni in un tracciato così selettivo. Ma le incognite erano sempre tante e tutti erano lì pronti ad approfittare di qualsiasi situazione, che si rivelasse favorevole.

La gara iniziò all’attacco della terza salita, come Ferrucci aveva previsto. Quelli della BTW-Plastik aumentarono il ritmo e fecero tante vittime. Alla fine della terza salita degli otto della squadra tedesca ne erano rimasti ancora sei. Della Robocycling con Demetrio ne erano rimasti cinque, contro ogni previsione, mentre Marco aveva solo Alexej Darumov; nemmeno Roger Demaire aveva retto a quel ritmo forsennato che avevano fatto i BTW. Marco chiedeva notizie di Roger. Aveva assolutamente bisogno della forza più giovane di Roger sull’ultima salita. Ferrucci diceva di aspettare. Li avrebbe ripresi in discesa. Ma la pioggia, seppure ancora debole, aveva reso la strada bagnata ed era difficile recuperare in quelle condizioni. Landi aveva previsto tutto. Forse la BTW era addirittura stata contattata. Forse addirittura qualcuno aveva fatto delle promesse. Landi ne era capace. Per lui il fine giustifica sempre il mezzo e nessuno lo aveva mai pizzicato con le mani nella marmellata. Comunque fosse, i piani di Ferrucci erano completamente saltati. Marco era nervoso. Riceveva pressanti incoraggiamenti. “Fanculo” gli scappò ad alta voce, ma a microfono spento, pensando al fatto che Demetrio aveva ancora con sé ben quattro uomini di quella squadra che era stata definita scarsa, mentre lui aveva solo il trentaquattrenne Darumov, che era già notevolmente appesantito nella pedalata, a causa del ritmo che i BTW avevano imposto. Nella discesa, come previsto, i Robocycling presero in mano la situazione. Ai fuggitivi, rimasti solo in quattro e molto provati, all’attacco dell’ultima salita restavano poco meno di due minuti di vantaggio. Non avevano speranza alcuna. La Robocycling impose subito il ritmo, perdendo un uomo che era arrivato stremato alla fine della discesa precedente. Demetrio poteva contare ancora su tre compagni ed erano carichi e agguerriti. Landi non era venuto per fare una passeggiata. Ormai era chiaro. E la sua strategia per il momento si stava rivelando perfetta in ogni particolare. Marco, su disposizione di Ferrucci, restava in coda al gruppo dei migliori con Alexej in attesa del promesso ricongiungimento di Roger, che non sarebbe mai avvenuto, perché il suo gruppo era dato da radio corsa a ben quattro minuti dal loro e con un ritmo di pedalata decisamente inferiore. Avrebbero perso ulteriormente. Un secondo “Fanculo” partì ad alta voce, quando Marco ebbe la notizia del distacco di Roger. Questa volta il suo nervosismo non passò inosservato. Accanto aveva Demetrio.

