La panchina sull’alpe

Con tutta l’energia del suo lento crescere il sole si eleva di picco in picco, di giogo in gioco. Si apre varchi tra le rocce regalando alle cenge e ai pianori la sua luce, con mille cautele, come un babbo che dà la paghetta a un figlio.  E con il sole si alza anche il vento. Muove le fronde. Libera dall’ombra specchi di luce. Infonde vita a spazi e rivela oggetti prima informi nel buio. Porzioni di prato rallegrate dai botton d’oro, belli ma velenosi, prendono colore e rilasciano insieme all’erba l’umidità della notte. I raggi si allargano sul pianoro. La loro luce elimina ogni segreto. Uno di questi raggi punta diritto una panchina. Il giovane esce dalla tenda. La vede e la riconosce. La stava cercando, quando il buio era calato e il suo corpo stanco gli aveva detto di fermarsi ai margini di quell’erto pendio boscoso lentamente percorso nel tardo pomeriggio del giorno prima. Dopo aver lasciato sfollare i turisti dai sentieri, era rimasto lui il padrone della sua memoria. Quella panchina era in tante foto di lui con il babbo e la mamma, quando era ancora bambino. La vuole rivedere anche quest’anno. Ha una storia, come tanti oggetti. Una storia speciale di sicuro, perché ogni oggetto è speciale quando per una persona assume un significato speciale. Il babbo gliel’aveva dato un giorno. Una storia forse  anche triste, se la si vuole intendere in un certo senso. La tristezza è uno dei sentimenti più relativi: alcuni la considerano negativa e fanno di tutto per allontanarla, altri la cercano e in essa trovano anche conforto in certi momenti. A lui non interessa se la storia della panchina sia triste o no. È speciale. È la memoria. E questo basta.

Non era uno che amasse le soste. Se decideva di compiere un’escursione, solitamente camminava finché aveva energia per procedere. Ma quella panchina meritava il ruolo di eccezione e l’eccezione, si dice, dovrebbe confermare la regola. Perché, appunto, aveva una storia per lui. Altri potevano passare e non guardarla nemmeno. Lui no. Il babbo un giorno l’aveva vista sverniciata dal passare tempo. Aveva speso di tasca sua perché fosse restaurata in quel canto dell’alpe da cui s’alzava sempre un inno alla memoria della mamma. Era, infatti, la sua un’escursione della memoria. Anzi, nella memoria. E la memoria aveva i suoi riti, un po’ malinconici, tristi qualcuno forse li chiamerebbe, ma sempre da rispettare. L’onore, quello meritato, richiede questo rispetto. La panchina costituiva parte importante del rito. L’aveva cercata fino all’imbrunire. Poi tutto il pianoro si era oscurato e il tremulo, acuto canto dell’allocco era stato il segnale che indicava per lui il momento della sosta, per altri quello della caccia.

Tanti anni prima, quando era ancora alle soglie dell’adolescenza, su quella panchina il babbo aveva deciso di mangiare, prima di iniziare il lungo e ripido sentiero sul versante esposto che portava all’attacco della ferrata, la prima per lui appena dodicenne. Era emozionato allora. Lo stesso sentimento albergava adesso nel suo cuore. Alla fine del sentiero che si dipartiva da quello principale c’era una malga abbandonata, che un tempo era stata anche un rifugio. Lo era allora quando ci passò con il babbo. Ormai solo una piccola stalla per poche mucche in alpeggio estivo. Poco più su coltivazioni di mirtilli. Da un po’ di tempo fruttavano più del latte delle mucche, del formaggio e dello yogurt. Quando invece la malga era stata anche un rifugio, aveva un sottotetto che da giugno a settembre poteva ospitare fino a otto persone in branda ed era molto amata e conosciuta dagli escursionisti e dagli alpinisti nei mesi caldi. Il babbo e lui mangiarono soltanto un piatto di pasta, quanto fu sufficiente per riprendersi dalla lunga marcia che da fondovalle attraverso il bosco li aveva condotti all’alpe. Era necessario quel pieno di carburante per affrontare “sua maestà la roccia nuda”, come il babbo la chiamava. Dopo il pranzo il babbo vide la panchina e disse che era quello il posto giusto per un po’ di riposo. La panchina era rivolta verso la lunga serie di montagne disposte a semicerchio intorno a una conca glaciale e appuntite come la dentatura di uno squalo. Il sole, che ne disegnava in controluce i contorni da dietro, dava a tutte lo stesso colore bruno, ma ne esaltava l’originalità. Ognuna aveva il suo nome, le sue vie, i suoi eroi. Il babbo parlò come sempre di battaglie e di conquiste di cime, di guerra di trincea e di morti, tanti morti, morti a migliaia su quel pianoro dove ora brucavano pacificamente mucche e cavalli, capre e pecore. Lui ascoltava, perché la storia con le parole e le testimonianze che queste modellano plasma il paesaggio senza che ne accorgiamo. Lo sentiamo quando la fatica dell’escursione, il cui fine oggi è lo sport, ci ricorda il dolore delle marce, il cui fine era lo sterminio di un nemico che aveva la tua stessa vita, la tua stessa famiglia, i tuoi stessi sentimenti, i tuoi stessi affetti. Allora tutto diventa storia. E lo capisci quando avverti il dolore, perché la storia è vera e autentica, non libresca e scolastica, quando è esercizio di dolore, quando, camminando sulle sue tracce, senti il cuore balzare in gola, quando certi pensieri ti fanno riflettere sul destino; e ti chiedi perché il nemico poteva starsene con le sue mitragliatrici appostato lassù, quando invece le nostre fanterie dovevano invece essere mandate con migliaia e migliaia di vite umane allo sbaraglio contro quelle postazioni, inaccessibili come nidi d’aquila. La famosa carne da macello, o da cannone. Il babbo rifletteva, perché il suo babbo, il nonno, lì c’era stato, aveva combattuto per obbedire agli ordini; e quando faceva vedere le foto del nonno in divisa, che lui appena ricordava, quella manica destra vuota nella tasca della giacca, quel pantalone destro ripiegato e infilato sotto la cintura bastavano a capire l’entità del prezzo pagato dal corpo; quella stampella tenuta stretta con la sinistra e che lo sosteneva sotto l’ascella teneva tenacemente in piedi un corpo fiero, che significava da solo una storia che non aveva alcun bisogno di parole. Era quella la ragione delle escursioni per il babbo. Ogni passo era un viaggio a ritroso. Intendeva tramandare a lui quel sentimento. Chissà se il babbo sapeva anche che il succedere delle generazioni avrebbe fatto sì che il figlio non avrebbe mai vissuto allo stesso modo, ciò che già lui, figlio di un soldato, viveva diversamente dal suo babbo. Eppure quel luogo viveva di altro e il sentore che quelle parole del babbo fossero diventate un diversivo e che avessero un intendimento quasi esorcistico non glielo toglieva dalla mente nessuno. Il vero fine era quel cippo.

La sera prima, dopo che ebbe mangiato, era passato un piccolo gruppo di escursionisti di ritorno dalle frange che lo attendevano. Avevano visto la panchina. Ma il loro sguardo era andato oltre, posandosi sul cippo che si trovava vicino ad essa. Erano stranieri e cercarono di tradurre la scritta in italiano. Uno di loro si fece un segno della croce con la mano destra. Lui lo notò. In altri contesti forse non avrebbe compreso il significato di quel gesto e lo avrebbe ritenuto una formale convenzione. In altri momenti forse si sarebbe anche risentito. Ma in quel momento no. Lo apprezzò. Tutto lì prendeva veramente un significato speciale. 

Richiuse la tenda. Preparò lo zaino. Calzò le pedule. E fece qualche passo verso la panchina. La mente era in subbuglio. Il cuore palpitava, come sempre quando si raggiunge qualcosa che si cerca e si desidera. Su quella panchina ritornarono la parole del babbo di quel lontano giorno. Era inevitabile. Era andato lì da solo unicamente con quel fine. Per riannodare fili con un passato che aveva un universo sconfinato di informazioni, di emozioni, di intermittenze del tempo da rivelargli, se ascoltato nelle giuste condizioni. Il babbo lo aveva invitato a guardare le montagne. Ma lui era stanco. Lo aveva ascoltato poco. Il babbo se n’era accorto. E lui allora aveva appoggiato la testa sul suo fianco e aveva chiuso gli occhi addormentandosi. Ma il babbo parlò lo stesso. E parlò di nuovo alla fine della ferrata, quando una di quelle cime ritagliate in controluce fu da loro raggiunta. E parlò ancora a casa, al ritorno. Parlò della bellezza di quel paesaggio, non della tragedia della sua storia. La bellezza del paesaggio non è macchiata dal sangue dell’uomo, ma nobilitata e resa ancora più preziosa. Così lui pensava. Ma diceva anche che non esiste una cima uguale all’altra. E per questo erano ancora più preziose. Diceva che, quando ti siedi su uno sdraio in spiaggia e guardi il mare, vedi qualcosa di piatto e di uniforme; invece lì non esiste una montagna uguale all’altra. Diceva che nel mare, se vuoi vedere la differenza, devi scenderci sotto, immergerti, sprofondarti sotto la sua superficie, dove, per respirare, hai bisogno di qualcosa che la natura non ti ha dato, perché il mare la sua differenza la nasconde agli occhi di chi non la merita e rende difficile ai più ammirarla. Ma la montagna non nasconde segreti, non ti tradisce, ti fa capire subito che cosa ti aspetta. E il refolo fresco che ti farà respirare, che scenderà sul tuo corpo affaticato, sarà il premio per il sacrificio che ti offrirà, una volta giunto lassù su una di quelle cime.

Il progresso tecnologico consentiva ora di avere tutto in un cellulare. I due libri scritti dal babbo erano dentro quell’arnese tanto diabolico quanto maledettamente utile in quel momento. Ne prese uno, non a caso, e iniziò a leggere. Poi si rese conto che l’ansia cresceva e gli occhi si stavano inumidendo. Appoggiò lo zaino per terra e si sedette sulla panchina. Spense il cellulare e chiuse gli occhi. Che cosa aveva fatto? Aveva rinunciato a un dialogo con il tempo? Aveva rinnegato la memoria? Non riusciva a capire perché avesse così facilmente ceduto. Non era da lui. Il babbo non lo avrebbe mai fatto. Non voleva forse ammettere la verità? Quel libro del babbo, che lui dopo anni aveva deciso di rileggere, si era bruscamente interrotto e ad un certo punto non era più riuscito a procedere con la lettura. E non era la prima volta. Erano pagine forti da leggere. Lo sapeva. Per questo aveva scelto quella condizione per lasciarle entrare soffici nel mondo dei suoi tanti sogni frustrati da un episodio che era accaduto lì e che lì lo aveva come inchiodato per anni.

La memoria è il condimento che dà sapore alla vita: può renderla amara oppure dolce. Non importa. Va rispettata comunque, perché un ricordo ha sempre qualcosa da insegnarti su come riprendere una strada interrotta per un’immotivata paura, su come interromperne una per aver riconosciuto un errore o ascoltato un consiglio amico, su come fermarsi, sì, anche fermarsi potrebbe essere utile, come lui aveva appena fatto. E in quella sosta sentì da lassù il consiglio di riprendere quella pagina che aveva chiuso. Lo ascoltò, riaccese il cellulare, riprese il libro interrotto e lesse quella pagina letta e riletta tante volte. Fu un sabato mattina. Pioveva; e sull’asfalto del viale di città le foglie che un precoce autunno faceva scendere imputridivano tra specchi di luce illuminati dai lampioni fissi della strada e altri dai fanali intermittenti delle auto. Mentre lui era alla finestra della sua camera, il babbo entrò, si sedette sul suo letto e disse: “Siamo rimasti solo noi due. Che senso ha restare dove tutto fa solo male?” E lui rispose: “La memoria non la cancelleremo mai. Ce la porteremo dappertutto. Se oggi ci trasferiamo, tutto quanto verrà con noi; quello che il tempo ha inciso nel cuore non si cancella spostandosi nello spazio. Perché fuggire? A cosa fuggire?” Il babbo si alzò e uscì di casa. Lo vide poco dopo dalla finestra con l’ombrello in mano zigzagare tra quelle pozze che rispecchiavano luci tutte diverse. Sapeva dove il babbo si stava dirigendo. Dietro l’angolo c’era la chiesa dove la mamma andava sempre, ma dove il babbo era entrato solo dopo la sua scomparsa. Il babbo da allora ci andava tutti i giorni, a domandare che cosa? Non aveva mai avuto il coraggio di chiederglielo. Era un segreto tra loro due, tra la mamma e il babbo, che in quella chiesa aveva trovato il suo scrigno. Il babbo prese una decisione sulle panche di quella chiesa. Tornò in casa e disse: “Domani si festeggia.” “Cosa dobbiamo festeggiare?” “Festeggiamo la memoria, quella di cui hai parlato tu prima.” “Perché?” “L’hai detto tu: dà il sapore alla vita e non si può sfuggirle. Oggi ho provato ad ascoltarla. Lei mi ha detto che io e te avremo un compito.” “Quale?” “Fare un sacrificio: partiremo per la montagna, quella montagna, e arriveremo lassù dove il destino ce l’ha portata via e ci ha costretti a cambiare ogni progetto.” Non aveva detto ‘lassù dove tutti e due siamo rimasti inchiodati’. Sarebbe stato troppo scontato. Ma quella era la verità.

Chiuse la pagina. Era riuscito a leggerla. Ora era rimasto solo lui a onorare quella memoria, che aveva i suoi riti, come li aveva nella chiesa frequentata dalla mamma e poi anche dal babbo. Si alzò, riprese il cammino. Ogni pesta era quella del babbo. Lo zaino era quello del babbo. Le pedule quelle del babbo. Quello era il suo rito. E la cima su cui sarebbe arrivato sarebbe stata dedicata proprio a loro due, dopo la fatica, dopo il dolore, dopo quel sacrificio senza il quale nessuno avrebbe mai il diritto di onorare la memoria. Recitare una preghiera su una tomba è alla portata di tutti, se uno lo ritiene utile e se ritiene che lo spirito abbia bisogno di quel genere di alimento. Lui non si accontentava. Aveva bisogno della sua cima da conquistare. Sentiva l’atavica urgenza e il richiamo del rito e del sacrificio. Doveva andare lassù, dove, chissà, forse un giorno gli avrebbe potuto anche stringere la mano, come lui diceva che faceva con la mamma su quelle vette.

Si alzò dalla panchina e s’incamminò. Avrebbe guardato solo al ritorno, dopo il compimento del sacrificio, il cippo con la foto della mamma che il babbo volle proprio lì. Accanto a quella panchina dove i soccorritori un giorno di tanti anni fa l’adagiarono ormai inerte, mentre le pale dell’elicottero ruotavano con un’urgenza che non aveva più alcun senso e il frastuono del rotore dilaniava, senza grazia, inutilmente, quanto già era stato sbranato e divorato dal destino. Il sole giocava con la sua luce e non un raggio raggiunse il cippo, che rimase in ombra. Si alzò dalla panchina e si sistemò sulle spalle lo zaino. Prima di lasciare il pianoro dell’alpe si voltò indietro un’ultima volta. Un raggio di sole aveva attraversato il prato. Le ultime acetoselle bianche attendevano la prossima fioritura e davano appuntamento all’anno prossimo e al prossimo rito. Pini cembri, abeti e larici erano pronti a consegnarlo al regno dei mughi, prima di sua maestà, la nuda roccia, e prima della mistica solitudine della cima dove tutti e tre si sarebbero abbracciati, come sempre. Lassù il dialogo avrebbe avuto il suo compimento e il sacrificio avrebbe dato forza a quel dialogo. Il sole girò dietro un’alta vetta. L’ombra avvolse piano piano la panchina, accompagnata da una dolce folata fresca, come la coperta sul bimbo che s’addormenta. Era atteso. Non poteva indugiare più. S’incamminò senza voltarsi indietro, con l’anima scagliata in avanti come un proiettile, verso il passato.

La risata

“Ho letto tanti libri sulla scrittura e ho partecipato a tanti corsi in presenza e on line, ma, quando mi metto davanti alla tastiera, non trovo il coraggio di scrivere e, se anche lo trovo, alla fine getto nel cestino tutto quanto ho appena scritto, convinto di aver prodotto un’emerita schifezza. Credo di avere come un blocco.”

“Non sei da psicoterapia. Tranquillo. Il tuo problema è facile da spiegare e, credo, anche comune. Hai imparato l’arte, ma non l’hai messa da parte.”

“Non ti seguo.”

“I corsi sono molto utili. Insegnano ad evitare gli errori, ma hanno un difetto. Pretendono di presentare come norme e regole situazioni molto più fluide e indefinibili di quanto tu possa pensare. Occorre pazienza. E occorre anche sbagliare, perché, mai come qui, sbagliando s’impara.”

“Tu hai sbagliato?”

“Sì. E qualcosa ho imparato. Almeno credo. Ma parlami di te. M’interessa capire meglio il tuo problema.”

“Tre giorni fa ho scritto un racconto. Poi uno mi ha detto che è melenso e prolisso. Un altro che è troppo lento. Un altro che addirittura è troppo scarno, cioè il contrario.”

“Ecco, ti sei dato la risposta da solo.”

“Cioè?”

“Che bisogno avevi di chiedere pareri? I pareri dipendono dalla situazione più originale che possa esistere nella mente del lettore: la sensibilità. Ognuno di noi è sensibile a qualcosa e nessuno di noi ha la stessa sensibilità di un altro.”

“Dunque devo scrivere e pubblicare.”

“Almeno provare. Dimmi, che cosa avevi scritto?”

“Un racconto di un bambino con l’adolescenza molto difficile che finisce nel giro dello spaccio e a un certo punto si trova in un istituto minorile, dove, per la prima volta nella vita, conosce il senso dell’amicizia e la voglia di riscatto. Un racconto fondato su questa specie di paradosso: trovare l’amicizia nel posto più improbabile e riuscire anche a riscattarsi.”

“Ho capito. Hai sentito il bisogno di comunicare un sentimento molto forte. Ma non a tutti il racconto è piaciuto. Hai provato a partecipare a un concorso? Anche lì è fortuna. Dipende da quale sensibilità incontri nelle persone della commissione. Sapessi … Ho smesso di farne parte proprio perché quello che pensavo io era quasi sempre diametralmente opposto a quello che sostenevano altri. Ma il gioco della fortuna merita di essere tentato.”

“Non ho mai provato.”

“Prova. Ma dimmi! Perché scrivi?”

“Per divertirmi.”

“Ma è bellissimo quello che hai detto. E allora divertiti in un concorso. Quale divertimento più bello esiste del fare una scommessa?”

“Scrivere è una scommessa?”

“Dopo. Prima è un divertimento. Se non è un divertimento, non serve a niente. E se ti diverti a scrivere, sei già sulla strada giusta.”

“E allora? Cosa mi consigli?”

“Mandami quel racconto. Se ti sei divertito tu a scriverlo, non vedo perché non mi possa divertire io a leggerlo.”

“Alla fine allora saremo in due ad esserci divertiti.”

“Giusto.”

“E poi?”

“E poi? E poi cosa fanno due che si divertono?”

“Mah, non saprei. Forse fanno una risata.”

“Lasciati abbracciare.”

Dietro l’angolo

Faceva piuttosto freddo quel sabato mattina del 30 dicembre. Era quel freddo umido della bassa Romagna che s’infila dappertutto, ti maciulla le ossa nell’aria stantia della pianura, ti fa respirare male tra le strade di città, lasciando lo smog tutto ad altezza d’uomo, tutto a disposizione dei tuoi polmoni. Alle otto del mattino puntuale partì. Aveva indossato il passamontagna e cambiato i guanti di lana con quelli da sci per fare le consegne. Non sapeva che cosa recapitava. Non gli competeva nemmeno. Non era pagato per quello. Ma sarebbe stato molto curioso di saperlo. Il suo mestiere era solo presentarsi all’ora pattuita al magazzino vestito di giallo, prendere la bicicletta gialla di servizio, riempire le borse gialle della posta per la sua zona e recapitarla nella nebbia grigia. Senza farsi domande. Aveva nelle borse della sua bicicletta le buste divise per strada e le metteva nelle buchette, sempre poco amato dai cani delle case indipendenti, tollerato dai bisbetici dei condomini che, quando le buchette non erano all’esterno, dovevano alzarsi per rispondere e aprire la porta principale. Doveva stare molto attento in quelle prime ore del mattino. Nei punti dove le auto non erano passate, nei bordi delle strade, sui tratti laterali dei marciapiedi o delle ciclabili, nelle parti più interne delle curve, insomma in tutti i punti in cui solitamente passa la bicicletta del portalettere, il ghiaccio era sempre un’insidia e proprio il giorno prima un suo collega era caduto a causa di quelle maledette ragnature che si formano sull’asfalto lasciato senza manutenzione e in cui il ghiaccio s’insinua facilmente. Sul cellulare stavano arrivando notifiche a raffica. Saranno stati i primi precoci auguri di buon anno o di buona fine da parte dei più superstiziosi, che attendevano sempre la mezzanotte. Si fermò un attimo a leggerli. Riteneva persone intelligenti quelle che non aspettavano la mezzanotte del 31 dicembre, se sentivano il bisogno di fare gli auguri ad un amico o a un conoscente. Rispose velocemente. Poi si diresse subito verso la sua zona di competenza. L’aveva voluta lui. Era pagato poco. Prima finiva, prima poteva andare a fare il lavoretto con cui riusciva ad arrotondare e sopravvivere: costruire e impagliare sedie rustiche. Una passione derivata dai genitori immigrati dalle basse del ferrarese negli anni della costruzione del polo chimico. Proprio in uno di quei condomini mise in una buchetta una busta diversa dalle solite, senza sapere che conteneva qualcosa di veramente speciale. Sapeva invece molto bene chi abitava in quella casa e a quella persona raramente consegnava della posta che non fossero le solite bollette. Da tempo attendeva l’occasione di vederla, ma non aveva mai fatto nulla perché si creasse. Le buchette di quel condominio erano nell’ingresso. Bisognava che uno gli aprisse. Ma non aveva mai osato suonare il campanello con il suo nome per farsi aprire il portone principale, nonostante quel nome fosse su uno dei primi due pulsanti in basso, quelli che il postino solitamente suona per primi. Consegnata quella busta, riprese la sua bici gialla, mentre dagli aceri del grande parco di quel condominio cadevano le ultime tardive foglie. Una si posò sul portapacchi della sua bici. Non se ne accorse. Infilò le mani nei guanti. Risalì in sella alla sua bicicletta gialla di servizio e ripartì nella nebbia. Quando la bici si mosse, la foglia cadde dentro la borsa.

Eleonora non aveva certamente avuto una vita di quelle che si possano definire rosee. Aveva maturato l’età della pensione, che aveva accettato con disgusto. I colleghi e le colleghe non le fecero nemmeno la festa, sapendo che per lei non lo sarebbe stata. Al contrario: da quel giorno le avevano visto saltare velocemente gli anni addosso. Qualcuno la invitava alle cene di gruppo, ogni tanto, quando si ricordava di lei. Le amiche con cui andava a teatro erano le uniche persone che ancora frequentava con una certa regolarità; ma, appena finita la stagione di prosa, i cui ultimi spettacoli di solito erano nel mese di maggio, dava loro appuntamento ad ottobre, all’inizio della stagione successiva e non le avrebbe più riviste. Per trascorrere i mesi estivi e i periodi di vacanza a Natale e a Pasqua si era inizialmente dovuta abituare lentamente all’idea che il godimento di una sosta dal lavoro era privilegio di chi ha qualcuno con cui condividerla. Poi, memore di quello che aveva insegnato per una vita, si era ricordata che vacanza in latino significa ‘vuoto’, tempo libero da dedicare a quello che uno vuole; e allora aveva cambiato idea: la sua vita era tutta una vacanza, perché, a conti fatti, era stata tutta un grande vuoto.

