Aveva scelto proprio le più belle. E lo aveva fatto con singolare puntiglio. Raramente un uomo, una volta entrato nel mio negozio di fiori per scegliere delle rose da regalare, le aveva selezionate così attentamente, così meticolosamente, con un’acribia che io fraintesi e immaginai addirittura che fosse stata studiata quasi per mettermi alla prova. Alcune donne del paese avevano usato una tale diligenza per delle confezioni, mai per i fiori. Ma uomini, mai. E, a dir la verità, neanche le donne erano mai state così attente ai fiori. Lui mi aveva soltanto chiesto: “Mi raccomando: che siano una gialla, una bianca e una rossa!” Poi non aveva più detto niente fino al momento dell’uscita, quando dalla porta mi salutò. Nel momento della meticolosa scelta guardò il gambo, i petali, mise le rose una accanto all’altra, le osservò da ogni lato, ne scartava una, ne sceglieva un’altra, la scartava di nuovo, le guardava ora con perplessità, ora con insicura ammirazione, ora con maggiore convinzione, senza mai farmi capire se alla fine fosse stato veramente convinto della decisione definitiva. E poi la confezione! Difficilmente mi è capitato un cliente così esigente nella richiesta della confezione un dono costituito da un mazzo di rose. Ogni dettaglio voleva che fosse curato con la stessa meticolosa diligenza con cui le rose erano state dapprima selezionate. Non dissi nulla e feci tutto quello che mi chiedeva. Uscì comunque dal negozio visibilmente soddisfatto, lasciandomi un’emozione poche volte provata. Era evidente che il regalo era di quelli importanti. Sembra quasi paradossale che lo abbia dovuto confezionare proprio io; ne capirete la ragione proseguendo. Quanto a lui fu l’ultima volta che lo vidi, credo. Fatemi pensare. No, non l’ultima. La penultima. Era sicuramente giugno, il mese in cui le rose danno il meglio di sé.
C’è anche un contesto in cui la vicenda si svolge: un paese, un tempo più isolato, oggi inglobato nel suburbio della vicina città. Uno dei tanti piccoli centri dove non dovrebbero esistere segreti; e invece pullulano di dicerie. Il mio paese è piccolo, infatti. Le notizie qui girano velocemente. Purtroppo girano spesso male. Qui lo sappiamo tutti che girano male, ma nessuno ha mai fatto nulla perché questo non accadesse. Anzi. Sembra che ci sia una specie di gioia perversa nell’aggiungere chi questo chi quel particolare seducente, intrigante, più o meno misterioso, il più delle volte malizioso, talvolta anche proprio cattivo. Insomma, uno di quei tanti piccoli centri in cui entri da una strada facendo uno starnuto, percorri il paese non sapendo che quello starnuto è già tema di una narrazione con innumerevoli varianti, esci dalla strada opposta e già ti restano pochi giorni da vivere. Lui poi! L’uomo delle rose? Dava adito alle voci con una facilità quasi disarmante, tanto che spesso mi sono chiesta se non lo facesse quasi per divertimento, se non fosse per lui, che io sempre ho giudicato di levatura tanto superiore alla media da non meritare questo paese, una specie di gioco per studiare i nostri comportamenti. Ero convinta allora – ma ora so che mi sbagliavo – che lui si sentisse addirittura in certo senso superiore a noi. Come si faceva a non far girare voci su di lui? Eravamo proprio preda di una specie di malessere collettivo quando le sentivamo, ma nessuno di noi ha mai fatto nulla per fermare quella che in casa mia, e non solo, chiamavamo la potente Setta delle Trame oscure; nessuno di noi si è mai chiesto quale fosse il limite oltre il quale il troppo stroppiava; nessuno di noi lo hai mai veramente difeso, forse anche perché nessuno lo ha veramente attaccato, perché nessuno di quelli che hanno fatto girare le allusioni più maligne, gli adepti, appunto, della Setta delle Trame oscure, ha mai osato affrontarlo a tu per tu. Dimostrazione del fatto che, alla resa dei conti, lui era veramente superiore a noi, benché ora possa dire che tale non si era mai sentito.