Fu di un attimo l’incrocio di sguardi. Non ci fu espressione nel volto, ma gli occhi era come se avessero parlato senza parole. Quello sguardo di Demetrio fu come una sciabolata per Marco, già nervoso e su cui, praticamente senza più squadra, gravava ormai una responsabilità al di sopra delle sue possibilità. In quello sguardo Marco avvertì una sorta di ammonimento. ‘Attento che adesso attacco. Landi mi ha mandato qua non certo a salutarti, ma solo a punirti.’ Era sicuramente così. Il gruppetto era ridotto a non più di una ventina di atleti e i quattro fuggitivi con quel ritmo imposto dagli uomini della Robocycling furono presto ripresi. Alexej fece segno che era al limite e si staccò. Ferrucci via radio continuava a dire che tutto andava bene. ‘Fanculo’ per la terza volta disse Marco, rimasto solo, senza uomini, a microfono spento. La Alberti Costruzioni era già sconfitta come squadra. Ora tutto era sulle sue spalle, sulle sue gambe appesantite dall’ansia e dal nervoso, sulla sua testa ingombra di un passato che pesava come un macigno. A cinque chilometri dallo scollinamento dell’ultima salita, nel tratto con le pendenze pià cattive, quando l’ultimo uomo della Robocycling finì di fare il suo lavoro e diede il segnale convenuto, Demetrio parlò alla radio e poi con quel suo micidiale scatto secco che Marco bene conosceva partì, staccando tutti. “Vallo a prendere, cazzo!”, urlò Ferrucci via radio. Marco la spense definitivamente. Si portò davanti a ciò che rimaneva del gruppetto dei migliori. La salita era veramente di quelle cattive, ma Gutierrez resisteva bene con due uomini della sua BTW-Plastik. Quei cinque chilometri furono un’odissea di dolore. Marco non fece scatti. Non era il suo stile. Andò su di ritmo regolare. Gutierrez perse i due uomini, gli altri corridori uno alla volta persero contatto e restarono in due all’inseguimento di Demetrio. Radio corsa lo dava con un minuto di vantaggio a quattro chilometri dalla fine della salita. Marco chiese l’ammiraglia. La direzione corsa autorizzò l’intervento e Ferrucci si accostò a Marco, ma fu dal finestrino posteriore che Giovanni disse: “Marco, non fare idiozie. Le cose non sono andate come previsto. Non insistere. Vai del tuo passo.” Era cambiato il direttore sportivo? Ferrucci taceva, ma diede una borraccia a Marco. Proprio in quel momento arrivò la pioggia vera, quella battente, che avrebbe reso una follia l’attacco in discesa, che Marco aveva pianificato. “Fanculo!”, questa volta sentirono tutti molto bene e la tensione nervosa di Marco era palese. Avrebbe voluto avere Chapal, ma era sulla seconda auto in fondo. Avrebbe voluto raccontargli tante di quelle cose che in quei quattro chilometri rivisse.

L’ammiraglia della Alberti Costruzioni si avvicinò di nuovo a Marco. Lorenzo Ferrucci continuava inutilmente a incitare e gli diede da mangiare; gli gridava che si liberasse di Gutierrez e andasse a prendere Demetrio. Dietro di lui Giovanni ora taceva. Aveva già detto quello che doveva dire. Marco non ascoltava più. Andava su di regolarità. La sua mente era precipitata indietro. Vedeva due bambini che correvano felici, con la stessa divisa della società che li aveva visti crescere e farsi uomini. Vedeva le serate insieme con gli amici. Vedeva le ragazze che lui, Marco, puntava sempre spavaldo, mentre il più timido Demetrio se ne restava sempre in disparte. Vedeva la gioia di quando il babbo li veniva a prendere insieme e li portava a casa sua tutti e due in attesa che il babbo di Demetrio arrivasse a prenderlo. Vedeva le cene con i tre genitori e quelle interminabili discussioni di politica, che partivano sempre dalla tensione appassionata dell’opposta visione di fondo e arrivavano sempre a una risolutiva partita a carte e a un abbraccio nel momento del saluto sulla porta di casa. Non riusciva a pensare di avere un avversario là davanti da prendere. Aveva un amico che aveva abbandonato. Aveva una grande persona a cui per anni aveva voluto un bene dell’anima. Aveva un fratello che un terribile senso di colpa dopo anni di colpevole silenzio avvolgevano in un alone di colpevole paura. Con quell’ansia non poteva prenderlo. Il distacco, infatti, stava aumentando. Tre chilometri allo scollinamento: un minuto e mezzo. Gutierrez era un’inespressiva maschera di ghiaccio. Ogni tanto gli si affiancava, per far sentire la sua presenza, ma, non appena Marco allungava, perdeva subito qualche metro: segno che era forte, ma non aveva la gamba per attaccare, o pretattica? L’ammiraglia della BTW-Plastik si portava al suo fianco e lo nutriva con insistenza, incoraggiandolo a provare l’attacco. Ma Marco era convinto che non ne avesse più e che presto si sarebbe staccato anche lui. Eppure restava lì. E quella presenza gelida dava fastidio, aumentava il sentimento di ansia e rendeva meno fluida la pedalata, quando le pendenze diventavano di quelle serie e avrebbero richiesto più concentrazione. Dentro l’ammiraglia si viveva un’altra storia, si faceva il bilancio di una stagione partita con pochi successi mancati sempre per un soffio e con quell’ultima possibilità di raddrizzare una situazione ben diversa da quella prevista all’inizio. La decisione di puntare su Roger Demaire in alcune gare all’estero era stata un fallimento; avrebbero dovuto puntare di più su Marco, costretto spesso a far da gregario in gare in cui avrebbe potuto essere protagonista. Poi sono arrivate le grandi corse a tappe. Marco avrebbe potuto dare grandi soddisfazioni, ma decise di partecipare solo a quella in cui Demetrio sicuramente non avrebbe mai partecipato. Aveva ottenuto delle vittorie di tappa, era stato il primo della generale per tanti giorni, ma nel finale, non adatto a quel genere di gara, non aveva retto alla maggiore resistenza degli avversari e aveva perso in un giorno ben dieci posizioni. Ferrucci aveva puntato tutto su quella gara di fine stagione, ma nulla era andato secondo le previsioni. L’iscrizione a sorpresa di Demetrio, reduce da una serie di successi importanti in quella stagione e assolutamente imbattibile in salita, aveva scombinato tutti i piani della squadra. Lo sponsor era molto alterato. Il presidente della società sportiva ancora di più, perché la mancanza di introiti e di premi rischiava di provocare la non conferma dello sponsor. Tutti erano tesi, perché sapevano di essere all’ultima possibilità. Tutti avevano una pressione che provocava ansia, chi per questioni finanziarie e societarie, chi per questioni sportive, chi per questioni personali. Marco era là davanti, il primo degli inseguitori, ed era l’unico su cui tutte queste pressioni in quel momento si accumulavano e pesavano davvero tantissimo.