Chi lo aveva lasciato? Si era creato da sé? Esisteva un disegno per cui tutto era previsto, anche quel grande vuoto, molto più grande dei tanti piccoli vuoti che si erano venuti aggiungendo anno dopo anno? Esisteva una ragione, una motivazione razionale, una spiegazione logica, un perché che le facesse capire come mai attorno a lei si era formata quella gigantesca bolla? Porsi in modo quasi ossessivo quella domanda era diventato quasi l’unico modo per far passare le giornate: leggeva ponendosi quella domanda; faceva i lavori domestici assillata dalla ricerca di quella spiegazione; scriveva per passare il tempo, senza quelle ambizioni che aveva sempre ritenuto parte della vita altrui, mai della propria; chiudeva gli occhi nelle sale d’attesa dei tanti medici – da cui puntualmente era ritenuta più sana di un pesce – pensando sempre a quale fosse la motivazione dell’attuale infelice condizione che la portava sempre più spesso da quegli specialisti. Era dal dentista, stesa sulla comodissima poltrona, accecata dalla sguaiata lampada il giorno in cui ebbe occasione di riflettere sul primo di quei vuoti: la perdita dei genitori e dell’unico fratello minore che li stava riaccompagnando a casa e che vivevano tutti a oltre trecento chilometri di distanza da lei. In un attimo era rimasta senza parenti, senza una famiglia. Troppo presto. Aveva da poco ottenuto il posto come insegnante di ruolo, in una città dove era andata con la prospettiva di restarci il meno possibile, per poi cercare di avere il trasferimento vicino alla sua famiglia. Primo vuoto. Non aveva mai recriminato al fratello quel fatale colpo di sonno: sapeva bene quale vita lui conducesse, conosceva fin troppo bene lo stress cui era sottoposto, il peso della responsabilità di un’azienda in proprio da sempre il suo sogno, per la quale aveva accumulato anche tanti debiti. Quanto lasciatole dai genitori bastò a saldarli. Non c’era più ragione di trasferirsi. Tanto valeva restare lì. Ma si sentiva ormai un albero senza radici. Da quel giorno ogni raffica di vento lo avrebbe potuto abbattere. E tante volte aveva rischiato di cadere.

Il secondo colpo di vento venne pochi anni dopo l’ingresso in ruolo, quando ebbe una denuncia da parte di una famiglia, che riteneva il proprio figlio perseguitato da lei. Era scrupolosa e severa nel suo lavoro di insegnante. Era molto preparata e aveva dedicato anni di studio proprio alla didattica delle sue discipline, cui si dedicava con una passione che, per chi non ne conosceva le ragioni, poteva essere definita maniacale. Tutto si risolse velocemente sul piano amministrativo. L’ufficio scolastico regionale la tranquillizzò, dicendole che non avrebbe avuto nulla da temere, perché la denuncia era infondata. Il caso fu presto archiviato. Ma Eleonora non provò nessun sentimento di vittoria: ebbe, invece, un duro colpo alla propria autostima, che già non era di quelle particolarmente robuste, dietro la facciata che aveva saputo costruire molto bene per nascondersi. Pochi ne parlarono. La vicenda non ebbe diffusione. Rimase abbastanza circoscritta ai soliti addetti ai lavori. Ma dentro di lei la macchina degli ingranaggi che muovevano i sentimenti e decidevano come, quando, dove e con chi dovevano manifestarsi iniziò ad avere i primi inceppamenti. Una macchina che anni di studio e di ricerca facevano ritenere solida e fidata iniziava a dare precoci segni di malfunzionamento, proprio nell’unico aspetto della sua vita che le dava soddisfazioni. Una beffa, avrebbe pensato chi poteva vedere solo la superficie dei fatti. La prima conseguenza fu che nel lavoro divenne ancor più severa e dura, inflessibile e senza riguardi per nessuno, isolata nel suo mondo di letture e citazioni, protetta da questa coriacea membrana di autori classici e non solo da cui si sentiva difesa. E questo non fu un bene per una persona che era appena agli inizi della sua carriera. Fu comunque un evento che, nel bene come nel male, diede forza alla pianta senza radici, almeno se si vuol cercare di vedere il bicchiere mezzo pieno. Perché? Perché se lei si riteneva sola, non tutti erano estranei a quella condizione e qualcuno che voleva il suo bene c’era. Lei non li vedeva, chiusa dentro la sua corazza. Se si fosse aperto uno spiraglio di ottimismo, avrebbe scoperto un mondo fatto anche di buoni sentimenti, non solo di quelle insidie e malignità che aveva dovuto sempre e solo subire. Ma quell’atteggiamento, che lei si era imposta in cattedra e che non era certo prescrizione del dottore, non sarebbe certamente servito a farla ritornare serena. Anzi. Il suo preside ebbe un ruolo importante e si dimostrò anche persona di raro tatto in quei giorni che sapeva difficili per lei. Egli aveva l’abitudine di farsi vedere spesso nelle classi, come i presidi di una volta, anche solo con un pretesto. Preferiva parlare a voce, piuttosto che mandare circolari e gracchianti comunicazioni con l’interfono che funzionava due volte no e una sì. Lo faceva per le notizie importanti, per comunicare una vittoria di un alunno in un concorso studentesco, per gli auguri prima delle vacanze natalizie o pasquali, per i saluti di fine anno. Lo faceva anche per i compleanni dei docenti. Ma quando sapeva che c’era lei dentro la classe, le faceva un sorriso e le diceva: “Professoressa, può venire fuori un attimo?” Uomo all’antica. Lei lo seguiva. Lui le chiedeva se tutto fosse a posto e le diceva che per qualsiasi bisogno era sempre a sua disposizione. Non erano parole come tante. Eleonora lo conosceva bene. Se diceva così, era veramente perché sapeva di poter compiere quello che diceva. Aveva avuto anche lui le sue prove dalla vita e questo sentimento di segreta condivisione del dolore crea sempre tra le persone una sorta di solidarietà che si manifesta negli sguardi e che non avrebbe proprio nemmeno bisogno di parole. Un giorno non qualsiasi, il giorno del compleanno di Eleonora, il preside, dopo essersi già presentato in aula per farle gli auguri, quando l’episodio della denuncia si era già risolto per il meglio, la incontrò nel corridoio, la vide a testa bassa, con quell’espressione tirata nel viso che Eleonora non sapeva dissimulare quando qualcosa non andava come sarebbe dovuto. Lui capì. Non disse nulla. La invitò in presidenza. Le diede un cioccolatino. Lei chiese se poteva prenderne un altro. Lui le disse: “Se serve a rimettere tutto a posto, tutti quelli che vuole. La vogliamo tutti al meglio.” Cinque minuti dopo la raggiunse in aula e mise la scatola intera sulla cattedra. Un gesto non banale. Tutti avevano saputo di quella triste vicenda e in quella classe, non scelta a caso dal preside, Eleonora era anche particolarmente amata. Il preside volle così dare il contributo che riteneva fosse più utile per sdrammatizzare quanto da poco accaduto; insomma, per far rientrare tutto piano piano nei binari. Non sarebbe stato facile. Non lo fu, infatti, almeno finché quello studente e quella famiglia restarono, come diceva ironicamente il preside solo riguardo a loro, ‘utenza’ dell’istituto. Poteva dunque contare su un sostegno nell’ambiente di lavoro. Ma non era sufficiente. Appena ne usciva, il malessere le saltava addosso; lo faceva con le sembianze del disagio recato da quell’assurda denuncia che aveva radicalmente cambiato la stima che lei aveva fino ad allora avuto di se stessa; lo faceva con le sembianze del senso di colpa per non essere rimasta nella città dei suoi genitori; lo faceva con quel sentimento di ansiosa malinconia che a tutti era ben visibile e che la stava piano piano chiudendo come dentro una corazza.

Ne parlò un giorno con un uomo di sua conoscenza, che ebbe occasione di vedere ad uno spettacolo teatrale. Lui, di nome Enrico, aveva il figlio proprio nella stessa classe dell’alunno i cui genitori l’avevano denunciata. Apparteneva a quella parte maggioritaria della classe, sia di genitori che di studenti, che l’aveva sempre sostenuta. Si raccontarono nell’intervallo la favola di Esopo della canna e dell’ulivo. Fu lui a narrarla: “La canna e l’ulivo dibattevano tra di loro di resistenza, di forza e sicurezza. L’ulivo rinfacciava alla canna di essere debole e di piegarsi a tutti i venti. La canna a questi rimproveri non rispondeva. Un giorno si alzò una violenta tempesta e la canna, benché scossa e piegata dalle raffiche di vento, ne uscì sana e salva senza problemi; ma l’ulivo, che cercava di resistere ai venti, fu sradicato dalla loro forza. La favola insegna che chi non si oppone alle circostanze e alle persone più forti di lui, sta meglio di chi cerca di contendere con quelli più potenti.” Era il genitore di un suo alunno molto bravo. La vita era stata avara di riconoscimenti con lui. Nessuno aveva mai saputo come mai, nonostante la laurea, non avesse trovato di meglio che un posto nella biglietteria del teatro. Nell’intervallo degli spettacoli aiutava anche alla buvette. Eleonora aveva capito che c’era della simpatia in quella persona. E seppe anche restituirgliela. “Ma non mi è mai piaciuto l’insegnamento di quella favola. Sembra un invito alla rassegnazione,” gli aveva risposto un giorno, quando lui la invitò a cena. Fu goffo e impacciato lui nell’invito, non lo fu sicuramente meno lei nel corso di tutta l’inattesa serata. “No. Tutt’altro per me – ribatté lui – A me sembra invece una forte esortazione alla saggezza. Il doversi qualche volta piegare non significa necessariamente soccombere, ma soltanto essere preparati e disponibili a mandar giù alcuni bocconi dal sapore amaro, che servono però da insegnamento, rafforzano le difese e impediscono di commettere nuovamente un errore.” Nacque una così storia. Dal lei si passò al tu senza tanti preamboli, senza la solita richiesta di permesso. Era pur sempre l’insegnante di latino e greco di suo figlio, una delle docenti più severe, temute e carismatiche della scuola. “Mio figlio dice che tu sei l’insegnante più brava che abbia mai avuto. Credimi. Ti adora. E adesso ho capito perché.” Sì, nacque una storia. Ma fu di breve durata. Poco più di un anno. Lui era dolce, affabile, socievole, grande animatore di eventi e uscite. Lei sempre restia ad aprirsi, barricata nelle sue insicurezze, schermata dalle sue difese; amava sentirsi protetta dal suo usbergo. Presto tutto finì nel nulla, in un mare di incomprensioni e paure, di cui Eleonora non capiva la ragione. Di lui seppe che aveva incontrato alcune difficoltà economiche e che aveva cambiato tanti lavori. Poi ne perse le tracce. Le rimase, di quella vicenda, che con il senno di poi avrebbe potuto definire romantica ma poco sentimentale, una sorta di insicura convinzione di essere in sostanza una persona debole; smentiva e affermava a giorni alterni questa strana sensazione, senza riuscire mai a realizzare di se stessa un ritratto esauriente, persuasivo, senza riuscire più a trovare un punto fermo a cui sostenersi per provare a ripartire e a ridarsi lo slancio. “Da una famiglia di gladiatori non può che nascere un gladiatore.” Fu una sentenza emessa da un conoscente, di cui non sapeva neanche il nome, al funerale dei genitori e del fratello. Come si era permesso? Cosa poteva sapere di lei uno che viveva a più di trecento chilometri di distanza? Però, a ben pensarci, che i genitori fossero stati dei gladiatori era vero. E anche suo fratello, rimasto più a lungo in casa loro, aveva dato tantissimo per la mamma, che con gli anni aveva iniziato ad accusare problemi di cuore, che si erano fatti sempre più seri e avevano richiesto cure veramente impegnative. Anche il babbo era stato sempre molto vicino alla mamma, non facendole mancare nulla di cui avesse bisogno, rinunciando veramente a tutto per lei. Sì, quelli erano veramente gladiatori. Meritavano la definizione. Ed Eleonora? Lei se n’era andata. Si può definire gladiatore chi abbandona chi ha bisogno? Si può definire gladiatore chi lascia finire una relazione in cui l’altro aveva fatto di tutto per darle quella felicità che lui aveva capito che esisteva in lei, che andava solo liberata da quella maledetta armatura che soltanto lei, con le sue stesse mani, si era costruita addosso? Quel senso di colpa fu un’altra stoccata, subita con il massimo della vergogna, senza opporre resistenza. E quello faceva male per davvero. Andava e tornava. Colpiva a tradimento. Toglieva il sonno. Impediva il riposo. Trasformava ogni attimo di quiete in tortura. Il dentista disse che aveva finito. Eleonora riaprì gli occhi. Fissò il prossimo appuntamento, senza dire niente, senza manifestare un sentimento, passando come un automa dalla poltrona alla sedia normale per ritirare prescrizione e referto e per pagare. “Tutto bene, signora?” “Sì, sì. Tutto bene.” Anche se era signorina.

Era invece al cinema con una delle sue poche amiche, quando, a occhi chiusi, disinteressata totalmente a quanto veniva proiettato sul grande schermo, su un altro schermo, partì un altro film. Non c’era bisogno di effetti speciali per quello che era iniziato nella sua anima: era il film di un amico, uno come tanti, che aveva conosciuto al mare ad una festa di compleanno con aperitivo sulla sabbia a lume di candela. Quella sera subì il colpo che per la sua anima sarebbe stato davvero devastante; il suo cuore fu trapassato dalla freccia forse più cattiva, proprio perché, alla fine della storia, si sarebbe rivelata solo ammaliante, un fascino superficiale senza sostanza. Ma c’era una riflessione da fare. Il suo carattere dalle sembianze poco affabili e ancor meno socievoli, lo schermo di difese che la faceva apparire fredda e impenetrabile, l’inflessibile severità nell’esercizio del lavoro, il senso del dovere che non accettava mai deroghe, tutto quello che si era costruita addosso con il passare degli anni e che serviva unicamente a celare tutte le sue insicurezze contrastavano, invece, con una bellezza di quelle che nessuno avrebbe mai potuto negare. Insomma, non era il genere di donna di cui si potesse dire che è ‘un tipo’, oppure che ‘ha sicuramente un bel personale’. Di lei si poteva dire senza esitazione che era bella. E basta. Senza ulteriori avverbi o aggettivi, senza quelle perifrasi in un senso o nell’altro, in cui spesso si finisce invischiati e imbarazzati, quando si vuole affermare una bellezza come doveroso complimento ma con poca convinzione. Lei era bella. Senza se e senza ma. E in spiaggia in costume faceva veramente la sua figura. Forse proprio per questo ci andava raramente. Quella bellezza metteva in discussione quel quadro di se stessa che stava prendendo piano piano forma, una forma non bella. Quel quadro, tuttavia, contrastava con una realtà quotidiana che con la bellezza aveva assai poco da spartire. Quell’amico, che conosceva di vista e anche di nome, che aveva incontrato già a qualcuna delle rare feste cui partecipava, le si avvicinò al momento dell’aperitivo organizzato in spiaggia, con i teli romanticamente stesi sulla sabbia. Fu proprio quando il vento le alzò un lembo del copricostume con lungo spacco, denudandole una gamba, che lui le disse che era bella. Non disse altro che “Caspita, quanto sei bella!” Scena da romanzo rosa. Per un attimo le difese caddero, gli schermi si abbassarono, i muri crollarono. Sorrise e solo la luce bassa dell’imbrunire mascherò il suo arrossire. Stettero insieme due anni. Fecero viaggi e vacanze. Lui si era arricchito e lo aveva fatto sicuramente con il duro impegno nel lavoro. Dirigeva un’agenzia di assicurazioni, lavorava veramente tanto e guadagnava quanto dovuto da tanto lavoro. Ma Eleonora non avrebbe mai sospettato che proprio quel luogo di lavoro che le consentiva quella gioia, quei viaggi, quelle vacanze e quel nuovo stile di vita sarebbe invece stato la causa della fine della sua relazione, un altro colpo alla sua vita. Lo seppe da una collega, a scuola, durante l’intervallo: lui era stato visto in intimità con una sua impiegata, un’intimità per lei inequivocabile. La collega non era una pettegola. Al contrario. Fu molto discreta a dirglielo e fece capire di averlo fatto per il suo bene, perché si rendesse conto che quella persona che lei aveva adorato non meritava più la definizione di uomo dei sogni con cui lei ingenuamente lo descriveva a tutti. Eleonora e lui erano insieme in una sala cinematografica, proprio accanto a quella in cui si trovava adesso con l’amica, quando, alla fine del film, lui fece il gesto di prenderla a braccetto, ma lei si staccò bruscamente, si allontanò un po’, si mise a distanza e gli disse a voce bassa, senza guardarlo negli occhi: “So che c’è un’altra. Qui per me finisce tutto.” Non ci fu uno schiaffo. Non ci fu nulla di plateale. Non ci fu reazione. Finì tutto con la stessa rapidità con cui era iniziato. Lui uscì dalla porta di sinistra, lei da quella di destra. Ma Eleonora ebbe da quella vicenda un altro colpo, questa volta non per colpa sua, una sberla le cui conseguenze solo poco dopo avrebbe capito: avevano ultimamente fatto sesso senza precauzioni e lei sapeva di essere nei giorni giusti, il test di gravidanza fu positivo. Voleva abortire. Non ne ebbe il coraggio. Non lo disse nemmeno a lui. Riuscì a non far apparire il nome del padre. Non erano certamente i retaggi della sua educazione a non darle quel coraggio. Era lei che, di fronte alle grandi opzioni della vita, aveva sempre evitato, rimandato, eluso la scelta. Ma quello che non fece lei, fece il destino. Quel bambino, testimone di un amore finito nel modo peggiore, nelle melme del tradimento, prova vivente di una delusione che aveva ferito l’anima in modo terribile, tenuto in grembo nove mesi senza sapere perché, non sopravvisse che pochi giorni al parto per una serie di gravi complicanze respiratorie e questo gli risparmiò sicuramente tante domande imbarazzanti sulla sua nascita. Il film era finito. La sala si era svuotata. L’accendersi delle luci aveva piano piano rivelato due occhi lucidi e una lacrima. Tutti gli spettatori erano usciti. Accanto a lei c’era soltanto l’amica che le mise una mano sul suo braccio e le disse: “Ely, hai bisogno di qualcuno che ti aiuti. Non puoi farcela da sola.” No. Lei non avrebbe chiesto aiuto a nessuno. Lasciò il consiglio non richiesto senza ringraziamento. Seguì per forza d’inerzia l’amica verso l’uscita delle sala, dicendo una delle tante menzogne che costituivano da sempre lo schermo protettivo di quel fortino segreto che era diventato la sua vita: “Bello quel film.” Penetrare in quel fortino da quel momento sarebbe stato praticamente impossibile con le armi di cui la natura umana dispone in questi casi: amicizia, cene in allegria, uscite al cinema, pomeriggi al mare in estate. Nulla sarebbe più contato. Eleonora cambiò, diventando ancora più riservata e ancor meno comunicativa di prima. Il fortino diventò inespugnabile per chiunque.