E il giorno delle rose? Fu sicuramente quello che di voci ne generò di più, anche se furono una specie di canto del cigno, come comprenderete se riuscirete a seguirmi fino alla fine. La ragione non è facile da spiegare, perché per essere intesa richiede che si abbiano gli strumenti per comprendere che in un mondo così cambiato – globalizzato, dicono quelli che vogliono fare bella figura – non esiste soltanto la mentalità della città e quella del piccolo centro, ma esiste anche tutto un campionario di sfumature intermedie che sfuggono a ogni tentativo di classificazione. Ebbene, lui era proprio una di queste sfumature. Per tutti noi, senza ombra di dubbio, la più difficile da incasellare. E proprio per questo ogni nuova voce che circolava aveva l’effetto di una bomba a deframmentazione, esplodendo in una miriade di piccole voci, di maliziosi detti e non detti, che più facevano male a chi li sentiva, più favorivano il perverso malvezzo di trasformare un piccolo pisello secco in un grande cocomero. E la Setta delle Trame oscure, indefessa, agiva sempre con professionale alacrità, colpiva con chirurgica precisione, tacitava tutto con misteriosa protervia.
Nessuno ha mai capito se l’uomo delle rose si curasse o no di quelle voci. Era impossibile che non fossero mai pervenute a lui. Eppure non ha mai dato adito a nessun sospetto su questo. La sua vita procedeva, per quel che appariva a noi suoi vicini, tutto sommato, tranquilla. Se solo al bar avesse un giorno fatto una battuta ironica su se stesso, forse avrebbe tacitato in un attimo le voci e sgonfiato quel pallone, tutto pieno soltanto d’aria, che veniva alimentato dalla Setta delle Trame oscure. Al bar raramente si vedeva. Il paese ha quattro centri di aggregazione, tutti con il loro bar, tutti politicamente connotati e marchiati, secondo un’antica e consolidata tradizione che pochi di noi ormai comprendono, ma nessuno osa interrompere: il bar dei repubblicani con relativo circolo, al quale mi sono ritrovata iscritta, perché lo erano i miei genitori; quello dei comunisti con relativo circolo, al quale si è ritrovato iscritto il mio ex marito, perché lo erano i suoi genitori; la chiesa con relativo gruppo parrocchiale, che ha frequentato il mio ex compagno, incurante delle ire del parroco per la sua convivenza more uxorio con me; e il centro sportivo con relativo circolo, di cui sono soci i miei due figli, che praticano calcio. L’uomo delle rose era l’unico che si vedeva indifferentemente dappertutto, raramente a dire il vero; ma, quando si vedeva, appariva in conversazione con tutti, senza quelle settarie distinzioni che qui si fanno abitualmente da decenni. Chi frequentava il bar dei repubblicani ed era iscritto al circolo, non poteva frequentare né quello della chiesa, né quello dei comunisti. La stessa cosa valeva per gli altri. Un discorso a parte merita il centro sportivo. Lì veniva operata una specie di selezione della parte giovane del paese: era un punto di aggregazione decisamente più ‘democratico’, anche se affiliato al circolo dei repubblicani, forse perché qualche centesimo si riusciva così a spillare dalla città; ne facevano parte il campo da calcio con la squadra di dilettanti che aveva la sua struttura sociale, l’associazione