Quante volte avrebbe voluto chiamare Demetrio! Lo aveva ringraziato dopo quell’episodio del Giro dell’Austria, che era costato a Marco l’allontanamento dalla Robocycling. Non si era comportato come Landi. Non meritava di essere allontanato così brutalmente da una vita in cui fino a quel momento non era stato solo un amico, ma spesso proprio il protagonista. Marco pensava a tante cose, tranne che a quella maledetta e cattiva salita. Poi a un tratto apparve Francesca, la ragazza amata, l’unica ragazza che avesse avuto un ruolo non occasionale nella vita di Marco, che aveva amato di vera passione. Erano loro tre seduti al tavolo di un ristorante. Erano all’aperto in campagna. Francesca e Demetrio si erano da poco sposati e Francesca pronunciò una frase che rimase impressa in Marco: “La vostra vita è fatta di traguardi e conquiste di premi. Mi sento per voi come il premio cui ambiva uno, ma che, per uno di quei beffardi imprevisti della vita, ha vinto l’altro. Vi auguro di conservare questa bellissima amicizia che vi lega e di non essere mai avversari nella vita.” Marco e Demetrio si erano guardati negli occhi dopo quelle parole inattese. E tutti e due si chiesero che significato potessero avere e a cosa pensasse veramente Francesca in quel momento e con quel riferimento al premio. Adesso Marco aveva tutto chiaro. Erano avversari. Ma a fine stagione, in tempo di bilanci, di riscatti e di rivalse, non si è più solo avversari: si rischia di essere nemici. Da una parte una squadra che ha vinto tutto, che arriva con il vento in poppa dei pronostici e che vuole giocare l’arrogante ruolo del pigliatutto con lo stratagemma dell’iscrizione all’ultimo momento dell’uomo più forte in salita, dall’altra una squadra che è in chiara crisi di risultati, dopo aver vissuto tre stagioni rosee e gratificanti. Da una parte Demetrio con la mentalità del vincente e sul terreno più adatto alle sue caratteristiche; dall’altra Marco con quella del costretto a vincere e su un terreno non adatto e non propriamente ideale per le sue caratteristiche.