Gli anni si aggiungevano l’uno all’altro. Quel fiore che era il suo corpo sembrava non appassire mai. La sua bellezza rimaneva intatta. La sua anima continuava a farsi domande senza avere risposte. Era l’ora di ricevimento settimanale. Tanti anni erano passati da quell’ultima delusione sentimentale, senza che avesse mai più osato aprire il proprio cuore per nessuno, rinchiusa in una dedizione al lavoro che era ormai una vita di trincea. Stava leggendo un libro nell’attesa dei genitori, quando si presentò una mamma, mai vista prima. La signora arrivò nel suo angolo di ricevimento con passo lento e quasi guardingo. Eleonora la invitò a sedersi su una delle due sedie dall’altra parte della cattedra. La donna, che Eleonora proprio non conosceva, si presentò: “Sono la mamma di Giusy Regatzu. Mio marito sta arrivando. Non trova parcheggio. Mi ha lasciata qui. Preferisco che ci sia anche lui prima di iniziare a parlare.” La signora teneva gli occhi bassi e le mani nervosamente afferravano e rilasciavano la borsa. Eleonora sapeva solo che Giusy Regatzu, una ragazzina di terza molto brava, ma dal carattere riservato, era figlia unica. Da una settimana era a casa. I compagni di classe avevano detto che aveva l’influenza. Nessun docente aveva indagato. Era dicembre e quelle assenze in inverno non destano certamente scalpore. Oltretutto Giusy non era una ragazza che facesse assenze strategiche. I genitori in tre anni non si erano mai visti. Eleonora non si era meravigliata della cosa. Da quando esistono i registri elettronici e le famiglie possono sapere tutto dei figli, voti, note, assenze e comunicazioni varie, capita spesso che i genitori non si vedano a scuola, soprattutto se i ragazzi non hanno problemi di profitto. Non è frequente, ma può succedere. La signora restò in attesa in quel silenzio carico di nervosismo che cresceva di minuto in minuto. Eleonora provò a parlare di altro, ma la donna non rispondeva. Strana situazione. La tensione che la mamma non tratteneva si trasmise. Eleonora capì subito che quel colloquio sarebbe stato molto particolare, diverso dai soliti. Finalmente arrivò il babbo. Era in sedia a rotelle e si muoveva da solo, senza bisogno di aiuto. La moglie spostò la seconda sedia inutile in modo che il marito potesse avvicinarsi alla cattedra. I due si guardarono e da quell’occhiata arrivò al padre il consenso della madre a parlare. L’uomo accostò la sua carrozzina alla cattedra, trasse un profondo respiro, incontrò per un attimo lo sguardo della moglie, poi quello di Eleonora; poi iniziò a parlare con il tono sicuro di chi aveva meditato a lungo quelle parole, senza nessuna tensione, senza il nervosismo che la moglie avrebbe sicuramente manifestato: “Professoressa, siamo i genitori di Giusy Regatzu, che è ricoverata in ospedale. Da giorni lamentava dolori al bacino e alle gambe. E siccome la patologia di cui soffro, una forma di paraplegia spastica, ha una percentuale di familiarità piuttosto elevata, ci siamo allarmati. Ebbene ieri abbiamo avuto la conferma: Giusy diventerà come me. Per mia moglie è stato un trauma. Capisce che a me spetta il tentativo di tenere in piedi una situazione che di ora in ora si fa sempre più complessa. Giusy è una ragazzina matura e sensibile. E questo può essere un bene e un male allo stesso tempo in questi casi. Non è detto che perda totalmente il controllo delle gambe; potrebbe riuscire a camminare ancora per un po’ con degli ausili, con le stampelle. Non si sa. Per il momento abbiamo la prima diagnosi. Ci fidiamo. Domani sarà visitata da un esperto che è stato fatto venire apposta per studiare il caso. Credo che Giusy per un lungo periodo non potrà seguire le lezioni. Oltre al problema fisico, abbiamo il contraccolpo psicologico da affrontare, nonostante, lo ripeto, la ragazza si stia dimostrando forte.” Eleonora ascoltò senza dire nulla. Intervenne la mamma: “Un colpo che non ci voleva per la nostra famiglia. Noi due ci siamo conosciuti ad una festa in spiaggia e il fatto che lui fosse in carrozzina non ha mai costituito un problema per me. Abbiamo avuto Giusy, consapevoli che avrebbe potuto sviluppare la malattia, che è ereditaria. Siamo arrivati fino a questo punto quasi convinti che ce l’avesse fatta. E invece siamo qua ad affrontare il problema proprio nel momento più difficile, l’adolescenza. Giusy ha un ragazzo, che ha due anni più di lei, e teme di perderlo. La ragazza ha reagito nel modo peggiore: è precipitata in una crisi più per questo che per la malattia … una crisi che a noi sembra davvero brutta, professoressa.” La mamma si era commossa e dovette interrompere di parlare. Eleonora le sorrise senza parlare nemmeno lei. Quante parole stupide e inutili aveva dovuto sentire dopo la perdita dei suoi genitori e del fratello! Fu il marito a riprendere la parola: “Credevo che la mia esperienza fosse sufficiente per aiutare Giusy. Ma siamo qui tutti e due perché la ragazza ci ha detto di venire da lei. Le vuole parlare. Crediamo che Giusy veda in lei qualcuno di importante per la sua vita. Ha molta stima in lei. Noi siamo venuti qui con un obiettivo ben preciso, non solo per il dovere di informarla; siamo qui per chiederle di venire con noi a visitarla in ospedale.” Eleonora trovò alcune parole per rispondere, nel difficile intento di non essere né banale, né scontata: “Lo farò sicuramente. Ora posso solo pronunciare delle parole, che forse non significano niente per voi. Ma quello che mi sento di dire è solo questo: la vita mette sempre alla prova. Bisogna sempre essere pronti. Già per noi adulti non è sempre facile. Per una ragazza di sedici anni lo è sicuramente ancora di più. E conoscendo un po’ Giusy, penso di potermi sbilanciare nel dire che il fatto che sia una ragazza intelligente e sensibile farà sì che capirà presto cosa la aspetta. Quello che nessuno di noi potrà mai prevedere, né voi che siete i suoi genitori, né noi che la conosciamo fuori delle mura di casa, è quale sarà la sua reazione nella lunga durata.” Eleonora aveva pronunciato quelle ultime parole con lentezza e con un tono molto particolare, che per i genitori di Giusy aveva avuto un sapore a metà strada tra la malinconia e il rimprovero a se stessa. E a loro non sfuggì. Eleonora andò a visitare quel giorno stesso la ragazza in ospedale; la trovò irriconoscibile rispetto a quella che vedeva sui banchi di scuola. Non trovava le parole. Aveva paura di apparire commossa. Giusy la ringraziò. La ragazza aveva pianto al suo ingresso in camera e questo non aveva semplificato le cose ad Eleonora. Solo quando i suoi genitori uscirono e le lasciarono sole, la ragazza disse: “Ho deciso, professoressa. Io vorrei fare medicina e combattere fino all’ultimo sangue perché queste cose non succedano più.” Eleonora le prese una mano e le disse: “Nulla ti impedirà di farlo. E accanto a te ci saranno tante persone che crederanno nel valore delle tue scelte.” Doveva dirlo. Non era forse scontata come riflessione? Lei sapeva che era vero quello che aveva detto. Quelle che ad Eleonora sembrarono parole di circostanza furono invece importanti per Giusy. La ragazza non tornò a scuola per quell’anno. Ebbe un programma di istruzione prima ospedaliera e poi a domicilio. La malattia la colpì nello stesso modo in cui aveva colpito il babbo. I medici le consigliarono di evitare la sedia a rotelle e di usare più che poteva le stampelle. Come aveva fatto il babbo, rinunciò a inutili illusioni e cedette subito alla sedia a rotelle, cui era destinata per la vita; e su quella tornò a scuola, festeggiata da tutti in un clima quasi euforico, tanta era l’ansia che si era accumulata nei compagni per quel momento. Ma Eleonora era l’unica che vedeva oltre quella facciata di sorrisi, di feste, di complimenti; era l’unica che sapeva bene che dietro l’angolo c’era sempre nella vita un’insidia. Lo teneva per sé. Ma nei suoi atti, nel suo modo di lavorare, nelle sue sempre più malcelate insicurezze questo aspetto del suo carattere traspariva in un modo che studenti che la vita aveva reso più sensibili, come appunto Giusy, non mancavano di notare. L’episodio importante capitò due anni dopo, prima dell’esame di stato, uno degli ultimi giorni di scuola. Eleonora, che aveva l’ultima ora proprio nella classe di Giusy, aveva deciso di fermarsi in classe. Non si era sentita bene. Aveva accumulato tante cose da aggiornare nel registro, il che non era tipico del suo comportamento sul lavoro, fino a poco tempo prima diligente e scrupoloso. Aveva dormito poco. A tutti era evidente, anche ai suoi studenti, che la sua solitudine iniziava a pesare nella vita con il passare degli anni. Giusy fu l’ultima ad uscire con la sua carrozzina dall’aula e a salutarla. Perché era uscita per ultima? Non lo faceva quasi mai. Spingeva la carrozzina lentamente e non aveva seguito i compagni. Stava succedendo qualcosa. Eleonora era attenta a quei particolari. Dopo un po’ la ragazza ritornò indietro e vide la professoressa con un fazzoletto in mano. “Non si sente bene? Vuole che chiami qualcuno?”. “No, Giusy. Pensavo … Beh, pensavo a te.” “A me?” “Sì. I tuoi genitori mi hanno mandato un messaggio, dicendomi che vogliono che sia io a darti questa comunicazione.” “Ci sono dei problemi per il mio esame? Devo fare prove speciali?” “No. No. Chi ne ha mai parlato? Tu farai lo stesso esame di tutti. Non si tratta dell’esame. Si tratta di qualcosa che ti farà molto piacere.” “Mi hanno preso a medicina!” “Sì, Giusy. Ti hanno preso proprio dove volevi andare tu. Proprio nella facoltà di Milano dove c’è il centro di studio sulle malattie genetiche come la tua.” “Sono felicissima. Sono al massimo della felicità. Ma perché lei piange?” “Non lo so. Ogni tanto piango, ma non so perché. Ti ho mandato per messaggio la comunicazione, che vedrai sul tuo profilo.” Giusy superò con il massimo dei voti l’esame di stato. E, quando anni dopo si laureò sempre con il massimo dei voti, si trasferì altrove per la specializzazione. Ma un giorno, sette anni dopo quel colloquio in aula, che era stato triste ma dai contenuti tutt’altro che tali, tornò a trovarla a casa sua. Giusy scoprì una persona diversa, un’insegnante non solo visibilmente invecchiata, ma anche stanca e sempre più sola, una persona che la vita aveva soltanto deluso, che dalle persone aveva avuto solo amarezza, disinganni e frustrazioni. Insomma, una persona che alle botte nei denti che la vita dà a tutti non aveva mai reagito, che aveva solo incassato colpi, senza mai restituirne. Si presentò a casa sua con un ragazzo, il suo ragazzo, che spingeva la sua carrozzina. Glielo presentò come un suo compagno di corso. Le disse che facevano già ricerca in collaborazione, che vivevano insieme e che, appena possibile, si sarebbero sposati. Giusy non poteva non notare il cambiamento nella sua ex insegnante di latino e greco. Parlò a lungo di se stessa, dei ricordi dei cinque anni di scuola, di quel terzo anno che le cambiò la vita. Ma lo fece senza un accenno di malinconia, senza il minimo tono di malumore o tristezza. Si congedò con una frase che rimase scolpita in Eleonora: “Mi ricordo bene, professoressa. Lei mi disse che nella vita dietro l’angolo c’è sempre un’insidia e che bisogna sempre essere pronti. Sappiamo tutte e due cosa vuol dire. Ma le assicuro che non ci sono solo insidie dietro quell’angolo. Noi non possiamo vedere cosa c’è. Ma, mi creda, ci può essere anche tanta bellezza. Glielo assicuro, prof, ce n’è tanta. Basta volerla vedere. Io l’ho vista.” Pronunciò quella frase all’improvviso, cambiando discorso, mentre stavano rievocando episodi di vita scolastica. Eleonora aveva capito che Giusy su quella frase doveva aver lavorato tanto in tutti quegli anni. Ebbene: quella frase, scagliata con la sicurezza che un arciere sa di dover imprimere al suo tiro, colpì il bersaglio in pieno.

Quelle parole ebbero il potere di rigenerare qualcosa che era rimasto come assopito in quegli anni blandamente lasciati passare. Lei che aveva temuto solo insidie dietro l’angolo, ora cercava di convincersi che ci potesse essere anche qualcosa di diverso, forse intrigante, chissà, anche interessante. Riprese a frequentare vecchie amicizie. Decise di fare quello che da una vita sognava: mettersi a scrivere. Pubblicò in quegli ultimi anni di servizio anche dei libri di narrativa, dei romanzi brevi che prendevano sempre spunto dalla sua esperienza di lavoro a contatto con i giovani, libri che furono anche apprezzati dalla critica. Fu così che entrò anche nei social network con quell’atteggiamento e quell’aspettativa che ha la maggior parte delle persone della sua età: ritrovare vecchi compagni di scuola, vecchie amicizie, vecchie conoscenze. Non diventò certo una dipendenza la sua. Era quello che temeva. Le piacque iniziare a chattare con vecchie conoscenze. La sua vita si riaprì, quando a queste ultime si iniziarono ad aggiungere gli ex alunni. Tanti la ricordavano come una brava insegnante. Tanti le fecero saluti pieni di belle parole. E tra questi non mancò Giusy Regatzu che aveva una gran bella foto del profilo, una di quelle che, come dicevano i suoi studenti, ‘spakkavano’: era insieme al suo ragazzo che spingeva la sua carrozzina sul bagnasciuga di una spiaggia, tenendo il mano il filo un grande aquilone. Che coincidenza! Proprio a Giusy era ispirato l’ultimo romanzo che aveva pubblicato e con il quale, su esortazione di vari amici e colleghi e di alcuni suoi lettori, aveva deciso di partecipare a un concorso nazionale; lo aveva fatto senza convinzione, come gran parte dei gesti della sua vita, per mettere amiche, colleghe e conoscenti sostanzialmente a tacere, per dar loro una soddisfazione, convinta che nessuno avrebbe nemmeno aperto quel file allegato alla mail con cui aveva inoltrato la richiesta di partecipazione.

Eleonora era a casa in malattia, oltre che in vacanza. Mali stagionali. Proprio nelle vacanze di Natale! Con il passare delle stagioni sembrava che il suo corpo non si fosse affatto indebolito e quella percezione di compiuta maturità nella bellezza evitava a molti di farle domande sul resto a cui non avrebbe saputo rispondere; la sua vista era calata e un giorno l’oculista le aveva prescritto quegli occhiali, con cui ora riusciva a celare meglio alcuni sentimenti che le espressioni del viso spesso non riuscivano a dissimulare. I capelli si erano preziosamente inargentati. Dall’acero del parco condominiale cadevano le ultime tenaci foglie. A letto con l’influenza, aveva deciso di passare il tempo leggendo, scrivendo, ma anche stando sui social, su cui le notifiche di richieste di amicizia stavano aumentando, segno del fatto che era vero quello che le disse Giusy, cioè che per la vita non era mai tardi dischiudersi al bello e riassaporare quei sentimenti del rapporto con gli altri che lei aveva chiuso con un grosso lucchetto per troppi anni. Ebbe in quei giorni di vacanza, poco prima di Natale, una richiesta di amicizia da un certo Enrico. Si era appena svegliata. Era ancora a letto. Era lui? Era quell’Enrico? Non c’era la sua foto come immagine del profilo, ma un paesaggio di campagna. Quando si arriva a una certa età tanti evitano foto personali. Andò allora nel profilo, come era solita comportarsi prima di concedere l’amicizia. E vide alcune foto in cui era presente proprio lui. Ed ebbe la conferma. Erano foto di anni diversi. L’avvicendarsi delle stagioni aveva lasciato il segno anche su di lui. Ma sì, era proprio lui, era quell’Enrico. Esitò. Riguardò ancora le foto. Ritornò sulla pagina di accettazione dell’amicizia. Esitò ancora. Chiuse il telefonino. Chiuse gli occhi. Sospirò più volte. Il cuore sembrava volerle salire in gola. Un accenno di ansia non poteva mancare. Era normale. Inspirò ed espirò. Poi riaccese il cellulare. Senza esitazione accettò l’amicizia e all’istante arrivò un messaggio in chat: “Ciao, Ely. Come stai? Tu non lo sai. Sicuramente non te ne sei accorta. Ma da un po’ di tempo passo da casa tua tutti i giorni. Ci passo quando tu sei al lavoro. Ma ci passo tutti i giorni. E mi farebbe molto piacere rivederti. Sai, passo proprio tutti i giorni da casa tua.” Non rispose per diversi giorni. Si chiese cosa significasse quel passare tutti i giorni così tanto ripetuto nel messaggio. Quel 30 dicembre dopo giorni di febbre era il primo in cui stava un po’ meglio. C’era sempre quel messaggio che era rimasto senza risposta. Fare centro con le parole giuste: quante volte aveva incontrato difficoltà nel trovarle! A voce era difficilissimo. Ma per iscritto si sentiva più a suo agio. Anche per questo scriveva. “Ciao, Enrico. Che bello rivederti! Sto bene. E tu?” Il messaggio fu inviato alle nove e trenta. Quando la medicina fece i suoi effetti e le ebbe fatto passare il mal di testa, decise di scendere a prendere la posta. E trovò una busta con l’intestazione di quel concorso a cui aveva partecipato per scherzo. Non poteva essere che uno scherzo. Oppure non era uno scherzo, ma una comunicazione della giuria del concorso; pensò sulle prime ad un ‘mi dispiace, riprova e sarai più fortunata’. L’aprì. E allora veramente non credette ai suoi occhi. Non ci credette perché nella vita non ci aveva mai creduto, perché era vissuta sempre chiusa in una corazza, era diventava sempre più algida dietro ad uno schermo sempre più impenetrabile. E invece … Le parole di Giusy e lo spirito fiducia nel tempo. E anche la favola di Esopo della canna e dell’ulivo. Primo premio. Seguiva la motivazione: era lunga e si parlava di “profondità delle riflessioni sul delicato tema della malattia”, di “capacità di proporre con la vicenda della protagonista una visione e un modello sicuramente non convenzionali della vita”, di “sentimenti forti ma sempre contenuti dalla dolcezza dello stile in cui sono espressi”, di “originalità della struttura compositiva e dello stile espressivo, non privo di ironia”. La frase di Giusy era sempre rimasta scolpita, benché inascoltata per tanti anni. La ragazza aveva avuto ragione: non ci sono solo insidie dietro l’angolo.

Fu allora che nella sua mente all’improvviso scattò un meccanismo. Le sembrò che si fosse illuminato un filo, come quelli delle luminarie che di sera rallegrano quella strada di periferia. Pensò a quell’aquilone e di nuovo a Giusy. Pensò a quella foto di profilo della ragazza. Aveva con sé il cellulare. Chiamò all’ufficio postale. Voleva sapere chi si occupava dei portalettere. Le rispose una voce sbiadita, un po’ assonnata e senza dubbio antipatica, la voce comunque di chi stava masticando qualcosa: “Cosa vuole sapere? Non ho capito; si spieghi meglio, per favore … Ah, adesso ho capito … Non ricordo esattamente. So che è nuovo, ma non è giovane. Anzi. Non è nemmeno nuovo. Va e viene. Non so se potrei darle questa informazione sul nostro personale. Posso dirle che gli abbiamo dato quella zona perché l’ha chiesta lui. Voleva assolutamente quella zona. Per noi una vale l’altra. Credo si chiami … aspetti, ecco qua: Federico. No, forse non Federico. Aspetti. Forse Enrico … Boh … Aspetti che controllo … Sì, le confermo: il portalettere della sua zona si chiama Enrico Bordin. Ha bisogno di qualcosa in particolare, signora? Ha combinato qualcosa il portalettere? Le ha perso della posta?” “No. No. Niente. Era solo una mia curiosità. Nessun problema. Grazie mille.” “Niente, si figuri. Allora non mi resta che augurarle di passare una felice fine d’anno, signora.” Eleonora aprì la porta. Si affacciò sulla strada. Da una via laterale vide la bicicletta gialla. Il portalettere variopinto, vestito di giallo, sulla bicicletta gialla, con il buffo passamontagna nero e i guantoni bianchi da sci era appena apparso da dietro l’angolo e stava tornando indietro. Stava venendo nella sua direzione. Eleonora pensò per un attimo, finalmente, a quello che di bello la sua vita aveva avuto: pensò a Giusy, al romanzo, al premio. E poi ebbe un ultimo pensiero. Banale. Come tutto. Aveva sempre considerato tutto banale, senza andare oltre, per paura di quello che sotto quella banalità poteva celarsi. Ebbene. Quello che aveva aspettato da una vita era lì. Un banale, goffo, impacciato portalettere con un passamontagna nero e un paio di guanti da sci, che lo rendevano un po’ buffo. No, buffo era parola banale. Ma era tutto giallo nella nebbia grigia: quello forse non era banale, come non lo era la favola che le raccontò anni prima e neppure la foglia d’acero che era uscita dalla sua borsa. E pensare che era proprio lì. Dietro l’angolo.

La Setta delle Trame oscure

Aveva scelto proprio le più belle. E lo aveva fatto con singolare puntiglio. Raramente un uomo, una volta entrato nel mio negozio di fiori per scegliere delle rose da regalare, le aveva selezionate così attentamente, così meticolosamente, con un’acribia che io fraintesi e immaginai addirittura che fosse stata studiata quasi per mettermi alla prova. Alcune donne del paese avevano usato una tale diligenza per delle confezioni, mai per i fiori. Ma uomini, mai. E, a dir la verità, neanche le donne erano mai state così attente ai fiori. Lui mi aveva soltanto chiesto: “Mi raccomando: che siano una gialla, una bianca e una rossa!” Poi non aveva più detto niente fino al momento dell’uscita, quando dalla porta mi salutò. Nel momento della meticolosa scelta guardò il gambo, i petali, mise le rose una accanto all’altra, le osservò da ogni lato, ne scartava una, ne sceglieva un’altra, la scartava di nuovo, le guardava ora con perplessità, ora con insicura ammirazione, ora con maggiore convinzione, senza mai farmi capire se alla fine fosse stato veramente convinto della decisione definitiva. E poi la confezione! Difficilmente mi è capitato un cliente così esigente nella richiesta della confezione un dono costituito da un mazzo di rose. Ogni dettaglio voleva che fosse curato con la stessa meticolosa diligenza con cui le rose erano state dapprima selezionate. Non dissi nulla e feci tutto quello che mi chiedeva. Uscì comunque dal negozio visibilmente soddisfatto, lasciandomi un’emozione poche volte provata. Era evidente che il regalo era di quelli importanti. Sembra quasi paradossale che lo abbia dovuto confezionare proprio io; ne capirete la ragione proseguendo. Quanto a lui fu l’ultima volta che lo vidi, credo. Fatemi pensare. No, non l’ultima. La penultima. Era sicuramente giugno, il mese in cui le rose danno il meglio di sé.

C’è anche un contesto in cui la vicenda si svolge: un paese, un tempo più isolato, oggi inglobato nel suburbio della vicina città. Uno dei tanti piccoli centri dove non dovrebbero esistere segreti; e invece pullulano di dicerie. Il mio paese è piccolo, infatti. Le notizie qui girano velocemente. Purtroppo girano spesso male. Qui lo sappiamo tutti che girano male, ma nessuno ha mai fatto nulla perché questo non accadesse. Anzi. Sembra che ci sia una specie di gioia perversa nell’aggiungere chi questo chi quel particolare seducente, intrigante, più o meno misterioso, il più delle volte malizioso, talvolta anche proprio cattivo. Insomma, uno di quei tanti piccoli centri in cui entri da una strada facendo uno starnuto, percorri il paese non sapendo che quello starnuto è già tema di una narrazione con innumerevoli varianti, esci dalla strada opposta e già ti restano pochi giorni da vivere. Lui poi! L’uomo delle rose? Dava adito alle voci con una facilità quasi disarmante, tanto che spesso mi sono chiesta se non lo facesse quasi per divertimento, se non fosse per lui, che io sempre ho giudicato di levatura tanto superiore alla media da non meritare questo paese, una specie di gioco per studiare i nostri comportamenti. Ero convinta allora – ma ora so che mi sbagliavo – che lui si sentisse addirittura in certo senso superiore a noi. Come si faceva a non far girare voci su di lui? Eravamo proprio preda di una specie di malessere collettivo quando le sentivamo, ma nessuno di noi ha mai fatto nulla per fermare quella che in casa mia, e non solo, chiamavamo la potente Setta delle Trame oscure; nessuno di noi si è mai chiesto quale fosse il limite oltre il quale il troppo stroppiava; nessuno di noi lo hai mai veramente difeso, forse anche perché nessuno lo ha veramente attaccato, perché nessuno di quelli che hanno fatto girare le allusioni più maligne, gli adepti, appunto, della Setta delle Trame oscure, ha mai osato affrontarlo a tu per tu. Dimostrazione del fatto che, alla resa dei conti, lui era veramente superiore a noi, benché ora possa dire che tale non si era mai sentito.

E il giorno delle rose? Fu sicuramente quello che di voci ne generò di più, anche se furono una specie di canto del cigno, come comprenderete se riuscirete a seguirmi fino alla fine. La ragione non è facile da spiegare, perché per essere intesa richiede che si abbiano gli strumenti per comprendere che in un mondo così cambiato – globalizzato, dicono quelli che vogliono fare bella figura – non esiste soltanto la mentalità della città e quella del piccolo centro, ma esiste anche tutto un campionario di sfumature intermedie che sfuggono a ogni tentativo di classificazione. Ebbene, lui era proprio una di queste sfumature. Per tutti noi, senza ombra di dubbio, la più difficile da incasellare. E proprio per questo ogni nuova voce che circolava aveva l’effetto di una bomba a deframmentazione, esplodendo in una miriade di piccole voci, di maliziosi detti e non detti, che più facevano male a chi li sentiva, più favorivano il perverso malvezzo di trasformare un piccolo pisello secco in un grande cocomero. E la Setta delle Trame oscure, indefessa, agiva sempre con professionale alacrità, colpiva con chirurgica precisione, tacitava tutto con misteriosa protervia.

Nessuno ha mai capito se l’uomo delle rose si curasse o no di quelle voci. Era impossibile che non fossero mai pervenute a lui. Eppure non ha mai dato adito a nessun sospetto su questo. La sua vita procedeva, per quel che appariva a noi suoi vicini, tutto sommato, tranquilla. Se solo al bar avesse un giorno fatto una battuta ironica su se stesso, forse avrebbe tacitato in un attimo le voci e sgonfiato quel pallone, tutto pieno soltanto d’aria, che veniva alimentato dalla Setta delle Trame oscure. Al bar raramente si vedeva. Il paese ha quattro centri di aggregazione, tutti con il loro bar, tutti politicamente connotati e marchiati, secondo un’antica e consolidata tradizione che pochi di noi ormai comprendono, ma nessuno osa interrompere: il bar dei repubblicani con relativo circolo, al quale mi sono ritrovata iscritta, perché lo erano i miei genitori; quello dei comunisti con relativo circolo, al quale si è ritrovato iscritto il mio ex marito, perché lo erano i suoi genitori; la chiesa con relativo gruppo parrocchiale, che ha frequentato il mio ex compagno, incurante delle ire del parroco per la sua convivenza more uxorio con me; e il centro sportivo con relativo circolo, di cui sono soci i miei due figli, che praticano calcio. L’uomo delle rose era l’unico che si vedeva indifferentemente dappertutto, raramente a dire il vero; ma, quando si vedeva, appariva in conversazione con tutti, senza quelle settarie distinzioni che qui si fanno abitualmente da decenni. Chi frequentava il bar dei repubblicani ed era iscritto al circolo, non poteva frequentare né quello della chiesa, né quello dei comunisti. La stessa cosa valeva per gli altri. Un discorso a parte merita il centro sportivo. Lì veniva operata una specie di selezione della parte giovane del paese: era un punto di aggregazione decisamente più ‘democratico’, anche se affiliato al circolo dei repubblicani, forse perché qualche centesimo si riusciva così a spillare dalla città; ne facevano parte il campo da calcio con la squadra di dilettanti che aveva la sua struttura sociale, l’associazione ciclistica con la sua struttura sociale, i due campi da tennis con un maestro e un piccolo circolo. Quanto poi alle affiliazioni e ai marchi, ogni tanto, quelli di noi che lavorano in città, quasi tutti a dire il vero, ci ricordano che i comunisti e i repubblicani non esistono più e che ci sono altri partiti nella vita politica nazionale, che la storia è andata un pochino avanti, che ci sono stati dei cambiamenti nella politica. Lo sappiamo. Il giornale, magari solo quello, arriva anche da noi e al bar qualcuno lo legge. La televisione si guarda e sui social ci siamo quasi tutti dai quaranta/quarantacinque in giù. Ma alla fine ci riveliamo tutti tanto conservatori e tradizionalisti che quei due bar con il loro marchio vintage qui da noi sono ancora chiamati così: il bar del comunisti e il bar dei repubblicani. E credo che lo saranno almeno fino al prossimo cambio di generazione. Ma torniamo all’uomo delle rose. Come si rapportava a questa socialità sicuramente diversa da quella che vedeva e in parte viveva in città? A modo suo. Lui giocava a tennis e usciva con i cicloamatori. Non sembrava che il calcio lo interessasse più di tanto. Ma se gli andava di bere un caffé, non faceva distinzione tra il bar del centro sportivo, quello della parrocchia, quello dei repubblicani o quello dei comunisti. Non poteva non sapere che, dietro quelle etichette e quella facciata, c’era una trasversalità perversa di interessi circolari, di favori reciproci, di relazioni tra famiglie, di debiti morali e non; non poteva nemmeno non sapere che uno poteva sempre aver bisogno dell’altro, a prescindere dalla tessera del circolo che pagava ogni anno, perché quella tessera era quella che aveva pagato suo babbo e quella che aveva pagato suo nonno. Anche la Setta delle Trame oscure viveva di questa trasversalità ed era come se ciò che sottovoce veniva detto ad un tavolo del circolo dei repubblicani, nel momento stesso in cui veniva sentito, fosse già noto in quello dei comunisti. Il mio ex compagno scherzando con una simpatica iperbole mi diceva che Mossad, Kgb e Cia mandavano qui i loro agenti a svolgere i corsi di aggiornamento.

