“Si può cambiare nella vita.” Si chiedeva stancamente ormai da tempo cosa significasse quella frase: era un mantra inascoltato o uno dei tanti fastidiosi consigli non richiesti, che avevano sdilinquito e non certo migliorato la qualità della sua vita alla ricerca di una motivazione? Sicuramente quella frase era un’ossessione che da tempo invadeva ogni spazio della sua vita, ogni momento in cui uno specchio di qualsiasi tipo gliela rifletteva impietosamente davanti attraverso la concretezza dei cambiamenti, in peggio, della sua persona: quelle parole, rimbombando in modo aggressivo e recando fastidio in ogni momento, a casa, sul lavoro, ovunque, con il passare degli anni, tuttavia, erano persino riuscite in un certo senso a edulcorarsi e addirittura a mantenere la dolce cadenza della voce che per la prima volta le aveva pronunciate. E quando arrivavano – sempre inattese e traditrici – era inevitabile che prendessero le forme di colei da cui erano venute: forme sempre ammalianti, piene di fascino; tanto più ora che quelle stesse forme non appartenevano più a una persona la cui presenza desse il ritmo alla quotidianità della vita; erano svanite quasi senza lasciare traccia; avevano, insomma, assunto piano piano la parvenza di un feticcio che si ama, ma che si vede sempre più da lontano, perduto ma sempre agognato e in ogni momento ossessivamente desiderato. A conti fatti, non sarebbe esatto dire che era andato perduto: sarebbe stato ben più più onesto dire che era semplicemente stato lasciato libero di andare per la sua strada.
Questa volta era alla guida in autostrada. Era una piovosa giornata invernale di metà dicembre. Aveva da ormai una decina di chilometri lasciato le ultime case di una città presa da quella frenesia da regalo che non condivideva ormai più con nessuno. Vedeva già i primi speroni di roccia imbiancati in cima, proprio come una fetta di pandoro, quando prima arrivarono le temute parole, poi le immagini. Tutto era temuto, sì, certo, ma era anche quasi adorato in quei momenti di ricerca di un abbandono a cui non riusciva a dare un nome, non essendo dolce ma sembrando dolce, non essendo tetro ma sembrando tale. Stava bene da solo, in quella solitudine che gli altri non mancavano di stigmatizzare con pedante pignoleria, spesso addirittura con quella fastidiosa saccenteria e con una certa boriosa aria di superiorità che tanti assumono quanto pretendono di sentirsi psicologi della sua vita. Proprio loro: i suoi tanti conoscenti (amici è impegnativo chiamarli) presi dalla sacra foga di elargire quei tanto detestati consigli non richiesti. E allora sì che facevano male quelle parole “Si può cambiare nella vita.” Quanto aveva riflettuto, chiedendosi per anni se, quando e come poter cambiare la sua vita e vedendola solo degradare nel tedio di una routine quotidiana senza una sola motivazione: ma soprattutto la riflessione che faceva più male, che fungeva da torchio, che faceva salire il cuore in gola, arrivava quando lo induceva a considerare l’imbruttirsi della sua vita nelle forme e negli aspetti più disgustosi. Disgusto era la parola che meglio rappresentava i monotoni e ripetitivi ritmi che imprimono la forma al vivere quotidiano di una persona che vive da sola in mezzo a un milione e mezzo di altre! I vetri dell’auto si stavano appannando. Cercava di mettere in funzione il dispositivo di disappannamento rapido, ma non funzionava. Niente funzionava più come dovrebbe in quell’auto che rispecchiava, neanche a farlo apposta, l’anima del suo pilota. Dopo due minuti i vetri erano di nuovo appannati. La pioggia fredda insisteva e avvolgeva quel guscio caldo che lentamente vi si immergeva. La strada rifletteva immagini distorte di luci e di ombre. Quel viaggio domenicale non aveva altro senso che quello di rompere la noia, di tentare una via d’uscita, di provare a cambiare qualcosa, lontano dall’ipocrisia della folla nel centro commerciale addobbato e sguaiatamente illuminato, lontano dai luoghi e dai tempi che amavano quelle persone da cui venivano i consigli non richiesti. “Si può cambiare nella vita”. Ora quelle parole riempivano il caldo abitacolo dell’automobile, infondevano con il loro suono una dolce e serena malinconia, il piacere del bel ricordo, la gioia dei momenti più belli, l’amore e la passione; tutto questo, nonostante il loro significato, nonostante il monito di un mantra che insegnava altro e che avrebbe voluto che la direzione impressa alla vita fosse stata un’altra, ben diversa da quella presa; tutto questo, mentre là fuori nel gelo, nella pioggia battente, andava in onda un altro film: la pioggia confondeva le immagini nel luccicare dell’asfalto, dove manto stradale, new jersey e guard rail davano vita a quelle curiose sfumature di grigio che avevano anche le nubi, dove le gocce correvano veloci sui vetri laterali, dove l’agitarsi troppo regolare del tergicristallo, lì davanti a lui, davanti ai suoi occhi, davanti alla sua persona che di tutto aveva bisogno tranne di che di un’altra monotonia, di un altro ritmo ripetitivo e ossessionante, come inevitabilmente era quello delle due spazzole, non contribuiva certamente a rasserenare l’animo. Quelle parole lo avevano prima lusingato con l’armoniosa dolcezza del suono e lo avevano attratto in un malinconico mondo di sogni