ciclistica con la sua struttura sociale, i due campi da tennis con un maestro e un piccolo circolo. Quanto poi alle affiliazioni e ai marchi, ogni tanto, quelli di noi che lavorano in città, quasi tutti a dire il vero, ci ricordano che i comunisti e i repubblicani non esistono più e che ci sono altri partiti nella vita politica nazionale, che la storia è andata un pochino avanti, che ci sono stati dei cambiamenti nella politica. Lo sappiamo. Il giornale, magari solo quello, arriva anche da noi e al bar qualcuno lo legge. La televisione si guarda e sui social ci siamo quasi tutti dai quaranta/quarantacinque in giù. Ma alla fine ci riveliamo tutti tanto conservatori e tradizionalisti che quei due bar con il loro marchio vintage qui da noi sono ancora chiamati così: il bar del comunisti e il bar dei repubblicani. E credo che lo saranno almeno fino al prossimo cambio di generazione. Ma torniamo all’uomo delle rose. Come si rapportava a questa socialità sicuramente diversa da quella che vedeva e in parte viveva in città? A modo suo. Lui giocava a tennis e usciva con i cicloamatori. Non sembrava che il calcio lo interessasse più di tanto. Ma se gli andava di bere un caffé, non faceva distinzione tra il bar del centro sportivo, quello della parrocchia, quello dei repubblicani o quello dei comunisti. Non poteva non sapere che, dietro quelle etichette e quella facciata, c’era una trasversalità perversa di interessi circolari, di favori reciproci, di relazioni tra famiglie, di debiti morali e non; non poteva nemmeno non sapere che uno poteva sempre aver bisogno dell’altro, a prescindere dalla tessera del circolo che pagava ogni anno, perché quella tessera era quella che aveva pagato suo babbo e quella che aveva pagato suo nonno. Anche la Setta delle Trame oscure viveva di questa trasversalità ed era come se ciò che sottovoce veniva detto ad un tavolo del circolo dei repubblicani, nel momento stesso in cui veniva sentito, fosse già noto in quello dei comunisti. Il mio ex compagno scherzando con una simpatica iperbole mi diceva che Mossad, Kgb e Cia mandavano qui i loro agenti a svolgere i corsi di aggiornamento.
Abitava in una piccola villetta a schiera, nello stesso complesso in cui vivo anch’io con la mia famiglia. Quanto alla sua origine, chi diceva fosse arrivato dalla Lombardia, chi dal Veneto; anche su quello le voci si moltiplicarono fino al punto che presto non mancò chi sostenesse, ovviamente sempre prove alla mano, che venisse addirittura dalla Sicilia. Perché? Si chiamava Vito. Le famose schiaccianti prove alle mano. Il cognome però metteva davvero agitazione, dubbio, scompiglio: Derossi. Hanno cercato su internet, su Facebook, ma ne hanno trovati talmente tanti e in talmente tanti luoghi diversi e lontani tra di loro, che il cognome, se non mise propriamente in crisi la ricerca anagrafica, contribuì nondimeno ad alimentare il mistero. Pur tra tanti indigeni, non era certamente l’unico allogeno. C’era chi veniva dal Friuli, chi dalla Campania, chi dalla Sardegna, chi dall’Africa, chi dai Balcani. Ma questi allogeni lavoravano nelle aziende degli indigeni e, seppur a modo loro, respiravano un’aria diversa. Vito Derossi, quell’aria, sembrava quasi che non la respirasse.