Abitava in una piccola villetta a schiera, nello stesso complesso in cui vivo anch’io con la mia famiglia. Quanto alla sua origine, chi diceva fosse arrivato dalla Lombardia, chi dal Veneto; anche su quello le voci si moltiplicarono fino al punto che presto non mancò chi sostenesse, ovviamente sempre prove alla mano, che venisse addirittura dalla Sicilia. Perché? Si chiamava Vito. Le famose schiaccianti prove alle mano. Il cognome però metteva davvero agitazione, dubbio, scompiglio: Derossi. Hanno cercato su internet, su Facebook, ma ne hanno trovati talmente tanti e in talmente tanti luoghi diversi e lontani tra di loro, che il cognome, se non mise propriamente in crisi la ricerca anagrafica, contribuì nondimeno ad alimentare il mistero. Pur tra tanti indigeni, non era certamente l’unico allogeno. C’era chi veniva dal Friuli, chi dalla Campania, chi dalla Sardegna, chi dall’Africa, chi dai Balcani. Ma questi allogeni lavoravano nelle aziende degli indigeni e, seppur a modo loro, respiravano un’aria diversa. Vito Derossi, quell’aria, sembrava quasi che non la respirasse.

Ogni mattina si alzava e andava in città a lavorare. Era insegnante di musica, con una laurea in lettere. E anche questo per il piccolo paese, abitato in gran parte da agricoltori, artigiani e operai, era un caso. Non era certamente l’unico laureato che vivesse da noi, ma in lettere e di sesso maschile c’era solo lui. Abbiamo avuto, tra i numerosi allogeni che si sono inseriti tra noi indigeni, anche una maestra che veniva dalla Puglia, arcigna e zitella, cattiva come il fiele, acida più di un limone acerbo, matrice delle più maligne e perverse dicerie su tutto quanto non facesse parte della monotona routine, in cui lei stava evidentemente benissimo. Abitava non lontano di qui, appena fuori del paese, in una casa ereditata da zii che erano contadini, anche loro immigrati, allogeni; ha abitato quella casa isolata per alcuni anni, finché un automobilista, che aveva alzato il gomito già alle undici del mattino – da queste parti situazione tutt’altro che rara – non la investì proprio davanti a casa, di domenica mattina, di ritorno dalla chiesa, relegando nel camposanto una vera enciclopedia di gratuite calunnie. Viveva anche lei da sola. Su di lei, tuttavia, voci zero. E anche questo è ben curioso. Se una donna vive da sola, è cosa che non desta interesse più di tanto in un piccolo paese come questo. Ma un uomo, laureato in lettere, che vive da solo, agita le più diverse fantasie. Da sua vicina di casa mi sono posta spesso la domanda. Non ho mai avuto una risposta. Era sempre gentile, educato. Oserei sbilanciarmi: era davvero un bell’uomo. Usciva sempre elegante. Sono convinta che dedicasse ore alla ricerca dell’aspetto migliore. E mai due giorni di fila con lo stesso capo d’abbigliamento addosso. Ne sfoggiava sempre di nuovi. C’era sempre un tocco di classe. Insomma, roba non da paese. Beh, credo mi possiate se capire se ammetto di aver avuto una certa attrazione per il professor Vito Derossi.

Non posso a questo punto non parlare dell’auto, non foss’altro perché, prima di tutto, come vicina di casa, la vedevo spesso parcheggiata in strada in prossimità del mio cancello, in secondo luogo perché anch’essa fornì ampio materiale alla Setta delle Trae oscure. Era una vecchia Fiat 600, auto d’epoca: immatricolazione nel gennaio 1956. Il primo modello, quello con la maniglia nella parte anteriore dello sportello. La teneva con una cura maniacale. Aveva un garage pieno di pezzi di ricambio; se li scambiavano gli appassionati di quelle auto antiche. Pensate un po’! L’invidia del paese, o meglio di quella parte più coinvolta nelle attività della Setta delle Trame oscure, era arrivata al punto che alcuni erano convinti che Vito Derossi avesse una sorta di perversa e quasi feticista passione per quell’auto. A me sembrava solo bella, veramente bella, una vecchia elegante signora della piccola borghesia, un simbolo di una pagina della nostra storia sempre bella da raccontare, un’auto sempre ricca nel suo apparire in pubblico di quella dignitosa perfezione che era il marchio del nostro professore: l’auto più idonea, più, come dire, congruente e coerente con la persona che vi saliva alla guida, per chi vedeva spesso lui e vedeva altrettanto spesso la sua auto. “Un dandy fuori tempo massimo”, lo definì un suo ex collega. Una buona definizione, credo. Sarà stato anche fuori tempo massimo, ma, vi confido, a me piaceva proprio.

Gli insegnanti lavorano al mattino, hanno solo diciotto ore alla settimana, hanno tutti i pomeriggi liberi, hanno tre mesi di vacanza, anzi, quattro, se ci mettiamo vacanze natalizie, pasquali, morti, santi e patroni. Le solite cose che si sentono ovunque. La Setta delle Trame oscure ci sguazzava in questi luoghi comuni. Eppure lui, in media tre giorni alla settimana, tornava a casa per l’ora di cena. Mio figlio ha frequentato quella scuola e sapevo perché avesse quegli orari: ricopriva a scuola diversi incarichi aggiuntivi e per alcuni anni fu anche vicepreside. Ma, per quanto questo fosse vero nel modo più sacrosanto, non era sufficiente a convincere gli adepti della Setta delle Trame oscure, sempre depositari del dogma unico. Aveva di certo i suoi oscuri intrallazzi. Chissà cosa fa tutto quel tempo! Quando un anno si seppe che era stato candidato alle elezioni comunali, in paese la Setta delle Trame oscure lo fece diventare subito il frequentatore di una potente loggia massonica. Per un po’ girò persino la voce che in casa sua si sentissero voci di riunioni segrete di un gruppo di cui sarebbe stato il capo, come se da framassone – in città lo sono in tanti – fosse diventato una specie di eresiarca o di santone; in realtà, nessuno aveva mai sentito niente; si vedeva una luce accesa a lungo, anche fino a ore piccole, perché Vito Derossi ogni tanto dava alle stampe un libro, scriveva, aveva la sua piccola cerchia di lettori e appassionati, in città ovviamente, perché qua riuscire ad andare oltre le pagine della cronaca locale del giornale è veramente un’impresa e persino la lettura della cronaca di un incidente risulta spesso complessa da interpretare. Da casa nostra lo vedevamo, soprattutto nei mesi estivi, quando stava con la finestra aperta, senza assolutamente alcun segreto da nascondere; era seduto nel suo studio, al computer. E scriveva. Ma era troppo forte la tentazione degli adepti della setta: secondo loro lo faceva – intendo il tenere la finestra aperta e il farsi vedere al computer – per creare un diversivo, sentenziò uno al bar dei comunisti; era una controfigura messa lì apposta per ingannare i vicini, era arrivato persino, quasi teneramente, a dire un giorno un ragazzo, vittima forse di un’overdose da serie tv, in una riunione del gruppo in parrocchia. E dire che era uno dei pochi in paese che leggessero, quel ragazzo. Leggeva le cose sbagliate, evidentemente.

Nessuno lo aveva mai visto con una donna. E qui il gioco si fa duro … Se l’avesse avuta, non sarebbe circolata – ne sono assolutamente convinta – alcuna voce su questo fatto. Del suo passato nessuno sapeva niente. Per me era impossibile che non avesse avuto alcuna storia prima di arrivare qui e non era credibile che l’unico oggetto di adorazione fosse un’auto antica. Non entro nei dettagli, perché mi fa veramente ribrezzo il livello a cui la malignità del paese era arrivata su questo aspetto. Parlarne farebbe del male a lui, a me, alla mia famiglia e a tutti quelli, che in città erano tanti, qui no, che gli avevano voluto veramente bene. Mio figlio, infatti, mi diceva che era stimato come insegnante, che i suoi studenti lo ritenevano una persona che svolgeva con serietà il proprio dovere. Era bravo, insomma. E il fatto che lo fosse fece sì che molti genitori iniziarono presto a chiedergli di prendere a lezione i propri figli, nonostante abitasse a sette chilometri dalle prime case della città. Dava lezioni private di materie letterarie, ma soprattutto dello strumento in cui era diplomato, il violoncello. E questa fu la goccia che fece traboccare il vaso. Sì. Proprio così. Quei ragazzi e quelle ragazze che entravano e uscivano da quella porta furono veramente, per me, la causa di un’escalation di malignità che superò ogni decenza. Quelle note dolci e ovattate, quelle armonie così diverse dai gusti musicali dei più, iniziarono a favorire in paese le più perverse fantasie. Nel piccolo paese non esiste persona senza peccato che si debba esimere dallo scagliare la prima pietra. Qui tutti arrotondano lo stipendio con attività anche in nero, chi in un modo, chi in un altro; ma lo fanno con le mani; lui lo faceva con la testa e per di più non lo faceva neanche in nero. Loro lo fanno producendo manufatti, lui dando qualche lezione. E in più, oltre a suonare e insegnare violoncello, produceva testi narrativi e componeva per il suo strumento, spendendo sicuramente per una passione eterna più tempo di quanto loro ne usassero per un lucro effimero. Ma era un’attività inconcepibile, non era un lavoro, al massimo poteva essere per loro un dolce hobby; insomma, anche quello dava fastidio e anche su quello la Setta delle Trame oscure riuscì a produrre calunnie a iosa. E questa era l’unica, ma determinante, differenza: il fatto che lui lo facesse con la testa, gli altri con le mani, era come se da sotto scuotesse le acque di un mare già mosso, docile a essere ulteriormente agitato, le increspasse e con la sua corrente le accelerasse piano piano, fino a farle diventare uno tsunami che inondasse e devastasse tutto: questo ha un nome e si chiama invidia. E la Setta delle Trame oscure lavorò con la massima alacrità per dare una forma a quest’invidia. Nessuno disse mai nulla. Si accennava con malizia. Si usava la tecnica del detto e non detto, del coltello appoggiato al collo che sfiora la pelle senza ferirla. Nessuno lasciò mai nulla di scritto. Nessuno fece mai post diretti sui social. Ma le allusioni non mancavano. E se a me facevano male, figuriamoci a lui, che sicuramente non poteva non sapere!

Eppure … Sì, nella vita ci sono sempre dei se e dei ma che fanno la differenza. E per fortuna! Eppure, sì: sapevo una cosa che il paese, credo, non ha mai saputo. Sapevo che la mamma di una di quelle ragazze, che andavano da lui a lezione di violoncello, una sera si presentò a casa sua, poco prima dell’ora di cena. L’avevo vista due ore prima accompagnare la figlia nel corso del pomeriggio. Indossava un bel vestito corto e generosamente scollato, era elegante e pettinata con una chioma di capelli neri e lisci raccolti in una coda di cavallo alta e lunga. Era l’immagine della più naturale e dolce sensualità intesa alla seduzione. Sono sicura di averla vista solo io e credo che sia rimasta lì a lungo. Vidi bene che lui la accolse con un bacio sulla porta di casa. Fu quella l’ultima volta che lo vidi. La mattina dopo l’auto non c’era più. L’episodio si era verificato qualche settimana prima di quella sua visita in negozio per ordinare la confezione di rose. Arrivò l’estate. E in estate la Setta delle Trame oscure lavora meno. C’è chi fa viaggi, chi ha la seconda casa al mare, chi in montagna, chi va dai parenti che abitano lontano, chi è più preso dalle attività agricole. Il centro sportivo chiude e restano in funzione solo l’affitto dei campi da tennis, poco richiesti, e di quello da calcio, ancora meno richiesto, se non per i due giorni della sagra paesana. Il gruppo parrocchiale sospende le riunioni. Stessa cosa i circoli del bar dei comunisti e dei repubblicani: anche loro in estate si mettono in pausa. La Setta delle Trame oscure, l’unica che unisce in modo trasversale le quattro conventicole, ha meno materiale, insomma, su cui operare e soprattutto meno risorse umane e professionali da tenere in servizio.

Per questo o quel motivo, credo che nessuno si sia accorto che la villetta era rimasta chiusa a lungo e che la Fiat 600 bianca fiammante, anno 1956, non c’era più. E solo ad anno scolastico iniziato si sarebbe saputo che non lavorava più nella sua scuola in città. Le voci ripresero allora ad un ritmo forsennato. La sua assenza scatenò una vera ridda infernale. Tutto quello che era rimasto per anni sopito e represso si scatenò alla luce del sole e sui social apparvero non più allusioni, ma frecciate dirette. L’invidia prese la forma di una malevolenza e di una cattiveria di cui, a onor del vero, non avrei ritenuto mai capace il mio paese. A tanto era arrivata la potenza della Setta delle Trame ormai non più oscure.

Quelle tre rose adesso spiegavano tutto. E quell’auto che era arrivata poco prima delle otto di sera, la bellezza di quella figura femminile apparsa come per incanto, una specie di angelo inviato per salvarlo da questa poltiglia fangosa di calunnie, quel bacio sulla porta, i sorrisi, il sentimento diffuso di dolcezza e tenerezza che la situazione creava in me e poi il silenzio che avvolse la casa quella notte, senza la luce dello studio accesa fino a tardi, come quasi sempre avveniva … ecco, questi frammenti di memoria sono l’unica motivazione che riesco a dare di quelle tre rose, la confezione più bella, elegante e raffinata che in tanti anni abbia mai realizzato. Averla creata con le mie mani per la persona più bella, elegante e raffinata che questo paese abbia avuto adesso mi rende fiera. Non ebbi più notizie di Vito Derossi. Nessuno in paese ne ebbe più. La Setta delle Trame non più oscure poteva agire allo scoperto. Un giorno vidi quello che tutti ne ritenevano il capo, solo per il fatto che era l’unico ad avere la tessera del circolo del bar dei comunisti e contemporaneamente un figlio che frequentava il gruppo parrocchiale. Basta poco qui per fare carriera. Lo vidi al bar dei comunisti, mentre facevo colazione in attesa dell’orario per aprire il negozio. Il bar era proprio accanto al mio negozio. Per quello ci andavo. Se ci fosse stato quello dei repubblicani, dei leghisti, dei fascisti, dei cattolici integralisti, del circolo della corsa nei sacchi o delle biglie, ci sarei andata lo stesso. Non sapevo assolutamente niente di quale fosse il destino di Vito Derossi, ma, quando vidi formarsi attorno a quell’uomo un crocchio di persone e sentii pronunciare spesso il suo nome, quando avvertii nei volti e nelle parole il ben noto clima di cattiveria gratuita che si era presto generato al solo nominarlo, quando mi resi conto di essere mio malgrado parte di un indecente spettacolo di menzogne, allora misi il freno ai nervi tesi, rimasi fredda, stetti al gioco e dissi la prima cosa che mi venne in mente. Fui diretta, impulsiva. Mi associai al crocchio riunitosi al bancone del bar e dissi: “Vito Derossi si è sposato e si è trasferito in un’altra città. Ha avuto un buon successo editoriale con il suo ultimo libro e aveva bisogno di risiedere vicino al suo agente.” Nulla era vero di quello che dissi, anche se il mio auspicio era che lo fosse; e non so sinceramente come mi sia venuta la forza per dirlo, forse per il disprezzo verso quella che ancora oggi chiamo la Setta delle Trame oscure, in realtà non più tali. Nulla era vero, come nulla era vero di quello che loro avevano fino ad allora divulgato, prima sommessamente e in modo subdolo, poi dichiaratamente e in modo esplicito. In quel piccolo mondo di menzogne cattive poteva anche starci una grande menzogna buona. La potente Setta delle Trame un tempo oscure avrebbe potuto adesso prendere la mira e aggiustare piano piano il tiro contro un altro bersaglio. Ma questo a me non interessa più. Non è quello il genere di umanità per cui amo confezionare i miei fiori. Una cosa, questa vera, posso dirvela: credo di essermi innamorata di lui quando eravamo vicini di casa. Mi tremavano le mani quando confezionai quelle tre rose. E leggevo i suoi libri; l’ultimo che Vito Derossi aveva scritto prima di lasciare il paese, una raccolta di racconti, mi ha talmente colpito con i suoi riferimenti realistici a questa specie di cloaca che qualcuno osa chiamare centro abitato, che lo conservo gelosamente. Si ritrovano tutti i personaggi, i gruppi di varia natura, le maldicenze di ogni genere, le calunnie più o meno subdole, quella pericolosa miscela di ignoranza e benessere economico che le innesca con grande facilità. Sapeva tutto, in ogni dettaglio. Era a conoscenza di tutti i piani e di tutti i movimenti di quella che in casa mia era sempre stata chiamata la Setta delle Trame oscure. Li conosceva tutti, uno per uno. Li avrebbe potuti smascherare tutti, ma si è tenuto sempre fuori dai giochi. Ebbene, il primo racconto di quel libro inizia con un uomo che entra in un negozio di fiori, in un piccolo centro abitato della benestante provincia padana, e si fa confezionare tre rose. A parte il fatto che nel racconto tra lui e la fiorista nasce una storia, rimasta nei sogni sicuramente miei e, chissà, forse anche suoi, il resto lo conoscete già.

© 2018. Stefano Tramonti

Come una lattina vuota

Si può cambiare nella vita.” Si chiedeva stancamente ormai da tempo cosa significasse quella frase: era un mantra inascoltato o uno dei tanti fastidiosi consigli non richiesti, che avevano sdilinquito e non certo migliorato la qualità della sua vita alla ricerca di una motivazione? Sicuramente quella frase era un’ossessione che da tempo invadeva ogni spazio della sua vita, ogni momento in cui uno specchio di qualsiasi tipo gliela rifletteva impietosamente davanti attraverso la concretezza dei cambiamenti, in peggio, della sua persona: quelle parole, rimbombando in modo aggressivo e recando fastidio in ogni momento, a casa, sul lavoro, ovunque, con il passare degli anni, tuttavia, erano persino riuscite in un certo senso a edulcorarsi e addirittura a mantenere la dolce cadenza della voce che per la prima volta le aveva pronunciate. E quando arrivavano – sempre inattese e traditrici – era inevitabile che prendessero le forme di colei da cui erano venute: forme sempre ammalianti, piene di fascino; tanto più ora che quelle stesse forme non appartenevano più a una persona la cui presenza desse il ritmo alla quotidianità della vita; erano svanite quasi senza lasciare traccia; avevano, insomma, assunto piano piano la parvenza di un feticcio che si ama, ma che si vede sempre più da lontano, perduto ma sempre agognato e in ogni momento ossessivamente desiderato. A conti fatti, non sarebbe esatto dire che era andato perduto: sarebbe stato ben più più onesto dire che era semplicemente stato lasciato libero di andare per la sua strada.

Questa volta era alla guida in autostrada. Era una piovosa giornata invernale di metà dicembre. Aveva da ormai una decina di chilometri lasciato le ultime case di una città presa da quella frenesia da regalo che non condivideva ormai più con nessuno. Vedeva già i primi speroni di roccia imbiancati in cima, proprio come una fetta di pandoro, quando prima arrivarono le temute parole, poi le immagini. Tutto era temuto, sì, certo, ma era anche quasi adorato in quei momenti di ricerca di un abbandono a cui non riusciva a dare un nome, non essendo dolce ma sembrando dolce, non essendo tetro ma sembrando tale. Stava bene da solo, in quella solitudine che gli altri non mancavano di stigmatizzare con pedante pignoleria, spesso addirittura con quella fastidiosa saccenteria e con una certa boriosa aria di superiorità che tanti assumono quanto pretendono di sentirsi psicologi della sua vita. Proprio loro: i suoi tanti conoscenti (amici è impegnativo chiamarli) presi dalla sacra foga di elargire quei tanto detestati consigli non richiesti. E allora sì che facevano male quelle parole “Si può cambiare nella vita.” Quanto aveva riflettuto, chiedendosi per anni se, quando e come poter cambiare la sua vita e vedendola solo degradare nel tedio di una routine quotidiana senza una sola motivazione: ma soprattutto la riflessione che faceva più male, che fungeva da torchio, che faceva salire il cuore in gola, arrivava quando lo induceva a considerare l’imbruttirsi della sua vita nelle forme e negli aspetti più disgustosi. Disgusto era la parola che meglio rappresentava i monotoni e ripetitivi ritmi che imprimono la forma al vivere quotidiano di una persona che vive da sola in mezzo a un milione e mezzo di altre! I vetri dell’auto si stavano appannando. Cercava di mettere in funzione il dispositivo di disappannamento rapido, ma non funzionava. Niente funzionava più come dovrebbe in quell’auto che rispecchiava, neanche a farlo apposta, l’anima del suo pilota. Dopo due minuti i vetri erano di nuovo appannati. La pioggia fredda insisteva e avvolgeva quel guscio caldo che lentamente vi si immergeva. La strada rifletteva immagini distorte di luci e di ombre. Quel viaggio domenicale non aveva altro senso che quello di rompere la noia, di tentare una via d’uscita, di provare a cambiare qualcosa, lontano dall’ipocrisia della folla nel centro commerciale addobbato e sguaiatamente illuminato, lontano dai luoghi e dai tempi che amavano quelle persone da cui venivano i consigli non richiesti. “Si può cambiare nella vita”. Ora quelle parole riempivano il caldo abitacolo dell’automobile, infondevano con il loro suono una dolce e serena malinconia, il piacere del bel ricordo, la gioia dei momenti più belli, l’amore e la passione; tutto questo, nonostante il loro significato, nonostante il monito di un mantra che insegnava altro e che avrebbe voluto che la direzione impressa alla vita fosse stata un’altra, ben diversa da quella presa; tutto questo, mentre là fuori nel gelo, nella pioggia battente, andava in onda un altro film: la pioggia confondeva le immagini nel luccicare dell’asfalto, dove manto stradale, new jersey e guard rail davano vita a quelle curiose sfumature di grigio che avevano anche le nubi, dove le gocce correvano veloci sui vetri laterali, dove l’agitarsi troppo regolare del tergicristallo, lì davanti a lui, davanti ai suoi occhi, davanti alla sua persona che di tutto aveva bisogno tranne di che di un’altra monotonia, di un altro ritmo ripetitivo e ossessionante, come inevitabilmente era quello delle due spazzole, non contribuiva certamente a rasserenare l’animo. Quelle parole lo avevano prima lusingato con l’armoniosa dolcezza del suono e lo avevano attratto in un malinconico mondo di sogni e ricordi, di emozioni passate e desolati rimpianti, poi lo avevano duramente scalfito nel dolore che il desiderio non esaudito e il rimpianto puntualmente recano con sé, e infine adesso lo avevano impietosamente ferito, rendendolo fragile preda, esposta al carnefice, priva di difese. Le auto lo sorpassavano, sollevando vere e proprie nubi d’acqua, che presero facilmente la forma di un naufragio e diedero a quel viaggio senza meta il senso di una deriva alla ricerca di una sempre più sfumata speranza, che forse è laggiù in quel fanale retronebbia che si vede e non si vede in quella nube d’acqua, si vede per un po’, poi scompare inghiottito dalla tempesta di grigio che da sopra e da sotto avvolge ogni cosa, oggetti, corpi, anime. Quale dei due era il film vero? Quello della tempesta in atto là fuori, senza infingimenti, fuori della gabbia calda dell’abitacolo della sua piccola e vecchia utilitaria? O quello di un cuore, dentro la gabbia, che veniva mangiato a piccoli morsi, come quello di Prometeo, da un’aquila invisibile, che, come sempre era arrivata improvvisa, a tradimento? Era domenica mattina. Aveva deciso di fare un giro in auto, lontano dal monotono cemento di viali lunghi e regolari e di condomini replicati in serie, oltre i laghi, verso le montagne, nonostante le brutte previsioni meteo, che davano sicuramente acqua nel piano, neve appena ci si sarebbe avvicinati ai primi colli e forse anche nelle pianure ad essi sottostanti. Perché era uscito? Per combattere la noia? No. Non lo faceva più da anni ormai: la lasciava sempre vincere e le aveva decretato vittoria a tavolino per sempre. Non era quella la ragione. Che lo facesse per cercare di capire se era vero, se si poteva veramente cambiare la vita? Ma cambiare i luoghi serve a cambiare l’anima? Ricordi di liceo e di autori classici, di Seneca in particolare, autori che si erano posti quella domanda, si mescolavano adesso a riflessioni su quel presente informe, un ammasso di eventi che si accumulavano per forza d’inerzia, come i detriti portati a valle dalla piena di un fiume, un tempo fatto di un passato senza un futuro, che non riesce a catturare neanche un frammento di un presente che sfugge, di cui, alla resa dei conti, egli ora deve ammettere la totale inconsistenza. “Vivi solo di passato. Non va bene.” Questa frase era venuta da Antonietta, una collega, che, lavorando nel suo stesso ufficio, si trovava, come del resto tutti i suoi colleghi, in un punto d’osservazione privilegiato per constatare il cambiamento in atto. L’aveva pronunciata una sola volta. Poi, vista l’evidente inutilità del consiglio, si era ben guardata di dargliene altri che non fossero quelli di andare tutti insieme a pranzo nella pausa. Tra tutti i colleghi era l’unica che in quei tanti anni di lavoro in ufficio avesse manifestato prima un certo non ricambiato interesse per lui, poi una sincera preoccupazione.