Due chilometri. Il distacco era di 1,35. In un chilometro aveva perso solo cinque secondi: o anche lui inizia a sentire la fatica, o fa pretattica, o rende bene la regolarità che mi sono imposto, pensava Marco. Proprio in quel momento Gutierrez tentò lo scatto che Marco mai avrebbe ritenuto possibile. Non trovò la forza di reagire, la bici rimase come inchiodata all’asfalto dopo quella fucilata del colombiano di tre pedalate secche. Aveva sentito lo scatto del cambio nella bici di Gutierrez dietro la sua: due pignoni in su o in giù? Montava un classicissimo 53-39 davanti e, approfittando di un tratto piano dopo due strappi durissimi, era sceso di due pignoni dietro e aveva montato il deragliatore sul 53 davanti. Non importava dove avesse la catena dietro: era la forza che riusciva a imprimere su quel 53 davanti che scoraggiava. In tre pedalate gli aveva dato quasi 50 m. “Vai di regolarità e riprendilo con calma. Regolarità, Marco. Regolarità,” era Giovanni questa volta che parlava dal finestrino dell’ammiraglia tornata per l’ennesima volta al suo fianco. Ferrucci gli diede un gel da mangiare. Marco ne mangiò nervosamente solo una metà. Il resto lo gettò con stizza sul cofano dell’auto. Non andava. Le spalle andavano a destra e a sinistra. Le pedalata era scomposta. Marco di solito era sempre bellissimo da vedere in sella; il suo stile era sempre impeccabile nella posizione, anche sotto sforzo. Così Ferrucci non lo aveva mai visto. Così avrebbe perso solo altri minuti. L’attacco di Gutierrez, la sfinge che sembrava in crisi e che faceva invece solo pretattica, era stato un colpo troppo duro. “Vai, vai, Marco.” Era sempre la voce di Giovanni.