Ogni mattina si alzava e andava in città a lavorare. Era insegnante di musica, con una laurea in lettere. E anche questo per il piccolo paese, abitato in gran parte da agricoltori, artigiani e operai, era un caso. Non era certamente l’unico laureato che vivesse da noi, ma in lettere e di sesso maschile c’era solo lui. Abbiamo avuto, tra i numerosi allogeni che si sono inseriti tra noi indigeni, anche una maestra che veniva dalla Puglia, arcigna e zitella, cattiva come il fiele, acida più di un limone acerbo, matrice delle più maligne e perverse dicerie su tutto quanto non facesse parte della monotona routine, in cui lei stava evidentemente benissimo. Abitava non lontano di qui, appena fuori del paese, in una casa ereditata da zii che erano contadini, anche loro immigrati, allogeni; ha abitato quella casa isolata per alcuni anni, finché un automobilista, che aveva alzato il gomito già alle undici del mattino – da queste parti situazione tutt’altro che rara – non la investì proprio davanti a casa, di domenica mattina, di ritorno dalla chiesa, relegando nel camposanto una vera enciclopedia di gratuite calunnie. Viveva anche lei da sola. Su di lei, tuttavia, voci zero. E anche questo è ben curioso. Se una donna vive da sola, è cosa che non desta interesse più di tanto in un piccolo paese come questo. Ma un uomo, laureato in lettere, che vive da solo, agita le più diverse fantasie. Da sua vicina di casa mi sono posta spesso la domanda. Non ho mai avuto una risposta. Era sempre gentile, educato. Oserei sbilanciarmi: era davvero un bell’uomo. Usciva sempre elegante. Sono convinta che dedicasse ore alla ricerca dell’aspetto migliore. E mai due giorni di fila con lo stesso capo d’abbigliamento addosso. Ne sfoggiava sempre di nuovi. C’era sempre un tocco di classe. Insomma, roba non da paese. Beh, credo mi possiate se capire se ammetto di aver avuto una certa attrazione per il professor Vito Derossi.
Non posso a questo punto non parlare dell’auto, non foss’altro perché, prima di tutto, come vicina di casa, la vedevo spesso parcheggiata in strada in prossimità del mio cancello, in secondo luogo perché anch’essa fornì ampio materiale alla Setta delle Trae oscure. Era una vecchia Fiat 600, auto d’epoca: immatricolazione nel gennaio 1956. Il primo modello, quello con la maniglia nella parte anteriore dello sportello. La teneva con una cura maniacale. Aveva un garage pieno di pezzi di ricambio; se li scambiavano gli appassionati di quelle auto antiche. Pensate un po’! L’invidia del paese, o meglio di quella parte più coinvolta nelle attività della Setta delle Trame oscure, era arrivata al punto che alcuni erano convinti che Vito Derossi avesse una sorta di perversa e quasi feticista passione per quell’auto. A me sembrava solo bella, veramente bella, una vecchia elegante signora della piccola borghesia, un simbolo di una pagina della nostra storia sempre bella da raccontare, un’auto sempre ricca nel suo apparire in pubblico di quella dignitosa perfezione che era il marchio del nostro professore: l’auto più idonea, più, come dire, congruente e coerente con la persona che vi saliva alla guida, per chi vedeva spesso lui e vedeva altrettanto spesso la sua auto. “Un dandy fuori tempo massimo”, lo definì un suo ex collega. Una buona definizione, credo. Sarà stato anche fuori tempo massimo, ma, vi confido, a me piaceva proprio.
Gli insegnanti lavorano al mattino, hanno solo diciotto ore alla settimana, hanno tutti i pomeriggi liberi, hanno tre mesi di vacanza, anzi, quattro, se ci mettiamo vacanze natalizie, pasquali, morti, santi e patroni. Le solite cose che si sentono ovunque. La Setta delle Trame oscure ci sguazzava in questi luoghi comuni. Eppure lui, in media tre giorni alla settimana, tornava a casa per l’ora di cena. Mio figlio ha frequentato quella scuola e sapevo perché avesse quegli orari: ricopriva a scuola diversi incarichi aggiuntivi e per alcuni anni fu anche vicepreside. Ma, per quanto questo fosse vero nel modo più sacrosanto, non era sufficiente a convincere gli adepti della Setta delle Trame oscure, sempre depositari del dogma unico. Aveva di certo i suoi oscuri intrallazzi. Chissà cosa fa tutto quel tempo! Quando un anno si seppe che era stato candidato alle elezioni comunali, in paese la Setta delle Trame oscure lo fece diventare subito il frequentatore di una potente loggia massonica. Per un po’ girò persino la voce che in casa sua si sentissero voci di riunioni segrete di un gruppo