Da quando lei, la sua ex, aveva pronunciato quella frase “Si può cambiare nella vita” non l’aveva più rivista. Erano in auto quando quelle parole furono pronunciate. Lei non avrebbe mai immaginato che avrebbero avuto l’effetto della frase scolpita nel marmo. Era successo in quella stessa auto, tanti anni prima, quando l’auto era nuova e tutto funzionava, anche il sistema per disappannare i vetri. Lei era lì accanto a lui. Tornavano da una festa di compleanno, in cui tutti avevano riso tranne loro. Solo quattro ore prima lei gli aveva detto che la loro esperienza “era arrivata al capolinea”. Non fu certamente un fulmine a ciel sereno. Si era eclissata dalla sua vita con la stessa dolcezza tra il malinconico e il blando, tra il riservato e il misterioso con cui vi era entrata. Quando fecero l’amore per la prima volta, lei non disse una parola: si lasciò guidare, con la dolce e un po’ timida arrendevolezza che sempre l’aveva caratterizzata. Si erano conosciuti in una riunione di un’associazione di volontariato durante una campagna elettorale: lui, allora energico e rampante, impegnato con passione in politica, rappresentava il suo partito, lei, riservata e silenziosa, un’associazione disposta a sostenerlo. E non sostenne solo il partito. Lui le chiese di uscire a cena dopo quell’incontro. Lei non disse di no. Per lui fu un sì. E rose furono, fino all’altare. Così iniziò, così finì quella che per lui ormai era una favola, un sogno, una narrazione turbinosa, una fucina di sconvolgenti emozioni e tormentose ossessioni. Non aveva nemmeno avuto più notizie di lei, se non indirettamente da qualche conoscente. La sua vita era tornata nel solito tran tran. Sveglia alle 6,15. Prepararsi. Uscire di casa con direzione lavoro. Affrontare il caos del traffico e innervosirsi. Passare la giornata in ufficio in continua tensione, tra l’incudine e il martello, tra clienti e dirigenti, e accumulare altro nervosismo e altro stress. Pranzare in un bar affollato del centro insieme ai primi arrivati capitati per caso, quasi sempre colleghi che dovevano far pesare che quella non era una pausa gradita, ma solo necessaria e inevitabile per infondere altro nervosismo e altro stress nella seconda parte della giornata a chi capitava a tiro. Poi affrontare nuovamente il caos del traffico per uscire dal centro. Andare a fare la spesa e rischiare le coronarie per il parcheggio al centro commerciale. Rischiarle di nuovo per quello sotto casa. E alla fine, accumulata la quotidiana dose di stress e nervosismo della normale vita urbana, gettarsi stremato sul letto e trovare appena le forze per mettere su un toast e aprire una birra. E se era faticoso anche quello, chiamare una pizza. Da quando non l’aveva più rivista quello era il solito tran tran. Il ritmo? Quando non c’era l’agenda del lavoro, il ritmo era scandito dalle ore delle medicine. Riusciva a trovare una parvenza di consolazione solo al pensiero di quanti nella frenesia di quella città vivessero come lui. Ma non riusciva mai abbastanza efficace come cura. “Un uomo senza una donna al suo fianco è come una Ferrari senza un motore”, gli aveva detto proprio Antonietta un giorno a pranzo: erano seduti su due sgabelli del bar sotto il loro ufficio. Era un tentativo di avance? Qualunque cosa fosse stata, non fu colta. Era una prova di dialogo? Forse, ma la porta fu da lui come sbattuta in faccia a lei, alzandosi di scatto e andando a pagare alla cassa le consumazioni per tutti e due. Antonietta, che aveva persino indossato il vestito corto quel giorno, sospirò e lo riaccompagnò su in ufficio; ma in ascensore non mancò il consiglio non richiesto: “Non va bene così. No. Non mi piace proprio per niente la china che la tua vita sta prendendo.” Era in fondo una delle tante varianti del “Si può cambiare nella vita.” Non rispose, protocollando quella frase della collega nell’ormai caotico faldone dei tanti consigli non richiesti.

In effetti, lei, la sua ex, aveva avuto ragione quel giorno di alcuni anni prima? “Si può cambiare nella vita,” aveva detto, congedandosi con la sua vita che non era mai cambiata, dalla sua vita, che tutti pretendevano che cambiasse. Ed era cambiata. Eccome, se era cambiata! Non andava più in palestra e aveva messo su peso. Nel radersi al mattino in bagno aveva addirittura l’impressione che il gozzo sotto il mento crescesse a vista d’occhio. Ogni doccia sembrava svelare una macchia cutanea in più. Ogni passo appariva più faticoso. Ogni volta che andava dal barbiere si faceva misurare attentamente ogni centimetro quadrato di pelata in più, o sulla fronte o sulle tempie, e calcolava la dose di peli che cadevano sempre più bianchi per terra sotto i colpi di forbice del vecchio Dan, amico di sbornie e notti brave ai tempi delle passioni e dei peccati di gioventù. “Devi cambiare la tua vita”, gli aveva detto anche Daniele, detto Dan, l’ultima volta. Altro dispensatore di consulenze non desiderate. Aveva ricordato le riunioni al movimento giovanile, le discussioni sui testi da usare nei volantini o su quali soluzioni grafiche fossero più efficaci, i viaggi in auto per mezza penisola, i rimorchi delle amiche, anche appena conosciute, le serate in albergo tra bottiglie di liquori presi nelle aree di servizio, che cancellavano subito la memoria sia loro, sia delle ragazze che di volta in volta entravano in quelle camere. Scapestrati. Lui e Dan non erano certo le menti di quelle notti brave, ma non erano neanche di quelli che dicevano “no, queste cose non si addicono ad attivisti politici che mirano a diventare futuri statisti.” Bravi soldati, utile e leale manovalanza, nei loro peccati di gioventù. Lui e Dan pensavano a divertirsi, a essere sempre in prima fila negli scontri di piazza e a poi meritarsi il premio con le più belle del gruppo, mentre altri sulle loro sbornie e sulla loro passione vera, grazie a quello stesso partito, si creavano carriere per il futuro e grazie alla passione vera degli ingenui attivisti che per loro lavoravano, come lui e Dan, facevano poi marameo a tutti cambiando casacca alla prima occasione. Ma loro non ci pensavano: lì si viveva, ci si divertiva, si stava insieme, si eccedeva qualche volta; i ricordi di quegli anni erano davvero belli. “Tu vivi di passato. Non va bene,” gli diceva spesso Dan: solo un’indicazione? forse un suggerimento? o addirittura un monito? Eppure in quel passato adesso quant’era bello rannicchiarsi! Ironia della sorte: Dan era riuscito a entrare in quella polizia da cui aveva anche preso manganellate, e non poche volte, senza mai finire schedato. Poi aveva avuto un incidente stradale, una chiamata per una rissa nel parcheggio di un discount alimentare, un pedale a tavoletta troppo sicuro e disinvolto in tangenziale e una vita cambiata dall’oggi al domani, una causa di servizio, tre anni di calvario tra ospedali e centri di riabilitazione e poi, piuttosto che finire tra le scartoffie negli uffici amministrativi, aveva preferito cambiare mestiere. Il padre, barbiere, ormai vecchio e stanco, fu ben felice di lasciare l’attività al figlio. Lui sì che aveva cambiato vita. Il vecchio Dan … Vita radicalmente cambiata. Eccome, anche se per forza maggiore. Quando sentì quella frase “Devi cambiare la tua vita”, pensava a Dan che vedeva nello specchio alle sue spalle con i suoi movimenti lenti, la zoppia che con lui non sentiva il bisogno di nascondere, come invece faceva con gli altri, e i segni delle cicatrici sulle braccia, lasciati dall’incidente che gli aveva per davvero cambiato la vita, camuffati da qualche tatuaggio. Si era separato, si era rimesso a nuovo, aveva trovato una nuova compagna, era davvero felice. Era l’unico che aveva rivisto lei, la sua ex, ma non glielo aveva mai detto. Non lo aveva fatto, perché lei quel giorno aveva ascoltato Dan in modo quasi singolare seduta al tavolino di un bar; era rimasta con lo sguardo attento, vigile, fisso nei suoi occhi, non aveva quasi detto nulla se non convenevoli di saluto; Dan aveva percepito da subito un certo nervosismo represso in lei, che non si spiegava, perché non era proprio di quella donna, che ricordava sempre dolce e serena, quel comportamento inusuale, quasi calcolatore; infatti, lei, poco dopo, si era alzata di scatto, come in preda a una specie di attacco di nervi o di crisi d’ansia, lo aveva salutato ed era andata via, pagando le consumazioni alla cassa per tutti e due. Dan era convinto che l’avesse fatto per non farsi vedere piangere; senza ombra di dubbio era convinto che ci fosse ancora troppo di sospeso e non risolto in quella donna. Eppure decise che non competeva a lui intromettersi. Perciò, silenzio.

Non è possibile provare a tornare indietro? Se fossi in te, ci riproverei. Non hai più i genitori, sei figlio unico e vivi da solo. Se fossi in te, sarei già impazzito. Non so come tu faccia a vivere così.” Dan aveva pronunciato quelle parole, interrompendo il suo lavoro di taglio, appoggiando le mani sulle sue spalle e guardandolo negli occhi sullo specchio di fronte a entrambi. Lo scapestrato, il più scapestrato tra gli scapestrati non rinunciava mai a quell’improbabile ruolo di padre spirituale o di improvvisata guida psicologica, o di dispensatore di stimoli motivazionali. Lui non gli aveva mai risposto. Non lo fece nemmeno quella volta. Attese in silenzio. Dan fece un lungo sospiro, riprese il suo lavoro, lo finì, venne pagato e, quando lui era sulla porta e stava per salutarlo, il suo padre spirituale, il suo motivatore lo anticipò dicendo: “Bisogna che io e te parliamo di più.” Lui non aprì bocca. Salutò con un cenno della mano e si richiuse alle spalle la porta di quel piccolo di negozio vintage di barbiere di periferia, rimasto indietro di almeno mezzo secolo rispetto all’evoluzione della specie, un po’ come il suo proprietario, che lui amava proprio per aver conservato intatto il carattere un po’ guascone che sempre aveva avuto e che un tempo entrambi avevano avuto, nei lontani e gloriosi tempi dei peccati di gioventù. Si fermo a guardare da lontano Dan, mentre con la sua zoppia spazzava il pavimento, cambiava i teli sulla poltrona, lavava pettini e forbici. Dan fischiettava. Lui abbassò lo sguardo, turò su il bavero del cappotto, infilò le mani in tasca e nascondendo quello che era possibile della sua anima, tornò a casa sua.

Le giornate passavano tutte uguali. Sveglia sempre più dolorosa. Lavoro sempre più stressante. Pranzo affannato. Toast e birra spesso a cena. Serata steso sul letto o sul divano. Risveglio a mezzanotte circa con il telecomando in mano, senza nemmeno ricordarsi su quanti canali era passato prima di addormentarsi e di risvegliarsi, spesso con il cartone della pizza caduto per terra. Poi la pillola per dormire. E il mattino dopo al risveglio, dopo la doccia, il ciclo sarebbe ricominciato con un capello bianco in più, un centimetro di più nel girovita, una spinta sempre più fiacca a svolgere il dovere, anche perché non riusciva proprio più a comprendere a cosa servisse quella spinta. Eppure, anche solo per fare un piacere a quelli che ogni tanto a lui pensavano, cercava di darsela, quella spinta, e di dare un senso a quello stipendio che, seppur con sempre maggiore affanno, alla fine di ogni mese puntuale arrivava. Ecco, la spinta. Dove doveva essere spinto? Chissà quanti si ponevano quella stessa domanda, si chiedeva quando ogni sera abbassava le tapparelle e vedeva spegnersi una alla volta le luci dalle tante finestre dei tanti condomini di quella grande periferia. “Vieni con me e Ceci! Andiamo a farci un aperitivo al lago.” Era uno dei tanti messaggi di invito di Dan, che aveva deciso di accettare, in quel mare sconfinato di anonimato condiviso da migliaia di persone. Era andato al lago. Aveva assistito con rabbia alle effusioni sentimentali di Dan e della sua bella Ceci, una russa che aveva trovato su un sito di appuntamenti: Dan aveva deciso di incontrarla inizialmente senza alcuna pretesa che non quella dell’avventura da single di una sera; e invece! e invece lui, lo scapestrato Dan, era incredibilmente riuscito a far nascere qualcosa di talmente interessante, che, secondo lui, sarebbe addirittura stabilmente durato. Erano una bella coppia affiatata. Nulla da dire. Era chiaro che lo fossero. Dan nascondeva bene la sua zoppia quando era con la nuova morosa, come del resto faceva con tutti tranne che con lui. Era sempre il vecchio Dan; rinnovato dalle vicende della vita, ma riportato agli antichi splendori. Eppure, vederli aumentò lo stress, aggravò la pesantezza dell’ansia e dello spleen, anziché diminuirne i sintomi. E quella sera non bastò nemmeno la pillola. Da allora niente più uscite con coppie; e così anche Dan aveva smesso di mandare inviti.

Andava avanti lentamente la sua auto. Veniva sorpassato anche dagli autobus e dai pochi camion e camioncini in giro di domenica. Alcuni gli suonavano o gli lampeggiavano, perché la sua marcia lenta era per loro una specie di intralcio, oltretutto con quelle condizioni di maltempo. Ma quel procedere lento della sua vecchia utilitaria sulla prima corsia dell’autostrada non era altro che lo specchio di una stanchezza che nasceva ormai da lontano. Vide il segnale di un’area di servizio. Con una scusa o un’altra non ne aveva saltata una: prima il bagno, poi il caffè, poi il giornale. Ora non sapeva perché si sarebbe fermato. Ma si fermò. Entrò nel bar. Vide dei panini. Scelse il più imbottito, nonostante avesse già fatto colazione a casa. Da un po’ di tempo il suo nuovo stile di vita imponeva alcune scelte, per così dire, compensative: scegliere da un menu le cose più caloriche era solo una di quelle. Aveva comprato un giornale nella precedente sosta. Si mise a leggere, incurante della maionese che colò sopra una pagina, del pomodoro che macchiò la camicia e della goccia d’olio che aveva appena disegnato una chiazza ovale sui pantaloni, male assemblati con la camicia, a sua volta male assemblata con la giacca. Passò quasi mezzora. Poi tornò in auto. Accese il cellulare. Nessun messaggio. Nessuna notifica. Per il mondo stava piano piano diventando un fantasma. Quei messaggi e quelle notifiche erano andati progressivamente calando proprio da quel fatidico “Si può cambiare nella vita.” In effetti, anche il telefonino a modo suo era cambiato. Non si preoccupò che il marchingegno elettronico dell’auto, che non aveva mai capito come funzionasse, lo riconoscesse. A ben pensarci, in effetti, chi lo avrebbe dovuto chiamare? Lo ricollocò nel taschino. Avvertì un dolore alla testa. Non se ne curò. In quei giorni di dolori ne aveva un po’ dappertutto. Forse gli era salita la pressione. Con l’abbassamento delle temperature doveva stare attento, gli aveva detto il suo amico medico, che almeno era giustificato dal ruolo professionale come erogatore di moniti non richiesti. Appoggiò la nuca al poggiatesta del sedile. Chiuse gli occhi. Iniziò a fare quello che il suo amico medico gli aveva detto di fare: inspirare a bocca chiusa ed espirare a bocca aperta a lungo. Era docile ai consigli di Roby. Anche lui era amico di gioventù. E anche lui aveva a lungo dispensato consigli e inviti inascoltati. Anche lui era di quelli convinti che si può cambiare nella vita, che cambiare è facile, basta volerlo, che si può dare un calcio al passato, che si può ripartire da zero, e così via. Ne erano convinti soprattutto quei colleghi di lavoro che erano gli unici a poter constatare giorno dopo giorno il suo degrado. Da quasi tre mesi lui e Roberto, da sempre Roby, non si sentivano più. Era andato un giorno nel suo studio di fretta per una ricetta, dopo aver sudato non poco per il permesso nell’ufficio del suo direttore. Una parentesi di due parole su questa persona, il direttore, che era odiosa a tutti, ma non a lui, per un semplice fatto: per quell’uomo esisteva solo la sua carriera; della salute di lui, del degradare lento e progressivo della sua vita gli poteva interessare come per l’aumento del tasso d’inquinamento della capitale del Bangladesh e soprattutto, nota di carattere di immenso valore, non era un dispensatore di consigli non richiesti. Chiusa la parentesi. Ebbene. Dopo quella fugace visita da Roby in una giornata di fine estate, aveva sempre avuto a che fare con il sostituto del suo amico medico. Anche Roby era un presenza che stava piano piano come evaporando dalla sua vita. Incredibile, ma purtroppo vero. Incredibile al pensiero che era proprio lui, Roby, che aveva organizzato quelle uscite in coppia in cui si erano per anni divertiti. Lo aveva fatto con quello spirito giocoso e disincantato che si dice sia uno dei segni di una sincera amicizia. Ogni estate loro quattro, Roby con sua compagna Caterina e lui con sua moglie, andavano in vacanza insieme. Roby aveva la barca e per due volte fecero la traversata dell’Adriatico. Anche lui era separato. Si era rifatto la vita. Insomma, Roby aveva cambiato la sua vita. Caterina, la compagna di Roby, aveva ereditato una casa nelle Dolomiti e avevano passato spesso vacanze estive e invernali insieme. A quello pensò con gli occhi chiusi, lì nel freddo dell’abitacolo dell’auto. Pensò a un capodanno a casa di Caterina. Quanta neve venne quella sera! Era nevicato quasi ininterrottamente dal venti dicembre. Avevano passato più tempo a spalare che a sciare nei giorni precedenti. Fino alla fine di marzo, con l’alzarsi del sole sull’orizzonte, quel lato del paese non avrebbe visto un raggio di luce e il ghiaccio pertanto si formava molto facilmente dappertutto, con tutta quella neve che scendeva senza sosta. Che serata indimenticabile! Avevano bevuto davvero tanto. Roby, trascurando Caterina, si era lasciato andare a parlare a lungo con lei, con quell’ingenua civettuola di sua moglie, donna che, quando apprezzata, sapeva emanare quel fascino indiscutibilmente unico che è proprio delle anime apparentemente più ingenue e che a tutti danno l’impressione di essere timide e abbordabili. E Caterina, la compagna di Roby, visibilmente indispettita dal suo atteggiamento, aveva iniziato a flirtare con lui. In fondo era lei la padrona di casa. Era partito tutto per scherzo tra i fumi dell’alcol. Lui era stato al gioco. Dalla strada venne un vocio di gente, amici e vicini di casa di Roby e Caterina, che stavano improvvisando in un campo sgombrato dalla neve dei botti e dei fuochi d’artificio. Roby, indossata velocemente una giacca a vento sopra al maglione, andò fino alla portafinestra, la aprì, uscì sul balcone, e anche sua moglie lo seguì, sul balcone anche lei, chiudendosi sbadatamente la porta alle spalle. Caterina e lui erano così rimasti soli. “Non c’è la maniglia dalla parte esterna. Solo io e te li possiamo far rientrare. Tua moglie si è chiusa fuori con Roby,” disse Caterina. Era decisamente brilla e lo era un po’ anche lui. Caterina faceva di tutto perché la generosità dello spacco e della scollatura del vestito raggiungessero l’obiettivo per cui erano stati pensati. Lo prese per mani e se lo portò su in camera, approfittando del fatto che la moglie di lui e Roby erano presi dagli schiamazzi con gli amici. Non ci volle molto. Quando scesero e sentirono Roby e sua moglie che infreddoliti bussavano alla porta, visibilmente brilli anche loro, gliela aprirono. Se anche Roby e sua moglie avessero sospettato qualcosa, prima sul balcone, poi quando realizzarono di essere rimasti chiusi fuori, nessuno dei due lo dimostrò mai nei giorni successivi. Come per miracolo, la mattina si svegliarono con il sole, dopo quasi due settimane di neve. E andarono sulle piste di neve fresca a appena battuta approfittando del fatto che nella mattina di capodanno non ci sarebbe stato di sicuro affollamento. Roby e Caterina, lui e sua moglie: sciavano affiancati e felici, si fermavano a scaldarsi nei rifugi a monte o a valle degli impianti e ripartivano, una pista dopo l’altra, del tutto immemori ma non certo inconsapevoli di quanto accaduto poche ore prima. Riaprì gli occhi e ripartì. Umidità o lacrima? Si asciugò una goccia sulla guancia.