Marco pensava a Francesca e alle sue parole. Il premio. Marco sapeva che quella vita era tutta un premio e finalizzata al premio. Marco aveva Demetrio davanti a sé sulla strada, dentro di sé nell’anima, attorno a sé nella vita. Demetrio era ovunque in quel momento e non era un avversario. No. Non poteva mai essere un avversario. Questo era il senso delle parole di Francesca. Ma bisognava dirglielo. Marco sentiva di doverglielo assolutamente dire. La pioggia continuava, meno battente, ma sempre incessante. Ecco il significato di quello sguardo di Demetrio, quando, prima di attaccare, gli si era messo a fianco. Non lo aveva fatto per tutta la gara. Si erano tenuti rigorosamente l’uno distante dall’altro dalla partenza e per tutta la durata delle prime salite. Ultimo chilometro: le pendenze più dure erano alle spalle; da lì allo scollinamento non si superava il 5%. Marco iniziò a spingere. Ritrovò in fondo al barile una scorta di forza e riprese subito Gutierrez. Arrivarono in vista di quello che in una corsa a tappe sarebbe stato un gran premio della montagna e lì era solo un traguardo a premi. Gutierrez volle la volata per il secondo posto. Marco gliela concesse. Ma appena iniziato lo scollinamento, montò l’11 dietro e avvertì tutta la forza di quella parte buona della cattiveria e incurante della pioggia, incurante del pericolo, incurante della strada bagnata partì a tutta, sorprendendo Gutierrez, che perse subito terreno e, innervosito, da quell’inatteso attacco in discesa, sbagliava le traiettorie e perdeva secondi preziosi a ogni curva. Marco andava fortissimo. Aveva il perfetto controllo del mezzo. Nell’ammiraglia che lo seguiva erano preoccupati. Nessuno parlava. Ferrucci era bianco in viso. Giovanni cercava di tranquillizzarlo dicendogli che Marco sapeva quello che faceva. Ma la velocità con cui aveva preso quella discesa era da folli. Marco era folle. Folle, completamente folle. Doveva chiarire anni di silenzio, doveva riprendere Demetrio. Doveva dare un significato alla parola premio che solo loro due avrebbero capito. Demetrio era il premio della sua vita. Da sempre. Non lo avrebbe capito Ferrucci, non lo avrebbe capito Giovanni, non lo avrebbe capito Landi che era nell’auto che seguiva Demetrio e che separava i due in quel momento. La moto del servizio radio corsa tramite lavagna comunicò a Marco a metà della lunga discesa di ben 13 km che il distacco era sceso a 1,05; aveva guadagnato trenta secondi. Demetrio non amava le discese. Era sul bagnato. Sapeva che aveva un discreto margine per vincere e non rischiava. Marco giocava solo di testa e di tattica. Lui, là davanti, sa che con la strada bagnata nessuno attaccherebbe in discesa, perciò la mia unica possibilità e fare quello che lui non pensa e non prevede. Demetrio scenderà con la bici sicuramente frenata, per gestire il vantaggio, pensava Marco che rischiava il tutto per tutto. Alla fine della discesa Marco aveva guadagnato addirittura altri 40 secondi: 25 secondi di vantaggio vennero comunicati dalle moto di servizio ai due. Gutierrez aveva sbagliato due curve ed era caduto due volte. Era fuori dai giochi ed era stato ripreso dal resto del gruppetto che aveva attaccato l’ultima salita. Marco era nel tratto di fondovalle, quasi pianeggiante, un falsopiano in cui aveva trovato il suo terreno migliore. Lì era lui quello imbattibile. Aveva fatto montare un rapporto durissimo. Demetrio non era capace di spingere con quella potenza e non aveva l’11 dietro, con cui si sarebbe potuto difendere da quell’attacco. Marco non pensava a niente. Pensava solo al premio che lo aspettava. E aveva trovato una forza incredibile. Non pioveva più. 53/11 e spingere, spingere, spingere! Ogni tanto le nubi addirittura si aprivano. 15 secondi venne scritto con il gesso sulla lavagna. Se non fosse per le curve lo avrebbe visto. E infatti, appena la strada ebbe un rettilineo vide il rosso fiammante dell’ammiraglia della Robocycling, che era stata fatta fermare. Il finestrino era aperto. Landi mise in moto prima che arrivasse Marco, contro le norme del regolamento. Marco si avvicinò all’auto che procedeva lentamente, si abbassò il finestrino e Marco sentì la gracchiante voce del suo ex direttivo sportivo: “Chi non muore si rivede.” “Noto con immenso piacere che sei sempre in lista per avere il guinness dei migliori complimenti, ma non riesci a vincere neanche quello,” rispose sarcasticamente Marco, proseguendo il suo inseguimento e stando al gioco degli sfottò. Demetrio era ormai chiaramente visibile. E Marco lo raggiunse poco prima dello strappo finale, quasi all’altezza dello striscione dell’ultimo chilometro. Rimase dietro per un po’, per riprendere fiato, dopo lo sforzo compiuto per riprenderlo. Anche Demetrio era molto provato. Landi gli aveva chiesto il massimo e a fine stagione anche lui evidentemente aveva dato quello che poteva. Ma anche lui aveva un’anima e sicuramente anche in quell’anima durante la gara qualcosa era successo. Dietro di loro l’auto del direttore di gara. E dietro ancora l’ammiraglia rossa della Robocycling guidata da Landi e quella gialla e blu della Alberti Costruzioni guidata da Ferrucci. L’ultimo tratto del falsopiano prima dello strappo finale fu percorso al rallentatore. Sembrava una gara di velocità su pista. Demetrio rallentava, Marco gli si affiancava, ma non lo superava. Così per quattro o cinque volte. Quando Marco si trovava accanto a Demetrio, cercava il suo sguardo, ma non lo trovava. Demetrio era molto diverso da quello che conosceva da una vita. I suoi occhi non erano dritti puntati sulla strada che si apriva davanti, ma erano insolitamente bassi. Il suo colpo di pedale non era quello veloce e scattante, che Marco gli invidiava da una vita. Marco sapeva che, se avesse attaccato in quel momento, lo avrebbe staccato, per la prima volta nella vita, e sarebbe stato contro ogni pronostico per la gara, per la cronaca, per la stampa, per la tv, per i loro direttori sportivi, per le loro squadre e i loro compagni che erano rimasti staccati là dietro, ma sarebbe stato contro ogni legge di natura per la vita, per la loro vita. Cosa contava di più? Demetrio non guardava. Non aveva coraggio. Marco lo capiva. Arrivarono allo strappo. Marco dovette tenere la bici quasi frenata, per stare dietro a Demetrio le cui gambe non giravano improvvisamente più. Furono 400m eterni. Non finiva mai quella tortura dell’anima. Demetrio scosse la testa. Stava tentando di dire qualcosa. Ma Marco aveva pianificato tutto, fino all’ultimo dettaglio. Fanculo a tutti: aveva fatto lui la strategia. Aveva lui tutti i piani in testa. Tutto stava andando esattamente come era previsto che andasse. Duecento metri. Centocinquanta metri. Demetrio era quasi piantato. Testa bassa, gambe che tremavano. E allora Marco, in vista del traguardo, incurante del pubblico assiepato, attuò l’ultimo stralcio del suo piano e in modo che solo l’amico sentisse, affiancandoglisi, disse: “Vai, Demetrio, vai!”. Demetrio aveva già capito tutto da quando era stato ripreso. Tra loro due non c’era mai stato bisogno di parole, quando Demetrio aveva chiaramente inteso che Marco aveva più gamba di lui su quello strappo finale e che l’averlo raggiunto dopo un attacco in discesa, e su quella discesa!, gli aveva dato una carica che lui aveva ormai smarrito nella fatica. Sapeva che Marco ne aveva di più e aveva più voglia di vincere e che la sua squadra aveva più bisogno di vincere. Marco per parte sua non aveva un pubblico intorno, non aveva le telecamere, non aveva le ammiraglie: aveva nella testa solo tanti anni di vita insieme, la vita sua e la vita di Demetrio, la famiglia sua e quella di Demetrio, i genitori suoi e il babbo di Demetrio; aveva nella testa le parole di Francesca, soprattutto. Questo Demetrio non lo sapeva. Forse un giorno glielo avrebbe detto. Demetrio era incerto. Marco era quasi fermo sui pedali. Demetrio non osava. E a quel punto Marco gli tornò vicino e disse nuovamente: “Vai!” Marco lo vide ripartire e lo seguì a pochi metri di distanza, finché non tagliò il traguardo. Nessuno dei due alzò le mani al cielo. Marco era frastornato. Non pensava. Non guardava. Non ascoltava nessuno. Vide due bambini che giocavano insieme, che correvano in allenamento insieme, che andavano a scuola insieme e che iniziarono a fare quello sport insieme. Non doveva essere quello a dividerli. Mai. Marco non pensava a nulla in quella calca di fotografi e giornalisti che si assiepava attorno a tutti, che inseguiva anche lui, il secondo arrrivato. Giovanni era stato scelto per essere il primo della squadra a raggiungerlo dopo il traguardo: lo abbracciò, gli mise un asciugamani sulle spalle ancora fradice, ma non disse una parola. Marco intravvide solo una persona che si faceva strada tra la folla che festeggiava il vincitore Demetrio Piras. Era Landi. Si fermò. Giovanni si allontanò stupito. Landi non si occupò di Demetrio, cercava Marco e, quando lo poté riconoscere nella folla, gli corse incontro e gli disse: “Ciao, Marco. Oggi, scusami, non è facile trovare parole … solo oggi credo di aver capito capito per la prima volta quale grande campione ho perso”. Marco gli strinse la mano. Quello ero il suo premio.