di cui sarebbe stato il capo, come se da framassone – in città lo sono in tanti – fosse diventato una specie di eresiarca o di santone; in realtà, nessuno aveva mai sentito niente; si vedeva una luce accesa a lungo, anche fino a ore piccole, perché Vito Derossi ogni tanto dava alle stampe un libro, scriveva, aveva la sua piccola cerchia di lettori e appassionati, in città ovviamente, perché qua riuscire ad andare oltre le pagine della cronaca locale del giornale è veramente un’impresa e persino la lettura della cronaca di un incidente risulta spesso complessa da interpretare. Da casa nostra lo vedevamo, soprattutto nei mesi estivi, quando stava con la finestra aperta, senza assolutamente alcun segreto da nascondere; era seduto nel suo studio, al computer. E scriveva. Ma era troppo forte la tentazione degli adepti della setta: secondo loro lo faceva – intendo il tenere la finestra aperta e il farsi vedere al computer – per creare un diversivo, sentenziò uno al bar dei comunisti; era una controfigura messa lì apposta per ingannare i vicini, era arrivato persino, quasi teneramente, a dire un giorno un ragazzo, vittima forse di un’overdose da serie tv, in una riunione del gruppo in parrocchia. E dire che era uno dei pochi in paese che leggessero, quel ragazzo. Leggeva le cose sbagliate, evidentemente.
Nessuno lo aveva mai visto con una donna. E qui il gioco si fa duro … Se l’avesse avuta, non sarebbe circolata – ne sono assolutamente convinta – alcuna voce su questo fatto. Del suo passato nessuno sapeva niente. Per me era impossibile che non avesse avuto alcuna storia prima di arrivare qui e non era credibile che l’unico oggetto di adorazione fosse un’auto antica. Non entro nei dettagli, perché mi fa veramente ribrezzo il livello a cui la malignità del paese era arrivata su questo aspetto. Parlarne farebbe del male a lui, a me, alla mia famiglia e a tutti quelli, che in città erano tanti, qui no, che gli avevano voluto veramente bene. Mio figlio, infatti, mi diceva che era stimato come insegnante, che i suoi studenti lo ritenevano una persona che svolgeva con serietà il proprio dovere. Era bravo, insomma. E il fatto che lo fosse fece sì che molti genitori iniziarono presto a chiedergli di prendere a lezione i propri figli, nonostante abitasse a sette chilometri dalle prime case della città. Dava lezioni private di materie letterarie, ma soprattutto dello strumento in cui era diplomato, il violoncello. E questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Sì. Proprio così. Quei ragazzi e quelle ragazze che entravano e uscivano da quella porta furono veramente, per me, la causa di un’escalation di malignità che superò ogni decenza. Quelle note dolci e ovattate, quelle armonie così diverse dai gusti musicali dei più, iniziarono a favorire in paese le più perverse fantasie. Nel piccolo paese non esiste persona senza peccato che si debba esimere dallo scagliare la prima pietra. Qui tutti arrotondano lo stipendio con attività anche in nero, chi in un modo, chi in un altro; ma lo fanno con le mani; lui lo faceva con la testa e per di più non lo faceva neanche in nero. Loro lo fanno producendo manufatti, lui dando qualche lezione. E in più, oltre a suonare e insegnare violoncello, produceva testi narrativi e componeva per il suo strumento, spendendo sicuramente per una passione eterna più tempo di quanto loro ne usassero per un lucro effimero. Ma era un’attività inconcepibile, non era un lavoro, al massimo poteva essere per loro un dolce hobby; insomma, anche quello dava fastidio e anche su quello la Setta delle Trame oscure riuscì a produrre calunnie a iosa. E questa era l’unica, ma determinante, differenza: il fatto che lui lo facesse con la testa, gli altri con le mani, era come se da sotto scuotesse le acque di un mare già mosso, docile a essere ulteriormente agitato, le increspasse e con la sua corrente le accelerasse piano piano, fino a farle diventare uno tsunami che inondasse e devastasse tutto: questo ha un nome e si chiama invidia. E la Setta delle Trame oscure lavorò con la massima alacrità per dare una forma a quest’invidia. Nessuno disse mai nulla. Si accennava con malizia. Si usava la tecnica del detto e non detto, del coltello appoggiato al collo che sfiora la pelle senza ferirla. Nessuno lasciò mai nulla di scritto. Nessuno fece mai post diretti sui social. Ma le allusioni non mancavano. E se a me facevano male, figuriamoci a lui, che sicuramente non poteva non sapere!