La pioggia sembrava intensificarsi. Continuò con la sua andatura lenta e cauta. Un’altra trentina di chilometri ed ebbe bisogno di fare gasolio. Altra sosta. Ancora mal di testa. Ebbe un senso di vertigini. Durò soltanto per un attimo. Si fermò al bar. Comprò una lattina di aranciata. Non gli facevano bene le bibite gassate. Aveva gli esami del sangue sballati da tempo, colesterolo molto alto, stile di vita viziato da stress, sedentarietà e adesso anche alcol, lui che era stato per anni una persona energica e sportiva, che sprizzava vitalità da tutti i pori, lui che per anni era sempre stato addirittura un modello di attenzione quasi maniacale all’alimentazione, al peso, al suo aspetto fisico. Roby, quando lo vide l’ultima volta, appunto nel corso di quell’ultima, fugace visita di fine estate, lo trovò notevolmente ingrassato, degradato, con la barba di tre giorni, insomma, imbruttito; e non nascose la sua sorpresa. Non lo vedeva, infatti, da tempo. Lui a Roby aveva chiesto sempre le ricette o con un messaggio o una mail. Le riceveva poi dalla segretaria e con Roby non ebbe più rapporti. Era andato in studio per rivederlo quel giorno, ma, non appena intese che l’amico medico avrebbe iniziato a sciorinare la sua dose di consigli di vita e di spicciole consulenze motivazionali, si alzò e uscì. In fondo, Roby ci aveva provato tante volte a volergli bene e aveva fatto tutto quello che era nelle sue possibilità, quando aveva saputo non tanto della separazione, quanto delle sue conseguenze. E non solo per Roby: ma quello che riguardava lei, la sua ex, era segreto professionale. Anche la sua compagna Caterina aveva fatto quello che aveva potuto. Era questo che l’amico medico avrebbe voluto dirgli quel giorno della visita, ma le parole, quando lui si alzò e uscì, restarono per Roby nel faldone con l’etichetta ‘buoni propositi’. Le immagini sempre più sfuocate delle persone che avevano recitato un ruolo nella sua vita apparivano e sparivano. Mentre beveva l’aranciata sullo sgabello, l’acqua iniziò ad arrivare sui vetri portata da più forti folate di vento. Uscì dall’auto in quella che ormai era una bufera di acqua mista a neve. Faceva anche freddo. La gente nel bar diceva che pochi chilometri più avanti nevicava. Aveva tutto l’occorrente. Le gomme erano invernali. Nessuna paura. Tornò in auto con la lattina in mano. Afferrò la chiave. La inserì per mettere in moto. Poi si fermò. Non trattenne il rutto: l’aranciata gassata, che non doveva bere. Il mal di testa che andava e veniva. La disarmonia dell’imbruttirsi di una vita che per tutti i dispensatori di consigli non richiesti sarebbe potuta facilmente cambiare. In effetti, avevano perfettamente ragione. Oh, se ne avevano! Un senso di spossatezza gli piombò addosso. Non girò quella chiave. Appoggiò nuovamente la nuca al poggiatesta. Era freddo nell’abitacolo. Non se ne curò. Brividi. Un senso di vertigini. Come previsto, iniziarono a infittirsi i fiocchi di neve in mezzo alla pioggia. In poco tempo la pioggia diventò una nevicata di fiocchi piccoli e radi. Per terra la neve non attaccava ancora. La lattina d’aranciata quasi vuota cadde dal cruscotto dove era stata messa e bagnò il tappetino.

Questa volta gli occhi si chiusero da soli. Vide lei stesa al sole sulla Praia dos Boscoitos alle Azzorre; la vide sui bordi delle caldere dei vulcani, con quella canottiera e quei calzoncini corti che lui le aveva comprato a Lisbona e che lui aveva voluto che lei mettesse quel giorno; la vide con quella lunga coda di cavallo nera che non finiva mai e che lui aveva sempre voluto farle; la rivide con quegli occhi neri che, quando incontravano i suoi, avevano la potenza del più devastante degli ordigni, sprigionavano l’energia della più devastante delle onde sismiche, esplodevano tante scintille quante nessuno dei più fantasmagorici spettacoli pirotecnici avrebbe potuto produrre. Immagini che avevano fatto salire alle stelle la sua anima allora, la facevano sprofondare in un abisso di disagio, inquietudine e malessere adesso. Quel disagio, quell’inquietudine e quel malessere avevano un nome per Roby, l’amico medico, rispondevano a una definizione ben precisa, c’era una brutta parola che riassumeva tutto: non l’aveva mai voluta sentire nella sua vita quella parola, perché accettarla con il suo nome l’avrebbe obbligato a prendere provvedimenti che, lo sapeva bene, mai avrebbe preso. E la rivide. Adesso era stesa sui prati delle malghe lungo le carrarecce che portavano su al Pelmo, con quelle gambe che non finivano mai, infaticabili nell’arrampicarsi ovunque, dalle rocce al suo corpo; non si stancavano mai. Sprigionava un’energia e una vitalità che ormai assumevano l’aspetto di un drammatico e beffardo contrasto rispetto alla quotidianità di quel presente scandito dai ritmi di un lavoro ansioso, di uno stress dannoso, di farmaci inutili, di medici anche loro ormai inutili, di una spasmodica ricerca di una pace che non trovava se non nel cibo e nell’addormentarsi sul divano di casa, dopo essersi tolto soltanto la giacca, averla gettata su una sedia, dopo essersi tolto le scarpe tenute una giornata intera ed essersi allentato il nodo della cravatta, quanto bastava per aprire i primi due bottoni della camicia. Sentì il bisogno di fare quel gesto anche lì in auto:; sentì un forte bisogno di aria e di allentare i primi due bottoni della camicia.

Dan lo avrebbe saputo soltanto diversi giorni dopo, per puro caso. E scosse impotente la testa. I colleghi di lavoro erano abituati ai suoi periodi di malattia, spesso comunicati in ritardo, e non si erano preoccupati. Quanto ai vicini, era già tanto se lo salutavano e notavano la sua presenza. Roby, il suo medico, lo seppe molto tempo dopo, quando un comune conoscente gli fece vedere una notizia su un quotidiano on line che non faceva nomi e che parlava di una persona trovata senza vita in un’area di servizio; riconobbe in modo inconfondibile la sua auto nella foto sotto il titolo: “Vittima di un malore … trovato nell’auto … secondo il personale sanitario arrivato sul posto e chiamato dai responsabili dell’area di servizio, il decesso doveva essere avvenuto da diverse ore; un addetto alle pulizie del parcheggio e alla sostituzione dei sacchi nei bidoni, annaspando nella neve che ormai si stava accumulando, lo vide di sera al buio; l’uomo era stato insospettito dall’auto che la neve stava ormai ricoprendo; ‘difficilmente un’auto resta così a lungo nel parcheggio di un’area di servizio; perciò ho pulito i vetri che erano coperti di neve e ho visto l’uomo con il capo reclinato su una spalla’, ha dichiarato l’uomo che lo ha trovato” L’articolo non diceva altro. Roby, stravolto dalle lacrime, impotente anche lui, lo disse a Caterina. Lei commentò: “Che cosa triste.” Era tardi per mandare messaggi. E poi a chi li avrebbero dovuti mandare? Lo avevano ormai già sepolto da giorni. Andarono al camposanto. Caterina poggiò la testa sulla spalla di Roby, dicendo di nuovo: “Che cosa triste.”

Se lui avesse potuto vedere chi c’era tra le sei o sette persone presenti nella chiesetta dell’obitorio, colleghi e vicini, quasi tutti dispensatori di consigli non richiesti, tranne uno, il suo direttore, avrebbe forse intravisto una donna dai capelli neri, in fondo, in disparte, in un angolo, con gli occhiali scuri. I capelli erano raccolti in una lunga coda di cavallo. Nessun altro l’avrebbe notata. Stette lì per un po’. Seguì solo una parte della funzione. Uscì in silenzio, lasciandosi avvolgere nel freddo umido e nebbioso, senza che nessuno la notasse. E senza che nessuno notasse che era l’unica tra i pochi presenti sulle cui guance era scesa una lacrima. L’indomani per tutti, compreso il prete che aveva ripetutamente sbadigliato durante la sbrigativa funzione, sarebbe ripreso il tran tran di sempre. Forse per lei no. Forse. Chissà. Nessuno lo potrà sapere. E se anche lo sapesse, ormai sarebbe una notizia tra le tante. Ognuno ha la sua vita; la vita si può cambiare; c’è chi la cambia e chi non ci riesce. C’è chi ascolta consigli e chi no. Siamo più di sessanta milioni in questo paese; in fondo, se anche qualcuno di loro non ci riesce a cambiare la sua, cosa cambia a quella degli altri? Così lui aveva sempre ragionato da quel “Si può cambiare nella vita”. E forse alla fine aveva avuto ragione proprio lui.

In quello stesso momento, a diversi chilometri di distanza, nel parcheggio di un’area di servizio un addetto alle pulizie raccoglieva una lattina d’aranciata, bestemmiando e imprecando con ogni genere di parolaccia contro “tutti i maledetti idioti incivili che, con il bidone davanti al naso, le lasciavano per terra!” La raccolse con la paletta. Il bidone per vetro e alluminio era lontano. Era freddo. Era buio. Nevicava forte. Nessuno lo avrebbe visto. La gettò nel piccolo bidone dei rifiuti indifferenziati, pieno di tutto, dai pannolini ai fazzoletti, dalle bottigliette di plastica di ogni forma e dimensione alle scatole di biscotti, alle lattine, appunto, come quella. Isolatosi da tutto e da tutti, mise le cuffie nelle orecchie e fischiettando tornò al caldo nel negozio. Rideva felice per una vignetta condivisa da un amico o sedicente tale vista sul telefonino. Le auto sfrecciavano. I camionisti dormivano nelle cuccette. Una coppia di poliziotti si fermò a bere qualcosa di caldo al bar, parcheggiando l’auto proprio accanto a quel bidone. Quando i due agenti risalirono in auto, la neve aveva già ricoperto l’ultima traccia di quello che sarebbe stato un episodio spiacevole, una cosa triste, una vicenda umana difficile, una vita che poteva cambiare, ma non aveva ascoltato i consigli, insomma un piccolo quotidiano, comune dramma, di cui nessuno mai più avrebbe parlato. Eppure su quell’evento, dall’apparenza così insignificante, una persona, forse, una sola, avrebbe segretamente ancora riflettuto, perché da quel giorno nemmeno lei che era stata in fondo una delle tante che gli avevano dispensato consigli, una delle tante persone che gli avevano detto che si può cambiare la vita, lei che nemmeno in quell’ultima occasione si era trattenuta dal dargli consigli e dal pronunciare quella stramaledetta frase, nemmeno lei, no, nemmeno lei quella vita da schifo era riuscita a cambiarla. Una sola persona avrebbe forse pensato a quanto era successo. Lo avrebbe fatto a tempo scaduto, come avviene per quasi tutte le cose più delicate e importanti, che proprio perché tali si ritengono troppo impegnative e si rimandano sempre. Aveva saputo della notizia dall’ospedale. Un agente di polizia aveva preso informazioni e aveva avuto il nome di lei. Lei era stata chiamata per riconoscerlo. Lei era l’unica che poteva sapere quanto stupido fosse pretendere che una vita possa cambiare facilmente. Era un riflessione postuma, ormai. Inutile, alla fine della storia. L’avevano già fatta altri. L’avevano fatta Dan, Roby e Caterina, Antonietta e i suoi colleghi, persino il suo asettico direttore; e anche i vicini di casa avrebbero rivolto un loro fugace pensiero a quella che solitamente si definisce una cosa triste. L’avrebbe fatto chiunque di noi. Un pensiero non è un atto; non ha quei costi e non implica quelle responsabilità. In fondo – pensiamoci bene! – a quanti di noi interessa veramente sapere dove finisce una lattina vuota? Era ruzzolata fuori dell’auto chissà come, quando lui fu portato via. La neve l’aveva ricoperta per diversi giorni. Fu poi raccolta e buttata svogliatamente nel primo bidone. Rimase per un po’ in compagnia di tutto quanto non serve, è inutile e dà fastidio. E poi della fine di quella lattina, come di migliaia e migliaia di altre tutte uguali, nessuno si sarebbe più interessato.

Memorie

Una panchina in un’area verde recintata. Un uomo solo che legge un libro. Davanti, una ringhiera. Sotto, il fiume, straordinariamente pieno d’acqua, che passa oltre la diga. L’uomo chiude il libro. Chiude gli occhi.

E quel passaggio ritmato dell’acqua tra le paratie della chiusa, fino a poco prima un dolce aiuto alla concentrazione e un confortevole sottofondo per la lettura, diventa un assordante rumore, che invade la mente, lo strania e prende tante, diverse e amabili forme di un passato non facilmente collocabile in una linea del tempo, dalle geografie labili, dai contorni sfumati, dai personaggi che si muovono come fossero sempre alla ricerca di risposte, convinti di possedere certezze che però si sciolgono subito come neve al sole. Forme diverse: da quella dei rii che lui bambino amava veder scendere impetuosi e vorticosi nelle vallate dolomitiche tra poderosi contrafforti rocciosi a quella dei torrenti e dei fiumiciattoli che rosicchiano i fragili calanchi dei colli vicino a casa; finché, alla fine, non ne rimane che una di quelle forme: quella, dai contorni ora ben definiti, di un torrente di montagna a lui ben noto. L’area verde con la panchina non era vicino a una chiusa, ma a un grande ponte, alto su un torrente, che passava impetuoso con le sue rapide e i suoi vivaci vortici. Non era da solo su quella panchina. Lui e il babbo erano quasi arrivati. Avevano camminato quasi tutto il giorno. Erano scesi di oltre mille metri. I piedi del giovane dolevano; le ginocchia del babbo non meno. Di là dal ponte c’era il paese e nel paese la casa. Ma, nonostante vicini alla metà, si fermarono su quella piccola radura, attrezzata con una panchina, un tavolo, i bidoni colorati per l’immondizia, una nota di certo stonata in un quel dominio assoluto di tante tonalità di verde. Quando il babbo si fermava, non parlava. Il giovane si sedeva accanto a lui. Il babbo gli passava la mano sui capelli, glieli arruffava per scherzo, e poi chiudeva gli occhi e per un attimo si straniava. Il giovane rimaneva lì, come fosse in attesa del compimento di un rito da parte di un antico sacerdote. Unico rumore era quello delle rapide del torrente. Di là il paese; di qua la montagna, il bosco appena attraversato e sul cui limitare ora si trovavano, il ripido pendio che portava ai piedi di ciò che rimaneva di un ghiacciaio su cui la storia aveva lasciato tante tracce per lo spirito del tempo che le avrebbe dovute conservare con saggezza. Ma quella saggezza non era sui libri; non era di carta; era di terra, di legno e di pietra, e della terra, del legno e della pietra ora aveva tutti i sapori ed emanava tutti gli odori; la coerenza non era quella di un sistema di idee, ma un’armonia che solo ai sensi veniva affidata e che solo con sacrificio, fatica e dolore poteva essere compresa. Ai piedi del ghiacciaio iniziava quel sentiero che era stato opportuno percorrere con i ramponi. La neve, sciogliendosi, lo aveva spesso invaso, solidificandosi in lastre là dove i raggi del sole non arrivavano; solo con i ramponi si attraversavano quei tratti ghiacciati. E solo con i ramponi si entrava nei bianchi domini di sua maestà il ghiacciaio. Il rumore del passo era diverso. Il bastone e la pedula smuovevano terriccio e sassi, docili al loro passaggio, ma il rampone scrocchiava, piantandosi là dove tutto sembrava congegnato per respingerlo e non farlo arrivare. Il bastone e la pedula ritmavano il cammino e gli conferivano persino una speciale armonia, ma il rampone non aveva quella forza e non dava quell’incoraggiamento. Fendeva, graffiava, strideva. Evocava ben note disarmonie, di cui entrambi ormai erano ben consapevoli. Ai piedi di quel ghiacciaio avevano fatto sosta nel rifugio. C’erano dei libri. Parlavano della storia di quel ghiacciaio, di trincee, di uomini che vi avevano lasciato la vita o ne erano usciti per sempre segnati nel corpo e nell’anima. Parlavano di un dolore di fronte al quale quello della fatica che lui e il babbo avevano appena conosciuto nella salita e stavano sperimentando, avvicinandosi al valico, era qualcosa di assolutamente insignificante, impossibile da paragonare. Il babbo non era di tante parole durante quelle uscite. Ma un giorno, una delle prime volte in cui avevano scalato quella montagna per lui piena di significati, aveva pronunciato solo una frase; lo aveva fatto nel richiudere uno di quei libri di cui aveva solo guardato le foto e sfogliato l’indice: “Tuo nonno, il babbo della mamma, è stato uno di questi uomini. Erano migliaia. Hanno fatto la storia rischiando la vita per conquistare terre, che ora chiedono l’autonomia a quello stato che ha donato centinaia di migliaia di anime per averle. Questa qui è la storia. La storia non è che una manifestazione dello spirito del tempo; si può viverla in tanti modi; ma quale sia veramente il significato di quello che è successo quassù i libri non riusciranno mai a dirtelo.” “Perché?”, chiese il giovane. “Perché la verità non premia, non vende. Le guerre vengono affidate alla retorica, che è un ingrediente della storia, ci piaccia o no; e la retorica, nelle mani sbagliate, è un modo come tanti con cui si camuffa la menzogna. Lo spirito del tempo parla un’altra lingua, non quella di queste pagine.” Il giovane non disse più nulla. Il babbo si era rialzato. Aveva pagato la consumazione. Avevano ripreso bastoni e zaini e si erano rimessi in cammino per raggiungere il valico. Da lì, per un altro sentiero, sarebbero poi ridiscesi a valle, fino a raggiungere quel fiume, quel ponte, quelle rapide e quella panchina, accompagnati da quello spirito del tempo che da anni cercava di capire se il babbo fosse stato mai veramente in grado di fare suo.

Erano partiti alle sei del mattino. Con passo lento avevano attraversato prati vivaci di erica, doronico, erborina e artemisia, poi di genzianelle, geraci e rari papaveri retici. Avevano faticato su erte impervie e riposato in aprichi pianori, tra larici, abeti rossi e pini cembri. Avevano sfiorato con i bastoni e le pedule distese di salici nani. Avevano visto sempre il ghiacciaio. Avevano visto il lucido biancore di sua maestà avvicinarsi piano piano, passo dopo passo, un passo alpino, lento e cadenzato dall’alternato movimento di braccio destro e gamba sinistra e poi gamba destra e braccio sinistro, come quando in inverno insieme percorrevano quegli anelli di fondo che il babbo aveva sempre amato in modo speciale, lontano dalla folla turistica degli impianti di sci, dai parcheggi di funivie e seggiovie. Bastone destro e gamba sinistra. Gamba destra e bastone sinistro. E così per un’intera giornata, salendo al mattino, scendendo di pomeriggio. Poche parole. Ogni tanto il bastone destro del babbo si alzava. Lui indicava qualcosa. Il giovane ogni tanto chiedeva; ma il più delle volte, anche se non non aveva visto né sentito niente là dove indicato, rispettava quel senso quasi spirituale di vivere la montagna, senza fare altre domande, senza pretendere chiarimenti. Si era sempre chiesto se quella del babbo non fosse una pretesa. Si era spesso chiesto se la gente del posto fosse disposta a condividere quella dimensione tutta sua. Ma sapeva anche la risposta: quello del babbo non era mai un viaggio nello spazio, ma sempre e soltanto nel tempo. E quella gente del posto ormai viveva solo inebriata dai guadagni delle stagioni turistiche. Di quello spirito del tempo non era rimasto più nulla. Andava scavato negli strati della memoria. Si era sedimentato sotto cumuli di detriti, di decenni di menzogne, di sfruttamento economico, di falso ambientalismo, di storia rivisitata ad uso e consumo delle generazioni che si succedono, di tradizioni e costumi posticci riesumati solo per il tam tam tra sedicenti amici che condividevano foto in rete. “Il denaro acceca la memoria,” gli aveva detto tante volte, lui che aveva lavorato per anni come impiegato in banca. Braccio destro e gamba sinistra, gamba destra e braccio sinistro. Quello era il passo.

Quando furono arrivati nel ghiacciaio, allora il babbo aveva rallentato la marcia. Al valico avrebbero trovato un altro rifugio. Fu molto faticoso raggiungerlo. Lì presero solo un tè caldo con dei biscotti secchi che avevano con sé. Il babbo aveva gli occhi calamitati dalla finestra del rifugio aperta sulla distesa bianca che si stendeva sul versante nord di quella montagna sui cui per anni erano saliti in tre, quando lui era bambino, il babbo giovane e il nonno ancora in forze. Allora era il nonno a non parlare quasi mai e a indicare con il bastone in silenzio. Il babbo rispettava quel silenzio e invitava il bambino a fare altrettanto. Riti e tradizioni. Un dialogo silenzioso nel tempo, di padre in figlio. Uno spirito che parlava una lingua i cui fonemi e grafemi non sarebbero stati costituiti da segni convenzionali, ma da immagini, incubi, emozioni, sogni, ossessioni, in cui tutto era criptico, tutto era affidato ad un bastone che si alza a indicare qualcosa che non si vede, a uno sguardo che accenna a qualcosa che non si sente, a un tentativo di sorriso che intende comunicare qualcosa che solo con gli anni si sarebbe potuto correttamente intendere. Questa era la tacita convinzione che esortava ad andare avanti e a ripetere il rito della salita a quella montagna.

Il babbo, il giovane, due zaini, quattro bastoni, una panchina, un silenzio che aveva dominato lo scorrere del tempo dall’alba al tramonto, ora negato solo dalle rapide di un torrente. Il babbo aprì lo zaino. Prese dei pieghevoli illustrati in raffinata e colorata carta plastificata, trovati all’ufficio del turismo. Parlavano di trincee, di sentieri tracciati o ripristinati per arrivare alla loro scoperta, di antiche vie militari, di tradotte nel fondovalle. Tutto era bello e colorato, quasi divertente. Vi erano foto in cui le guide, sorridenti e fiere nelle loro pose, erano immortalate in divise storiche. Il babbo stracciò tutto e, avvicinandosi ai bidoni colorati chiese al giovane: “Quale?” Il giovane si strinse nelle spalle e, senza dimostrare di esserne sicuro, indicò quello blu con scritto ‘carta’. Il babbo guardò le case del paese di là dal grande e alto ponte. Entrambi si alzarono dalla panchina e attraversarono il fiume, mentre lo spirito del tempo, che laggiù, tra vortici e rapide, scorreva eterno, cercava di parlare con la voce franta e lenta, come quella di un anziano che cerca in tutti i modi di tenerlo vivo, che sa che non avrà più tante occasioni per conservarlo.

Il giovane si fermò su quel ponte. Cercò di ascoltare il vecchio fiume, come aveva fatto con il vecchio bosco e l’antico ghiacciaio. Scattò una fotografia. Il babbo procedette da solo verso casa; non gli impedì certamente la sosta. E svanì tra le curve disegnate dai vecchi tabià.

L’uomo riaprì gli occhi. La nebbia si stava alzando e la temperatura si stava abbassando. Riprese il libro. Lo mise nello zaino. Ripensò a quell’ultima escursione con il babbo. Provo solo a immaginare quanto di inascoltato ancora rimanesse in quelle acque, in quel fragore che la chiusa, in momenti come quello appena vissuto, faceva apparire davvero assordante. Risalì sulla bicicletta, lasciò la chiusa e ritornò a casa lungo il rivale, tra i fitti canneti. Troppe voci ormai lo richiamavano da quelle acque da cui non era mai facile separarsi, quando dovette scendere per avvicinarsi alla città. Pedalò veloce. Aveva una meta. Era sempre quella. Attraversò tutta la città. Arrivò sotto l’antico pino, nel luogo dove regna quel silenzio che lì, più che altrove, urla il senso della vita. Arrivò prima che il cancello fosse chiuso. Era sempre quella la meta da raggiungere ogniqualvolta si riattivasse l’antico dialogo e riprendessero forma quei paesaggi scolpiti nel tempo. La nebbia, che si stava velocemente addensando, salendo dai prati e dai canali, lo favoriva. Si accoccolò accanto a quella pietra, accanto a quel tumulo, e, sedutosi sulla nuda terra a gambe incrociate il figlio riprese quel colloquio con la vita vera che aveva iniziato bambino con il nonno e continuato adulto con il babbo, tra boschi e ghiacciai, tra torrenti e prati. Aprì lo zaino. Estrasse una fotografia: vi era ritratto un impetuoso torrente; era stata scattata su un ponte; su un lato si intravvedeva l’inizio di una ripida strada tortuosa, che passava tra case e tabià. La depose sulla terra umida da cui la nebbia si alzava sempre velocemente, come se avesse premura di proteggere quel dialogo con il tempo che solo lì riusciva ad essere sincero. Perché lì, lo spirito del tempo non parlava più per enigmi.