Mentre Marco si lasciava portare fuori dalla calca da Giovanni, Demetrio si fece strada con la bici a mano in mezzo alle tante persone e andò a cercarlo, passando in mezzo alle maglie della Alberti Costruzioni. Rimasero sotto un gazebo, montato lontano dall’impalcatura della premiazione, uno di fronte all’altro, lontano da occhi curiosi. Poi Demetrio ruppe il silenzio: “Avremo tante cose da dirci dopo la premiazione. Ma non me ne andrò di qui senza che tu mi abbia detto perché l’hai fatto.” Marco gli mise tutte e due le mani sulle spalle, dicendogli: “Tu lo dovresti sapere e non me lo dovresti chiedere. Ci sono dei premi nella vita. Ce ne sono di tanti tipi. Si può avere un premio per aver vinto una gara. Si può avere un premio per aver ritrovato un amico. Non credo di essere meno professionista per aver fatto qualcosa che tra di noi, nella nostra amicizia, è stato da sempre nell’ordine naturale delle cose.” In quel momento arrivò Ferrucci. Era furibondo. Quando vide Demetrio e Marco abbracciati, si fermò sulla porta, scuotendo la testa. Demetrio allora lo chiamò e gli disse: “Lorenzo, voglio che Marco salga sul podio con me.” Ferrucci era stordito da quella giornata incredibile e rispose: “Ne parlo con il direttore di gara e con gli sponsor.”

Non dirmi che hai attaccato in discesa!” disse Demetrio.

Non avevo scelta. In salita ti ho mai battuto?”

Hai pensato a Zurigo?”

Neanche una volta.”

Bugiardo!”

Ti assicuro, Met. Non ho mai pensato a Zurigo.”

Non capisco allora. Non capirò mai.”

Francesca te lo spiegherà. A lei ho pensato. Solo a lei.”

Adesso capisco ancora meno.”

Capirai. Ne sono sicuro.”

© 2018. Stefano Tramonti

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