Eppure … Sì, nella vita ci sono sempre dei se e dei ma che fanno la differenza. E per fortuna! Eppure, sì: sapevo una cosa che il paese, credo, non ha mai saputo. Sapevo che la mamma di una di quelle ragazze, che andavano da lui a lezione di violoncello, una sera si presentò a casa sua, poco prima dell’ora di cena. L’avevo vista due ore prima accompagnare la figlia nel corso del pomeriggio. Indossava un bel vestito corto e generosamente scollato, era elegante e pettinata con una chioma di capelli neri e lisci raccolti in una coda di cavallo alta e lunga. Era l’immagine della più naturale e dolce sensualità intesa alla seduzione. Sono sicura di averla vista solo io e credo che sia rimasta lì a lungo. Vidi bene che lui la accolse con un bacio sulla porta di casa. Fu quella l’ultima volta che lo vidi. La mattina dopo l’auto non c’era più. L’episodio si era verificato qualche settimana prima di quella sua visita in negozio per ordinare la confezione di rose. Arrivò l’estate. E in estate la Setta delle Trame oscure lavora meno. C’è chi fa viaggi, chi ha la seconda casa al mare, chi in montagna, chi va dai parenti che abitano lontano, chi è più preso dalle attività agricole. Il centro sportivo chiude e restano in funzione solo l’affitto dei campi da tennis, poco richiesti, e di quello da calcio, ancora meno richiesto, se non per i due giorni della sagra paesana. Il gruppo parrocchiale sospende le riunioni. Stessa cosa i circoli del bar dei comunisti e dei repubblicani: anche loro in estate si mettono in pausa. La Setta delle Trame oscure, l’unica che unisce in modo trasversale le quattro conventicole, ha meno materiale, insomma, su cui operare e soprattutto meno risorse umane e professionali da tenere in servizio.
Per questo o quel motivo, credo che nessuno si sia accorto che la villetta era rimasta chiusa a lungo e che la Fiat 600 bianca fiammante, anno 1956, non c’era più. E solo ad anno scolastico iniziato si sarebbe saputo che non lavorava più nella sua scuola in città. Le voci ripresero allora ad un ritmo forsennato. La sua assenza scatenò una vera ridda infernale. Tutto quello che era rimasto per anni sopito e represso si scatenò alla luce del sole e sui social apparvero non più allusioni, ma frecciate dirette. L’invidia prese la forma di una malevolenza e di una cattiveria di cui, a onor del vero, non avrei ritenuto mai capace il mio paese. A tanto era arrivata la potenza della Setta delle Trame ormai non più oscure.