La libreria

Il sentimento diffuso di noia che veniva da quella giornata nebbiosa, le poche persone in giro per il centro, quasi tutte di passo veloce, intabarrate e incappucciate, la musica diffusa in sottofondo nel locale, tutto faceva sì che il giovane commesso fosse attratto da un particolare, che in altri contesti non sarebbe risultato così interessante: un cliente. L’unico da quando era stato aperto il negozio. Finora le persone si erano avvicinate alla vetrina; poi, assalite dal freddo non appena fermatesi, nell’incertezza tra il caldo dei libri e quello della vicina pasticceria, avevano optato per la seconda. Un cliente. Uno solo dopo un’ora di apertura. Era dentro la libreria da quasi un’ora. Il commesso abbandonò per un attimo la cassa, abbassò il volume delle musica in sottofondo, che proveniva da una radio locale, e, non avendo altro da fare, andò da lui: “Posso esserle utile? Sta cercando qualcosa di particolare?” Federico si volse, lo guardò per un attimo, un attimo abbastanza lungo a dire il vero, e rispose: “Sì.” Fu una risposta che poteva solo mettere in imbarazzo il giovane e solerte commesso assunto da soli sette giorni, il quale, schiaritasi la voce ed emesso quel colpo di tosse che dice tutto e non dice nulla, se non ‘era meglio che rimanessi alla cassa’, disse: “Che cosa di particolare?” Federico non volle essere scortese. Il giovane commesso stava dimostrando tutta la sua buona volontà. Eppure gli uscì dalle labbra una frase che forse non era il risultato di un’ottima connessione tra lingua e cervello, ma di cui comunque non si pentì: “Qualcosa di particolarmente bello.” Fu il colpo di grazia. Era come avergli dato il badile per scavarsi la fossa, dopo tanta non richiesta solerzia. Il giovane commesso arrossì e iniziò a scavare la fossa: “Ha una particolare predilezione per qualche genere?” “In tutti i generi c’è qualcosa di bello e qualcosa di brutto,” fu la risposta di Federico. Il commesso fece un passo indietro, inavvertitamente, facendo cadere due pile di volumi di bestseller collocati sul grande tavolo al centro del negozio. Federico iniziò ad aiutarlo. “No, no, no. Non si deve disturbare. Ci penso io. È stata colpa mia. Sono uno sbadato,” disse il commesso. “Non è vero. Lei non è stato affatto sbadato. Io sono stato sbadato. Sbadatissimo. L’ho innervosita. E lei ha perso il controllo dei suoi movimenti, urtando i libri. Perciò mi sento in colpa. E la sto aiutando.” Il giovane, poco abituato al lei e molto al tu e che spesso dava del tu anche a clienti che non conosceva (non c’è mai una precisa ragione per cui a uno oggi viene spontaneo dare del tu o del lei), non osava tuttavia dare del tu a quella persona che diligentemente raccoglieva insieme a lui i libri e li rimetteva altrettanto diligentemente a posto. “Fin troppo gentile” disse il commesso. “Era il minimo che potessi fare. Come ti chiami?” Eccolo, il tu. “Abramo.” “Non è un nome certamente molto comune oggi.” “Ma è comune la sua storia.” “Fammi indovinare. Dovevi essere una bambina e chiamarti Sara, ma le cose non sono andate come desiderato. Perciò Sara è diventata Abramo.” “Esatto. Per fortuna che il nome auspicato non era Margherita. Altrimenti sarei stato un Vittorio Emanuele.” “Ah ah, giusto. Piacere, Federico. Lavori da poco qui? Ci vengo spesso e non ricordo il tuo viso.” “Sostituisco una ragazza che credo si sia licenziata, quando si è sposata e poi sembra si sia trasferita; ma sono soltanto in prova.” “Si capisce allora la tua solerzia nel voler aiutare i clienti. Fai bene. Ma non sei stato fortunato oggi: ti è capitato il più antipatico.”

Il commesso rise. Il ghiaccio era rotto ormai. “Lei non è affatto antipatico. Direi piuttosto …” “Strano! … Oh, no! Scusa! Adesso ti metto di nuovo in imbarazzo. E puoi darmi del tu.” disse Federico, che poi, cambiando tono, continuò: “Dunque eravamo rimasti a …?” “Alla sottile distinzione tra particolare e bello,” disse Abramo. Federico adocchiò una delle poltroncine con lampada da lettura, che il titolare della libreria aveva voluto come nota singolare di arredo e che erano molto apprezzate dalla clientela. Le persone potevano sedersi e sfogliare comodamente i libri, prima di scegliere quali acquistare. “Peccato che tu non possa sederti – disse Federico – Avrei tante cose da dirti su questo. E mi farebbe piacere conoscere il parere di uno che vende libri.” Abramo rimase perplesso per un attimo e disse: “Non c’è nessun altro in negozio. Finché non arriva qualcuno posso ascoltarla.” “Ascoltarti. Diamoci del tu,” insistette Federico, il cui primo invito era andato evidentemente a vuoto. “Okay. Ascoltarti.” Abramo prese una sedia e la portò vicino alla poltroncina, dove Federico si era già seduto.

Federico si mise nella posizione più comoda accavallando le gambe e disse: “Una cosa particolare dovrebbe essere sempre bella. Sono arrivato alla convinzione che, se uno vive qualcosa di particolare, riesce sempre a vedervi del bello.”

“Può essere”, disse Abramo.

“Dimmi! Che cosa stai vivendo di bello adesso? Posso chiederti se hai una ragazza?”

“Ce l’ho.”

“E ovviamente è bella.”

“Lo è.”

“Ma se ti chiedo se è anche particolare, so che ti metto in imbarazzo.”

“Può essere.”

“Eh no. Non vale! Io gioco la partita in attacco e tu ti chiudi in difesa? È o non è particolare?”

“Non abbiamo detto cosa intendiamo per particolare.”

“Se è per questo, non abbiamo detto neanche che cosa intendiamo per bello, però tu hai già trovato un correlato del bello, cioè la tua ragazza. Quindi tu potresti dare una definizione del bello; quanto meno potresti dare del bello un esempio concreto e da lì partire per un tentativo di definizione. O no?”

“L’amore rende tutto bello.”

Federico sorrise. Pensò a lungo. Appoggiò il libro che aveva in mano. Accavallò le gambe. Fissò Abramo dritto negli occhi. Poi lentamente cambiò posizione: allargò le gambe, poggiò i gomiti sulle ginocchia e, continuando a fissarlo dritto negli occhi, disse con un tono di voce basso e quasi ieratico: “E il dolore no? Caspita! Il dolore ha il potere di rendere qualsiasi cosa, qualsiasi persona, qualsiasi situazione bella tanto quanto l’amore.” Federico aveva abbassato il tono di voce e pronunciato quella frase quasi come un sacerdote dal pulpito. Aveva effettivamente un’aria un po’ sacerdotale, pensava Abramo, quel curioso cliente. Il commesso non rispose e Federico lo guardò fisso negli occhi per un altro attimo, che ad Abramo parve lunghissimo. Poi continuò: “Ma forse, Abramo, tu sai già che cosa sia il dolore.” Abramo non disse nulla. Si stava rendendo conto che era in atto una fase di falsa dialettica in cui il cliente stava in realtà usando lui come pretesto per un dialogo che invece era con se stesso. Infatti Federico chiuse gli occhi e disse: “Se hai avuto esperienza di dolore, sai apprezzare l’amore. Come si può pretendere di riconoscere il giusto o l’equo, senza avere esperienza dell’ingiusto o dell’iniquo? Come fai a dire che una cosa è bianca, se non sai distinguere il nero? Non esistono le antinomie. Non riesco a immaginare che il pavido sia il contrario dell’audace. Per me sono due facce della stessa medaglia. L’una non può esistere senza l’altra. Non convieni?” Anche l’uso del verbo convenire aveva un sentore vagamente religioso in quel contesto. Abramo annuì con il capo. Gli sembrava di trovarsi nella singolare posizione di chi sta giocando una partita fuori casa nel negozio in cui lavorava. Federico disse: “Ti sto annoiando? Attento, se dici di no troppo presto, vuol dire che non hai riflettuto abbastanza e che la risposta potrebbe essere anche sì, l’esatto contrario.” Abramo cominciava seriamente a pensare di essere di fronte a una particolare forma di persona non del tutto a piombo, forse proprio uno squilibrato, e iniziò a guardare verso la porta, sperando che l’ingresso di un’altra persona in negozio lo salvasse, meglio ancora se bisognosa del suo aiuto: uno che non legge molto e, dovendo fare un regalo, ha bisogno di consigli; uno che legge anche troppo e vuole sapere se è già uscito il volume che attende da tempo. Insomma, un salvatore.

“Tu non stai pensando che un cliente normale debba fare quello che sto facendo io e debba dire quello che sto dicendo io. Vero?” Abramo si strinse nelle spalle ed ebbe la risposta giusta: “Non so se sia normale o no. Sicuramente inconsueto. E comunque credo che qui ci siano tanti libri che possano essere definiti particolarmente belli.”

“Ho una mia idea, molto personale. Si tratta di questo, Abramo. Un libro diventa particolarmente bello quando sei costretto ad interrompere una lettura che non avresti voluto che fosse interrotta. Quando non riesci a fermarti. Quando finisci un capitolo e desideri iniziare il successivo. Quando ti viene voglia di tornare indietro e rileggere una sequenza che ti ha colpito. Quando nel leggere senti il tuo cuore partecipare. Quando una vicenda narrata richiama momenti della tua vita o ti induce anche soltanto a pensare ad alcuni di questi. Quando, dopo averlo letto, vorresti anche tu avere la capacità di scrivere come l’autore delle pagine che hanno impresso un sigillo nella tua anima. Ma anche quando nel leggere ti rendi conto che gli occhi si sono inumiditi. Può succedere. Ti è mai capitato di leggere e di commuoverti?”

“Credo dipenda dalle sensibilità.”

“Certamente. Ma tu hai questa sensibilità?”

“Si tratta di una cosa molto personale.”

“Cosa c’è di impegnativo nell’ammettere che ci si può commuovere quando si legge?”

“Tu sei un cliente e io un commesso di una libreria: ti pare giusto che ti dica che mi commuovo se leggo qualcosa?”

“Lo faresti?”

“Forse sì.”

“Si o no?”

Abramo si girò verso la porta d’ingresso del negozio. Non rispose. Iniziò ad aprire a chiudere senza un senso libri impilati sul grande tavolo centrale. In particolare uno.”

“Che libro è?” chiese Federico.

“Si tratta di un thriller un po’ speciale di un giovane scrittore tedesco. Opera prima. Dicono che sia bello.” Aveva mentito. Non era un thriller, non era tedesco l’autore.

“Bello, ma non particolarmente bello. Convieni sul fatto che un libro bello diventi particolarmente bello quando risponde alle condizioni che ho appena elencato?”

“Credo ci sia del vero in quello che hai detto.”

“Oh insomma! Forse … credo … potrei … mi pare … sì, ma … Abramo, tu devi vendere libri e devi sapere come si consiglia una lettura non solo bella, ma particolarmente bella. Che è bella lo può dire l’agente che la pubblicizza, l’editore che la pubblica, il critico che la recensisce. Che è particolarmente bella non te lo dirà nessuno se non chi ha letto quel libro vivendolo spiritualmente, chi ha patito una sorta di attrazione e di condizionamento nervoso durante quella lettura, chi non si è vergognato di dirti che si è commosso leggendo. Se ti dicessi che un bel libro mi fa anche piangere, mi crederesti o mi riterresti una persona non in grado di controllare le proprie emozioni, una sorta di psicotico?”

“Come si fa a controllare le emozioni e ad amare la grande letteratura?”

“Abramo, ti vorrei abbracciare. Hai detto una cosa bellissima. Ti sei reso conto della grandezza di quello che hai appena detto?”

“Forse non del tutto. Mi sembra quasi naturale che sia così.”

“Naturale … mah … Perché non spirituale? La bellezza, quando è naturale, ispira interesse, suscita sicuramente attrazione, ma non coinvolge completamente sentimenti ed emozioni, non fa sognare, non rende l’oggetto ammirato unico e irripetibile. Quante cose ci sono che sono belle e naturali? Tu dici alla tua ragazza che è bella e naturale?”

“No.”

“E allora?”

“Allora dovrei dirle qualcos’altro.”

“E dovrei essere io a tirarti fuori con le tenaglie questo che hai chiamato qualcos’altro?”

“Tu credi che sia lo spirito a farci considerare qualcosa come bello?”

“No. Credo che sia lo spirito a farci considerare qualcosa come particolarmente bello. Non è forse la stessa cosa di quello che hai appena dichiarato tu, dicendo che la grande letteratura non si può amare se si controllano le emozioni? Non significa forse ammettere l’esistenza di un motore più grande che muove tutto questo? Qual è questo motore? Come lo chiameresti? Dove lo cercheresti? Come lo alimenteresti? Ecco: ripercorriamo a ritroso il cammino: come lo alimentiamo? come lo cerchiamo? come lo chiamiamo? che cos’è? Lo dici tu o lo dico io.”

“Credo sia più bravo tu.”

“Credi male e hai di te stesso un’autostima insufficiente, allora, dopo aver detto una frase di una grandezza immensa. Ma, se proprio preferisci che sia io a concludere il ragionamento, ti dico che lo alimenterei con i sogni e le emozioni che una lettura mi provoca, che lo cercherei nel cuore, che lo chiamerei spirito e che sarebbe la cosa più bella e particolare che possa aver scoperto.”

Federico si alzò. Prese il libro che Abramo svogliatamente stava aprendo e richiudendo. Ne lesse la prima pagina. “Lo compro.”

Abramo andò alla cassa, ricevette da Federico il bancomat, gli fece lo scontrino. Federico lo salutò dicendo: “Ci rivedremo.”

“Forse. Fammi sapere se ti è piaciuto il libro,” disse Abramo, inserendo tra le pagine del libro un biglietto pubblicitario della libreria, su cui scrisse il proprio indirizzo di posta elettronica.

“Solo se sarà stato particolarmente bello.”

“Giusto.”

Federico nell’uscire dal negozio si soffermò sulla copertina del romanzo acquistato: un’immagine di un grande aquilone stilizzato su un cielo di grandi nuvole bianche; su una di questa era scritto il titolo La cosa più bella della vita e su un’altra l’autore, Abramo Di Donato. Non aveva scelto a caso. Aveva capito da come il giovane apriva e chiudeva nervosamente le pagine di quel libro che si trattava di un volume diverso dagli altri. Dunque Abramo era un autore. Aprì il libro e nel risvolto della copertina lesse le brevissime note biografiche, nelle quali si diceva che Abramo Di Donato, figlio di un ingegnere e di una ricercatrice di chimica industriale, era alla sua opera prima e che si era laureato lui stesso in chimica industriale. Curioso. Davvero curioso, pensò subito Federico, che non attese di essere arrivato a casa per iniziare la lettura del volume. Ne fu rapito sin dalle prime pagine in quella giornata di nebbia che lo aveva prima portato in quel negozio, poi gli aveva fatto conoscere Abramo, una giornata nebbiosa che non era di certo un male venuto per nuocere. ‘La cosa più bella della vita’ era una ragazza di nome Roberta, attorno alla quale si intrecciava una vicenda romanzesca, ma con il taglio, spesso ironico, del saggio e della riflessione sulla bellezza. ‘Geniale!’, fu il commento che gli venne, quando, alcuni giorni dopo, ebbe finito la lettura del libro, che nel finale gli apriva interessanti prospettive di analisi e discussione. Insomma, un testo da recensire.

Passarono diversi giorni. La commessa che Abramo aveva sostituito era rientrata, oltretutto prima del tempo previsto, e Abramo si era così ritrovato senza lavoro. Stava girando senza meta per la vie del centro, quando decise di sedersi a prendere un caffè. Nell’attesa prese il cellulare e controllò la posta. Federico aveva mandato una mail, ma era un link che rimandava ad un altro sito. Scoprì che era un agente editoriale e che diversi anni prima, forse prima di intraprendere quell’attività, aveva anche scritto un romanzo, una raccolta di racconti e due saggi. Il link inviato per posta elettronica lo rinviò ad una pagina di recensioni. Federico ne scriveva qualcuna e il suo nome, Federico Stoppa, era nel lungo elenco dei collaboratori a quella pagina. Lì c’era la recensione del libro che aveva acquistato quel giorno in libreria, dopo la singolare discussione sul particolarmente bello. Era brevissima. Iniziava così: “Non me ne vogliate se vi dico che ho acquistato questo libro per caso. Ma forse non l’ho preso per uno scherzo della sorte, se penso che l’ho quasi divelto dalle mani di un giovane commesso che, tra una cosa e l’altra, mi ha rivolto questa domanda: ‘Come si fa a controllare le emozioni e ad amare la grande letteratura?’ Qualunque cosa questo giovane autore avesse intenzione di dire è veramente immensa ed è spiegata in modo originale in queste pagine. Quel giovane dalle cui mani ho preso il libro si chiama Abramo. E lui, non certo io, che non ne sono degno, vi spiegherà come sia assolutamente impossibile amare la grande letteratura, pretendendo di controllare le emozioni”. Seguiva una breve sinossi dell’opera. Abramo rispose alla mail, con il suo solito stile un po’ laconico, mai troppo verboso: “Grazie mille per le belle parole. Belle e, credo, particolari.” Immediata la risposta di Federico: “Era il minimo che potessi fare. Finalmente siamo arrivati al dunque. Il bello diventa particolarmente bello, quando alle solite categorie accademiche, che noiosamente leggiamo sui saggi e sui manuali, si aggiunge qualcosa di tuo, che lo scrivi, qualcosa di mio, che lo leggo, e nasce una condivisione dello spirito. Questo libro lo è. Complimenti. Faremo una presentazione pubblica al più presto e ci sarò anch’io, Abramo.” E nacque un’amicizia.

© 2018. Stefano Tramonti

Sul confine

Si muovevano, neri e agitati, in balia del vento, tra nubi nere e fluttuanti. Come un aquilone. Erano neri i suoi capelli, come le nubi sopra di noi. Neri anche gli occhi, come l’orizzonte che cercavano, sfuggendo ai miei. La sua chioma si agitava. La faceva armonicamente, come volesse seguire il ritmo del flusso e riflusso dell’onda sulla battigia. La melodia del mare era assordante, furente, un fortissimo di quelli che sullo spartito troviamo solitamente nel rigo finale. Ma qui siamo alla fine o all’inizio? Desideravo tenere saldamente il filo di quell’aquilone. Lo desideravo ora con tutte le mie forze. Ma ogni cosa opponeva resistenza: quegli occhi sfuggenti, il vento che rendeva imprendibili e incontrollabili quei capelli, l’onda fragorosa. Quanto avevo amato quei capelli! Quante volte li avevo accarezzati! Quante volte le mia mani avevano obbedito ai suoi ordini, mentre glieli pettinavo come voleva lei, o meglio, come voleva lei assecondando un desiderio che era tutto mio e affidandomeli con un atto di fiducia che richiedeva rispetto. Ma il vento aveva il sapore del sale in quel momento. Tutto sapeva di sale. I nembi neri oscuravano il sole e, in quel nero che avanzava con naturale semplicità, il nero dei suoi capelli era la cosa più congrua e naturale, più semplice e conveniente, come il nero degli occhi. Semplicità: era la parola che mi veniva in mente, e lo faceva in un momento in cui nulla sarebbe apparso semplice. Non lo era parlare, non lo era sentirsi, non lo era camminare. Ma semplicità poteva significare anche ricerca di un’occasione naturale. E dunque? se lei mi aveva dato appuntamento lì, in spiaggia, in una gelida giornata di fine autunno, nell’unico bar che rimane aperto tutto l’anno, per lei era naturale e semplice che ci vedessimo lì? Naturale e semplice. Dovevo sentirmi ancor più semplice dei suoi piedi nudi che danzavano sulla sabbia bagnata dalla schiuma, più semplice del sorriso che cercava di nascondersi da troppo tempo, senza riuscirci, più semplice degli occhi che sfuggivano alla ricerca di un orizzonte, di un fine indistinguibile. Si era alzata dal tavolino del bar dove eravamo le uniche persone, oltre al titolare che sfogliava un quotidiano. Mi prese per mano. Era naturale anche quel gesto. Mi portò verso la spiaggia, al di là della duna di sabbia, oltre l’esile fascia della pineta costiera. Arrivata alla battigia, si fermò e si sedette per terra. Lasciò che l’onda le bagnasse i piedi. Avevo lasciato la presa della sua mano. Ero rimasto un po’ indietro, per ammirarla. Ero in balia di lei e della sua naturale e disinvolta semplicità; ero in balia di quel paesaggio furioso. Non le volli rubare la scena. Sollevò l’abito lungo nero, quanto bastava perché non si bagnasse e perché il semplice e naturale candore delle sue gambe si illuminasse ancora di più. Mi invitò a sedermi accanto a lei.

La raggiunsi in quella semplice solitudine. Non mi curai di aver lasciato l’auto aperta nel parcheggio del bar e nemmeno di aver lasciato la borsa del lavoro sul tavolino del bar, su cui avevamo appena scambiato quelle parole di convenienza tipiche di quando due persone non si vedono da tempo; neppure di essere in una specie di divisa da lavoro con un completo grigio, mocassini lucidi, cravatta e camicia. Non mi curai, insomma, di essere una forma cittadina del tutto incongruente in quel contesto. Non ero il prescelto protagonista di quella scena. Mi sentivo comparsa. Mi tolsi soltanto scarpe e calze per poter condividere con lei quella fragile posizione di confine tra terra e mare, che lei aveva scelto. Mi tolsi la giacca, allentai il nodo della cravatta e sbottonai il colletto della camicia. E allora mi lasciai coinvolgere dal turbinare a mulinello della sabbia, dall’accatastarsi disordinato delle conchiglie, portate, riprese e riportate dallo sciabordio ritmico della risacca, mentre l’orizzonte univa acqua e aria in un informe magma grigio, agitato dalla bora scura: rinforzava di minuto in minuto e scuoteva tutto, sconvolgeva tutto, mescolava tutto quanto per troppo tempo era stato ordinatamente separato. Iniziavo a capire che non ero una più una comparsa in quel gioco. E quello non era più un gioco.

Avevo ancora trenta minuti di pausa pranzo. Mi parvero un’eternità. Non c’era tempo in quello spazio senza tempo. Non c’era certezza in quel confine, ricco della sua naturale semplicità, un confine che con sicura e beffarda disinvoltura negava ogni certezza.

“Non sai nulla veramente della mia vita.” Pronunciò quella frase appoggiando la testa sulla mia spalla, lei alla mia sinistra, io alla sua destra. Mi dovevo stupire? Con le braccia avvolse le proprie gambe. La imitai assumendo la stessa posizione. L’acqua fredda ci bagnava i piedi. “Credevi di sapere qualcosa, ma non sai nulla.” All’orizzonte le nubi si facevano sempre più nere. Ma lei non se ne curava. Io ancora meno. Il freddo dai piedi cercava di salire dentro di noi. Freddi erano i ricordi. Gelido il passato. Ma intesi la situazione che si creava su quel confine come una necessaria espiazione, in attesa che tutto il caldo conservato dal tempo malato potesse uscire e disinfettarsi. Non parlai. Parlò lei.

“Mi presero in ufficio per la sostituzione di una maternità. Avevano tanto lavoro da sbrigare. Non potevano restare con una persona in meno per così tanto tempo. Forse al direttore piacqui. Chissà. Spero che mi abbia scelta perché brava, ma temo che lo abbia fatto perché gli piacqui.” Era veramente gelido quel ricordo. Sapevo che non era vero quello che aveva appena detto. Il titolare dello studio per cui allora lavoravo anch’io aveva preso informazioni su di lei e sapeva che era brava. Una violenta ventata improvvisamente le scompigliò del tutto la chioma, prima raccolta in uno chignon frettolosamente eseguito, a cui mancava l’amore che un tempo avrei potuto dedicare a quei capelli. La bora li aveva liberati completamente. Li portò sul mio viso. Un’energia e una vitalità che ben conoscevo. Uno schiaffo. Una sberla del vento. Una lezione di quella natura che lì non amava essere contraddetta. Ne afferrai una ciocca e iniziai ad accarezzarli. “Lo facesti quel giorno in cui uscimmo a prendere il caffè dopo la riunione. Lo ricordi?”. Non esitai a rispondere “Sì”. La testa di lei era sempre appoggiata alla mia spalla. Era tutto semplice e naturale.