Quelle tre rose adesso spiegavano tutto. E quell’auto che era arrivata poco prima delle otto di sera, la bellezza di quella figura femminile apparsa come per incanto, una specie di angelo inviato per salvarlo da questa poltiglia fangosa di calunnie, quel bacio sulla porta, i sorrisi, il sentimento diffuso di dolcezza e tenerezza che la situazione creava in me e poi il silenzio che avvolse la casa quella notte, senza la luce dello studio accesa fino a tardi, come quasi sempre avveniva … ecco, questi frammenti di memoria sono l’unica motivazione che riesco a dare di quelle tre rose, la confezione più bella, elegante e raffinata che in tanti anni abbia mai realizzato. Averla creata con le mie mani per la persona più bella, elegante e raffinata che questo paese abbia avuto adesso mi rende fiera. Non ebbi più notizie di Vito Derossi. Nessuno in paese ne ebbe più. La Setta delle Trame non più oscure poteva agire allo scoperto. Un giorno vidi quello che tutti ne ritenevano il capo, solo per il fatto che era l’unico ad avere la tessera del circolo del bar dei comunisti e contemporaneamente un figlio che frequentava il gruppo parrocchiale. Basta poco qui per fare carriera. Lo vidi al bar dei comunisti, mentre facevo colazione in attesa dell’orario per aprire il negozio. Il bar era proprio accanto al mio negozio. Per quello ci andavo. Se ci fosse stato quello dei repubblicani, dei leghisti, dei fascisti, dei cattolici integralisti, del circolo della corsa nei sacchi o delle biglie, ci sarei andata lo stesso. Non sapevo assolutamente niente di quale fosse il destino di Vito Derossi, ma, quando vidi formarsi attorno a quell’uomo un crocchio di persone e sentii pronunciare spesso il suo nome, quando avvertii nei volti e nelle parole il ben noto clima di cattiveria gratuita che si era presto generato al solo nominarlo, quando mi resi conto di essere mio malgrado parte di un indecente spettacolo di menzogne, allora misi il freno ai nervi tesi, rimasi fredda, stetti al gioco e dissi la prima cosa che mi venne in mente. Fui diretta, impulsiva. Mi associai al crocchio riunitosi al bancone del bar e dissi: “Vito Derossi si è sposato e si è trasferito in un’altra città. Ha avuto un buon successo editoriale con il suo ultimo libro e aveva bisogno di risiedere vicino al suo agente.” Nulla era vero di quello che dissi, anche se il mio auspicio era che lo fosse; e non so sinceramente come mi sia venuta la forza per dirlo, forse per il disprezzo verso quella che ancora oggi chiamo la Setta delle Trame oscure, in realtà non più tali. Nulla era vero, come nulla era vero di quello che loro avevano fino ad allora divulgato, prima sommessamente e in modo subdolo, poi dichiaratamente e in modo esplicito. In quel piccolo mondo di menzogne cattive poteva anche starci una grande menzogna buona. La potente Setta delle Trame un tempo oscure avrebbe potuto adesso prendere la mira e aggiustare piano piano il tiro contro un altro bersaglio. Ma questo a me non interessa più. Non è quello il genere di umanità per cui amo confezionare i miei fiori. Una cosa, questa vera, posso dirvela: credo di essermi innamorata di lui quando eravamo vicini di casa. Mi tremavano le mani quando confezionai quelle tre rose. E leggevo i suoi libri; l’ultimo che Vito Derossi aveva scritto prima di lasciare il paese, una raccolta di racconti, mi ha talmente colpito con i suoi riferimenti realistici a questa specie di cloaca che qualcuno osa chiamare centro abitato, che lo conservo gelosamente. Si ritrovano tutti i personaggi, i gruppi di varia natura, le maldicenze di ogni genere, le calunnie più o meno subdole, quella pericolosa miscela di ignoranza e benessere economico che le innesca con grande facilità. Sapeva tutto, in ogni dettaglio. Era a conoscenza di tutti i piani e di tutti i movimenti di quella che in casa mia era sempre stata chiamata la Setta delle Trame oscure. Li conosceva tutti, uno per uno. Li avrebbe potuti smascherare tutti, ma si è tenuto sempre fuori dai giochi. Ebbene, il primo racconto di quel libro inizia con un uomo che entra in un negozio di fiori, in un piccolo centro abitato della benestante provincia padana, e si fa confezionare tre rose. A parte il fatto che nel racconto tra lui e la fiorista nasce una storia, rimasta nei sogni sicuramente miei e, chissà, forse anche suoi, il resto lo conoscete già.
© 2018. Stefano Tramonti
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