“Tu pensi che io sia una ragazza dal sud, una di quelle che, come tante, è venuta in cerca di un mondo migliore al nord. Tu pensi che questi occhi neri, questi capelli neri, questo carattere deciso e determinato siano tipici di una donna di origini meridionali. Tanti lo pensano. Donata non è un nome che circoli molto da queste parti. Il mio non è un cognome di queste terre fredde e umide.” Anche questo ricordo era freddo. Stava giocando con il tempo. Avrei risposto dicendo una cosa scontata; avrei risposto dicendo che tante città del nord, soprattutto quelle più industriali come la nostra, hanno una popolazione ormai mescolata, in cui le distinzioni tra nord e sud si sono attutite con il passare delle generazioni; avrei risposto che quella città in cui vivevamo era un grande paese prima della costruzione dell’area industriale, prima dello sviluppo dell’indotto nell’entroterra, avrei potuto anche dire che ormai di quell’immigrazione, che un tempo aveva dato sviluppo e ricchezza, restava solo un ricordo in tanti capannoni che la crisi aveva visto chiudere; avrei potuto ricordarle, sempre per rispondere con freddi ricordi alle sue altrettanto fredde provocazioni, che di quelle tante famiglie, che avrebbero portato la ricchezza proprio con la loro povertà, restano ormai solo nuclei di anziani che vivono di solitudine nei quartieri popolari; avrei potuto dirle che neanche la mia famiglia poteva vantare un pedigree puro, che mio padre era un militare che si era spostato per lavoro in mezza penisola e che mia madre era un’insegnante che cercava di seguirlo dove poteva; avrei potuto annoiarla in tanti modi, rispondendo al freddo con altro freddo, ma risposi con poche parole: “Sapere tutto di una persona può essere impegnativo.” Strozzata dalla bora uscì solo quella risposta. E continuavo ad accarezzarle i lunghi capelli neri che mi avevano fatto sognare, con i miei piedi nudi accanto ai suoi, con la sua testa sempre dolcemente poggiata sulla mia spalla sinistra, con la bora che rinforzava, con le onde che, tagliando di traverso la linea della spiaggia, si accavallavano le une sulle altre. Una risacca cattiva, arrabbiata, che serviva a scuotere il caos del tempo, a rimescolare tutte quelle false certezze che avevano portato solo errori e tanto, troppo dolore. Avevo sempre dato tutta la colpa a me di quegli errori. Il mio ruolo era davvero soltanto quello della comparsa? Avevo letto bene quel copione?

“Ogni tanto ci penso, sai? Penso alle nostre radici.” Disse scandendo le parole. Scuffiai. Non so perché. Mi venne un assalto d’ansia a quel ricordo delle radici. Mi infastidiva. Eppure dovevo assecondarla. Stava per dire qualcosa di importante e, se mi aveva dato appuntamento lì, in quel posto e in quel contesto così particolare, dove solo i suoni della natura dettavano regole, era perché aveva una storia da raccontare. Ormai era evidente. Dimenticare la mia storia e lasciare che protagonista fosse solo la sua. Solo quello dovevo fare. Troppo spesso avevo preteso di imporre le mie scelte. Quell’abisso tutto mio andava trattato con delicatezza. Come il marinaio  abbiscia in ampie spire la cima perché poi, si sa, deve essere riutilizzata in modo veloce e agevole, così io feci tesoro delle mie parole. Non parlai.

“Ci lasciammo, o meglio, ti lasciai un giorno di giugno. Eravamo usciti due sere prima. Forse hai dimenticato tutto.” Non avevo dimenticato nulla, ma non parlai, tenendo fede al ruolo di finta comparsa che mi ero imposto. “Andammo a cena in un ristorante di collina. Veramente molto bello. Era sui primi colli. Un posto meraviglioso, di quelli che solo tu sai scegliere. Ricordo come si vedevano chiare e distinte le luci delle città della pianura. Era una serata fresca e limpida. Tanto limpida quanto fu la decisione che presi, ma non ebbi il coraggio di esprimerti.” La sua testa si alzò dalla mia spalla. I suoi capelli sfuggirono alla presa delle mie mani. Il vento li dominava portandoli ovunque intorno a noi due. La bora dava voce alla pineta, poche decine di metri alle nostre spalle: tra quei rami di pino, solitamente placidi, ora agitati e sconvolti, uscivano rumori orribili, fischi acuti; per lei erano voci di divinità dimenticate da secoli che forse chiedevano di essere ridestate. Me lo disse convinta un giorno. Solo la natura aveva di quei poteri, mi disse un altro giorno, uno di quelli in cui la passione invitava a quelle riflessioni. “Finì tutto due giorni dopo. Finì in un’illusione tremenda. Mi illusi di aver chiuso un capitolo, semplicemente come se ne apre un altro, voltando pagina, come quando si fa mentre si legge un libro. Ma non era così che funzionava la vita. Non lo sapevo. Mi illusi che la vita fosse come un romanzo. Ma …” Quella frase incompleta chiedeva forse che io la finissi? Il vento aumentò d’intensità. Un’onda più lunga arrivò oltre i nostri piedi. Il velo nero delle nubi all’orizzonte si aprì per un attimo. Filtrò una luce. Fu come un flash. Poi il vento ricompattò i nembi. La parole che avrei potuto dire ondeggiavano nella mente cercando di uscire, ma, come l’acqua sciaguatta in una bottiglia non ben chiusa durante un viaggio su strada sconnessa, alla fine restarono al sicuro. “Ma …” La vita non è un romanzo. Sì, ne ero convinto anch’io; dovevo darle conferma? Ma era evidente che la vita non è un romanzo. Avrei detto quello che lei stessa avrebbe potuto dire. La vita forse non è un romanzo, ma è l’insieme di tanti romanzi, di tanti stili, di tanti generi; la vita è un po’ noir, un po’ romanzo rosa, un po’ thriller, un po’ anche fantasia e creatività; più o meno delicatamente e pericolosamente condotta su un gioco di psicologie difformi, sempre in bilico, sempre indecisa tra la certezza di un passato, che, bello o brutto, è pur sempre una realtà che ti salta addosso quando meno te l’aspetti, e l’incertezza di un futuro che, quasi sempre, riesce solo a fare tanta, tantissima paura. C’è un tempo per tutto nella vita, per ridere e per piangere. L’importante è sapere che quei due tempi vanno vissuti entrambi, perché l’unico possa essere compreso e vissuto grazie alla consapevolezza dell’altro. Alcuni ne raccolgono tutto il peggio, altri tutto il meglio. E vengono fuori vite più belle e vite più brutte. Fu questo, in tutta la più naturale semplicità, che ci dicemmo quel giorno, quando lei prese la decisione di andarsene. Avrei fatto bene a dirlo? Non lo feci. Le avrei fatto del male? Forse sì. Mi lasciai accarezzare i piedi da quell’acqua gelida che dava l’impressione di una forza più sicura e pulita, più incessante e determinata di quanto fosse il mio animo in quel momento. E, tenendo fede al mio intendimento, non parlai.

“Non sai proprio nulla della mia vita. Ho vissuto una guerra, una vera guerra, una di quelle a cui tuo padre per una vita si è sempre esercitato, ma non ha mai combattuto.”

Pronunciò quelle parole con la voce come strozzata. Lo sciabordare ritmato e regolare del mare vinse e lasciò incompiuta anche quella frase. Sollevai la mano sinistra. Stavo per appoggiarla sul ginocchio destro di lei che continuava a tenersi le gambe strette tra le braccia. Poi la ritrassi. Non appena la mia mano fu di nuovo lontana da lei, la sua mente fu come attratta da un mondo di ricordi e sovrastata da una mole di immagini che sembravano evocare solo dolore. Questo dicevano quegli occhi neri, che io conoscevo molto bene. “Non sai proprio nulla della mia vita.” Era ancora più strozzata quella voce. Mi voltai. I nostri sguardi si incontrarono. I suoi occhi erano lucidi. Di scatto girò la testa verso il mare che lontano mugghiava contro i massi delle barriere frangiflutti. Ascoltai il seguito non più nel ruolo di comparsa presa dalla strada, ma in quello direttamente coinvolto nella trama. Adesso ero un attore vero.

“Sono nata a Mogadiscio. I miei sono del sud. Mio padre era andato a insegnare ingegneria all’università. I rapporti della Somalia con l’Italia erano buoni allora. All’università tutti parlavano italiano. Nessuno di noi voleva sapere cosa ci fosse dietro a quegli accordi. Si lavorava. Si studiava. Dopo la caduta del presidente i miei decisero di restare, quando tutti gli italiani invece lasciarono il paese. Mio padre trovò un lavoro come ingegnere per una società inglese con sede in Kenya. Mia madre perse ovviamente il suo posto. Ci trasferimmo in una zona a sud di Chisimaio, ritenuta dagli inglesi sicura. Una mattina mi svegliai da sola. Erano entrati in casa. Avevano ucciso le tre guardie che ci proteggevano. Dei miei genitori e di mia sorella, più grande di me di due anni, non seppi più nulla. Non so perché mi lasciarono lì. Avevo tredici anni. Fui presa in casa da una famiglia inglese chi mi mise in contratto con la mia ambasciata. Mi trasferirono a Nairobi, in Kenya, dove vennero a prendermi gli zii che vivevano a Milano. Crebbi con i miei cugini, che furono più che fratelli per me. Lo zio venne poi trasferito in questa città, in un ufficio del porto. Per anni siamo vissuti nella speranza che il babbo, la mamma e mia sorella fossero stati rapiti da una banda che ci avrebbe chiesto un riscatto. E invece non si è più saputo nulla. Non hai idea di cosa possa significare convivere con il ricordo dei tuoi genitori e di tua sorella, a cui non puoi nemmeno versare una lacrima in un camposanto. Quella che ho vissuto fu una guerra. Una guerra vera. Una delle più brutte. E per me non è ancora finita.”

Quando si sente il cuore balzare in gola si vorrebbe dire qualcosa, ma non ci si riesce. La mia bocca tentò di aprirsi. Ma le mie parole rimasero dentro. ‘Non dire nulla’: avevo fatto un patto con me stesso. Lei mi prevenne con grande tempismo e accortezza. Ma, anche se avessi parlato, non avrei detto nulla di banale. Pensai solo ai bei momenti passati insieme. Sei anni. Per cinque anni anche colleghi di lavoro. Poi lei si licenziò. Mi lasciò per un altro con cui credo che le cose non siano andate mai bene. Di lei non persi mai traccia. Con una scusa passavo davanti all’uscita del suo nuovo ufficio. Andavo a fare la spesa dove sapevo che andava lei. Quando mi vedeva, non si dimostrava mai irritata per la mia presenza. Al contrario. Mi sorrideva e quei capelli neri, sciolti o raccolti che fossero, quei vivaci occhi neri, mi facevano poi sognare per ore, perché ne ero sempre innamorato, come il primo giorno. Mi convinsi del fatto che il mio errore sia stato quello di non averglielo mai detto abbastanza. Forse nemmeno quando stavamo insieme ero riuscito a farle veramente capire l’intensità del mio amore per lei. Non saprei. Se lei mi ha chiamato qui è per farmi quella rivelazione sul suo passato. E se ha sentito il bisogno di farla, significa forse che esiste un altro bisogno? quello di riaprire un dialogo? Non parlai. Mi aveva appena detto di non dire nulla. Non dissi nulla. Il pensiero andò allora all’altro capo del filo, dove tutto ebbe inizio. E allora tutto mi fu chiaro. Ero sul punto di farla uscire allo scoperto, quando fu lei ad aprir bocca: “Le guerre nascono dall’odio e ne seminano ancora di più nelle generazioni che seguono. Chi le ha vissute da vicino conosce meglio di chiunque altro la forza dell’amore.” Un acuto sibilo di vento interruppe quelle parole. Un tuono molto lontano rafforzò la convinzione che tutto quel passato pieno di putredine e marciume dovesse essere sciacquato via da quella tempesta in atto. Una sferzata di bora le scosse il vestito e le scoprì una gamba. Non se ne curò. Un altro colpo di vento le gettò sul viso la mia cravatta. Sulle mie mani e sulle sue l’aria salmastra deponeva salsedine. Era una sensazione meravigliosa. Un altro tuono. E poi una veloce sequenza di altri lampi e altri tuoni in lontananza, laggiù dove tutto si confondeva, in quell’abisso dove lo spazio era tempo e il tempo spazio.

Era stata assunta da una settimana, ma tutti in ufficio eravamo rimasti colpiti dalla sua bellezza. Succede. Una bellezza speciale, semplice e naturale, come tutto lì era semplice e naturale. Oggi come allora. Era bella. Certo. Aveva tutte le curve al posto giusto. Certo. Avrebbe dimostrato di dare anche nell’amore una soddisfazione che poche sarebbero riuscite a dare. Certo. Tutto era naturale. Di più: per me tutto era semplice. Ma non era quello il sentimento che s’insinuò nella mia vita dalla bellezza che si diffondeva dalla sua. Era altro; era un atteggiarsi della sua persona ora dolce ora vagamente nobile, ora semplice e naturale ora malinconico e misterioso. Fu quello che fece scoccare la freccia. Eppure, non era così misteriosa quella movenza. Aveva dei caratteri definiti. Era un modo di eseguire i lavori ordinati dal suo capo con una naturalezza alla quale erano ignote stanchezza, noia e contrarietà. Era un sentirsi sostanzialmente felice, a proprio agio e serena in quell’ufficio dove rimbrotti e lamentele erano invece assai frequenti. Questa era la sua bellezza, alimentata dalla semplicità: sorridere, sorridere, sorridere. Sorridere facendosi la coda di cavallo. Sorridere leggendo una mail appena arrivata nel computer. Sorridere quando le veniva chiesto di finire un lavoro, che forse avrebbe richiesto un po’ di straordinario. Sorridere quando le veniva chiesto di andare in posta o dal notaio sotto la pioggia. Sorridere al direttore, quando le veniva chiesto come mai era arrivata dieci minuti in ritardo: “Domani arriverò venti minuti prima, se necessario,” rispose un giorno, disarmando in un attimo l’acidità del rimbrotto. Il resto non contava. Un giorno inviammo dai nostri due computer una stampa di un documento alla stessa stampante. Ci trovammo nella situazione più normale che può capitare in un ufficio: davanti al cassetto d’uscita della stampante con due fogli da prendere. Ma non guardammo i fogli. Io guardai gli occhi di lei. Lei guardò i miei. E io presi il documento di lei, lei prese il documento mio. Il fatale sbaglio. L’orario del mattino stava terminando. Appena tornati nei nostri uffici, mi arrivò una mail nella casella personale: “Pausa pranzo al bar sul molo del porto? Ho un documento che forse è tuo e tu forse hai un documento mio. Ce li possiamo scambiare lì, se vuoi.” “Va bene. Andiamo con la mia auto,” le risposi. E fu così che, oltre ai documenti, ci saremmo scambiati i numeri di telefono. E ci lasciammo, senza che io rimanessi fulminato da quei due occhi neri, di cui non avevo conosciuto nulla di più energico e vitale, semplice e naturale. Ricordo solo una cosa di lei. Una sola frase mi rimase impressa: “Ho un futuro che voglio vivere solo nella gioia.” Ora, solamente ora, posso dire di capire quella frase, pensai lì sulla battigia. Ma non parlai.

Ci sarebbe stato bisogno di tante parole. Fu sufficiente una folata di vento. Fu sufficiente che quel vento mi avvolgesse il viso con quei capelli. Fu sufficiente che quel sorriso ritornasse con tutta la sua energia. E allora la mia mano sinistra non ebbe più titubanza. Si protese verso di lei, che non strinse più le ginocchia.

“Credo di avere una cosa da darti ancora. Qualcosa ci deve aver distratto allora.” Estrasse dalla borsa un foglio. Era una fotocopia di un libretto di spese di carburante di un cliente dello studio in cui eravamo stati colleghi. Era il documento di quella stampante di tanti anni prima, quello che avevo stampato io, ma che aveva preso lei. “Forse anche il mio documento è rimasto a me,” le dissi “No, tu me lo hai dato. Io invece mi sono dimenticata. Sono troppo distratta.”

Nubi sempre più nere e mare sempre più infuriato. Il vento sollevava sabbia ovunque. Ci alzammo. Prendemmo le nostre cose e corremmo a sederci al riparo, al tavolino del bar dove avevo lasciato la borsa. Le prime gocce, ancora innocue. Non parlammo di noi, ma di lavoro, di vita di tutti i giorni, di spese, di progetti futuri. Ridemmo tanto. Non c’era bisogno di romanticherie. Il suo modo di parlare, di muoversi, di agire, di comunicare era già tutto plasmato dal sorriso. A me bastava quello. Ammiravo solo quello che per tanto tempo avevo sognato. Conoscevo le radici di quel sorriso. Tornammo insieme in città. Ognuno al suo ufficio. Ma con una promessa. Quella di non essere più distratti. Prima di mettere in moto, presi in mano quella stampa di vecchia fotocopia. E mi sfuggì un sorriso. La piegai con cura e la misi nella borsa.

Ero alla tv quando arrivò un suo messaggio: “Viviamo tutti in bilico, tutti sul confine. Prima eravamo tra acqua e mare, tra sabbia e onde, che si confondevano nel vento di bora. E nemmeno di fronte a noi il grigio del cielo e quello del mare erano distinti. Mi ero illusa che la vita avesse degli scompartimenti, che fosse come un mobile fatto a scaffali, dove i sentimenti, le esperienze, i sogni, gli errori, le emozioni, i ricordi dovessero stare ognuno in un cassetto o in uno scaffale diverso. E invece che non è così.”

“C’è un tempo per tutto,” le risposi. E poi aggiunsi: “E il tempo confonde tutto. Occorre il coraggio di aprire tutti quei cassetti e tutti quegli scaffali. E rimescolare tutto.”

“Va bene. Aiutami.”

Abbarbicati

Resto qui di Marco Balzano (Einaudi 2018) racconta una storia di radici, di gente di montagna, di abbarbicati, che attraversano la guerra, che vivono una delicata realtà di confine, gente che soffre per quelle lacerazioni e per quelle divisioni su cui già per decenni si è scritto e che, in forme diverse, tutte le nostre famiglie in Italia hanno vissuto, metabolizzandole chi in un modo chi nell’altro, talora superandole, talora no. Dietro la vicenda di Trina c’è quella di un paese cancellato da una diga, di una storia che vede passare guerre, governi e ideologie totalitarie e altre che pretendono di presentarsi democratiche cambiando le forme a sostanze che restano quelle di prima, forme di potere ‘vissute dal basso’, dal punto di vista di semplici valligiani, forme di potere che nelle teorie politiche si dichiarano avversarie, ma che per i montanari producono alla fine lo stesso risultato: a Roma cambia chi comanda, ma gli amministratori, dopo la sosta della guerra, riprendono tutti i progetti di prima, come se nulla fosse successo. Cambiano le uniformi di chi fa rispettare una legge lontana, ma le tute da lavoro di chi realizza quelle leggi sono le stesse di prima. Il libro presenta una narrazione fluida dall’inizio alla fine, senza mai una caduta di tensione, senza mai scadere in eccessi, senza dover mai usare la tecnica dell’elastico della tensione che, se troppo tesa, occorre che sia allentata, perché l’elastico non si rompa; di forte impatto emotivo risulta la forma quasi epistolare che il racconto assume nel dialogo a distanza tra madre e figlia emigrata. Manca, nondimeno, un elemento per me. E chi ama la montagna e ha imparato negli anni a viverla avverte questa carenza. Non si può parlare di persone di montagna senza dimostrare di amare quel paesaggio in un modo diverso da quello del turista che di Curon oggi vede solo il campanile, che spunta dalle acque del lago di diga, il bacino artificiale che di quel paese ha di fatto cancellato radici secolari. E anche quella copertina, con la foto del noto campanile della chiesa del paese sommerso, purtroppo offre una sgradevole sensazione ‘turistica’, quasi da home page di un sito che pubblicizza vacanze. Si poteva graficamente fare di meglio. Quell’immagine appare in certo senso appiccicata lì, come se non si fosse voluto fare lo sforzo di trovare altro: quell’immagine non riesce a rendere la profondità del dramma di una comunità che noi, passando disattenti e distratti, sulla strada del passo Resia, meritiamo di conoscere come sicuramente Marco Balzano ha fatto prima di scrivere il libro (lo dichiara nella postfazione). La figura di Trina e quella di Erich, i paesani, i loro figli, i parenti, la vita del piccolo paese, la resistenza di Trina fino alla fine, il suo antieroismo che assume le forme di un eroismo più vivo di quello del più coriaceo e combattivo Erich, tutto viene raccontato attraverso personaggi ben caratterizzati, ma che si muovono su una quinta sostanzialmente inerte. Non dovrebbe essere così: quella quinta è un paesaggio vivo, quel paesaggio viene colpito e stravolto, quella valle viene completamente snaturata; meriterebbe uno spazio maggiore, diverso, più vivo e meno anonimo questo contesto ambientale, non foss’altro per il ruolo narrativo che svolge dietro e sotto tutta la vicenda. Un buon voto al libro, ma alla fine della lettura resta l’impressione che qualcosa manchi.

Ancora un viaggio, ancora un’anima in viaggio

Soltanto un lessico nautico troppo tecnico e forse anche un po’ troppo esibito rende ostici alcuni passi di quest’opera, i cui pregi però alla fine s’impongono, grazie alla maestria con cui si dipana il rapporto di rivalità a distanza tra il protagonista e l’antagonista, nei più semplice degli schemi narrativi, che vogliono la presenza di un buono e di un cattivo. Ma quel buono, il dottor Patrick Sumner, e quel cattivo, il marinaio Henry Drax, si trovano insieme sulla stessa nave, in balia della stessa umanità disperata che porta una baleniera a solcare i mari del nord. Due figure che la scrittura di Ian McGuire pennella in tutte le loro sfumature. Di meno particolari ha sempre bisogno il cattivo. E così alla fine è. La sua turpitudine non conosce quel limite che nemmeno la sua raffigurazione letteraria riceve: il che è una nota di merito che il lettore appassionato riconosce allo scrittore. Ma è soprattutto la complessità della figura di Sumner a rimanere scolpita con la sua bellezza delicata e un po’ misteriosa e a riportare spesso avanti e indietro la lettura per meglio comprenderla. Un senso di colpa, generatosi in un passato trascorso come medico militare in India, un dolore dell’anima che assilla e travolge fino al punto di accettare il lavoro considerato più inutile: medico di bordo di una baleniera dove si lotta per sopravvivere e dove chi non è degno di combattere per sopravvivere non è nemmeno degno delle cure di un medico. Quasi un’espiazione diventa la scelta di Sumner. Del resto, è noto che le ricette migliori sono quelle che amalgamo gli ingredienti: e così, dal sapere realizzare con indubbia sagacia espressiva una commistione tra racconto d’avventura e di viaggio, in un ambiente caratterizzato narrativamente sempre come estremo, dominato dalle bettole e dai porti prima, dal mare e dal ghiaccio dopo, e romanzo psicologico, dalla somma di caratteri umani spesso impossibili da coniugare, improbabili da trovare insieme, esce una lettura di quelle che risulta sempre difficile interrompere. E un libro che non si vorrebbe mai interrompere come lo si giudica di solito? Le acque del norddi Ian McGuire (Einaudi 2018) sono una rotta sicuramente assai agevole da percorrere tra le pagine del libro da parte di un lettore dal palato abbastanza affinato alla buona letteratura, sicuramente più agevole di quanto non lo sia stato per la ciurma dei suoi personaggi.

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