e ricordi, di emozioni passate e desolati rimpianti, poi lo avevano duramente scalfito nel dolore che il desiderio non esaudito e il rimpianto puntualmente recano con sé, e infine adesso lo avevano impietosamente ferito, rendendolo fragile preda, esposta al carnefice, priva di difese. Le auto lo sorpassavano, sollevando vere e proprie nubi d’acqua, che presero facilmente la forma di un naufragio e diedero a quel viaggio senza meta il senso di una deriva alla ricerca di una sempre più sfumata speranza, che forse è laggiù in quel fanale retronebbia che si vede e non si vede in quella nube d’acqua, si vede per un po’, poi scompare inghiottito dalla tempesta di grigio che da sopra e da sotto avvolge ogni cosa, oggetti, corpi, anime. Quale dei due era il film vero? Quello della tempesta in atto là fuori, senza infingimenti, fuori della gabbia calda dell’abitacolo della sua piccola e vecchia utilitaria? O quello di un cuore, dentro la gabbia, che veniva mangiato a piccoli morsi, come quello di Prometeo, da un’aquila invisibile, che, come sempre era arrivata improvvisa, a tradimento? Era domenica mattina. Aveva deciso di fare un giro in auto, lontano dal monotono cemento di viali lunghi e regolari e di condomini replicati in serie, oltre i laghi, verso le montagne, nonostante le brutte previsioni meteo, che davano sicuramente acqua nel piano, neve appena ci si sarebbe avvicinati ai primi colli e forse anche nelle pianure ad essi sottostanti. Perché era uscito? Per combattere la noia? No. Non lo faceva più da anni ormai: la lasciava sempre vincere e le aveva decretato vittoria a tavolino per sempre. Non era quella la ragione. Che lo facesse per cercare di capire se era vero, se si poteva veramente cambiare la vita? Ma cambiare i luoghi serve a cambiare l’anima? Ricordi di liceo e di autori classici, di Seneca in particolare, autori che si erano posti quella domanda, si mescolavano adesso a riflessioni su quel presente informe, un ammasso di eventi che si accumulavano per forza d’inerzia, come i detriti portati a valle dalla piena di un fiume, un tempo fatto di un passato senza un futuro, che non riesce a catturare neanche un frammento di un presente che sfugge, di cui, alla resa dei conti, egli ora deve ammettere la totale inconsistenza. “Vivi solo di passato. Non va bene.” Questa frase era venuta da Antonietta, una collega, che, lavorando nel suo stesso ufficio, si trovava, come del resto tutti i suoi colleghi, in un punto d’osservazione privilegiato per constatare il cambiamento in atto. L’aveva pronunciata una sola volta. Poi, vista l’evidente inutilità del consiglio, si era ben guardata di dargliene altri che non fossero quelli di andare tutti insieme a pranzo nella pausa. Tra tutti i colleghi era l’unica che in quei tanti anni di lavoro in ufficio avesse manifestato prima un certo non ricambiato interesse per lui, poi una sincera preoccupazione.
Da quando lei, la sua ex, aveva pronunciato quella frase “Si può cambiare nella vita” non l’aveva più rivista. Erano in auto quando quelle parole furono pronunciate. Lei non avrebbe mai immaginato che avrebbero avuto l’effetto della frase scolpita nel marmo. Era successo in quella stessa auto, tanti anni prima, quando l’auto era nuova e tutto funzionava, anche il sistema per disappannare i vetri. Lei era lì accanto a lui. Tornavano da una festa di compleanno, in cui tutti avevano riso tranne loro. Solo quattro ore prima lei gli aveva detto che la loro esperienza “era arrivata al capolinea”. Non fu certamente un fulmine a ciel sereno. Si era eclissata dalla sua vita con la stessa dolcezza tra il malinconico e il blando, tra il riservato e il misterioso con cui vi era entrata. Quando fecero l’amore per la prima volta, lei non disse una parola: si lasciò guidare, con la dolce e un po’ timida arrendevolezza che sempre l’aveva caratterizzata. Si erano conosciuti in una riunione di un’associazione di volontariato durante una campagna elettorale: lui, allora energico e rampante, impegnato con passione in politica, rappresentava il suo partito, lei, riservata e silenziosa, un’associazione disposta a sostenerlo. E non sostenne solo il partito. Lui le chiese di uscire a cena dopo quell’incontro. Lei non disse di no. Per lui fu un sì. E rose furono, fino all’altare. Così iniziò, così finì quella che per lui ormai era una favola, un sogno, una narrazione turbinosa, una fucina di sconvolgenti emozioni e tormentose ossessioni. Non aveva nemmeno avuto più notizie di lei, se non indirettamente da qualche conoscente. La sua vita era tornata nel solito tran tran. Sveglia alle 6,15. Prepararsi. Uscire di casa con direzione lavoro. Affrontare il caos del traffico e innervosirsi. Passare la giornata in ufficio in continua tensione, tra l’incudine e il martello, tra clienti e dirigenti, e accumulare altro nervosismo e altro stress. Pranzare in un bar affollato del centro insieme ai primi arrivati capitati per caso, quasi sempre colleghi che dovevano far pesare che quella non era una pausa gradita, ma solo necessaria e inevitabile per infondere altro nervosismo e altro stress nella seconda parte della giornata a chi capitava a tiro. Poi affrontare nuovamente il caos del traffico per uscire dal centro. Andare a fare la spesa e rischiare le coronarie per il parcheggio al centro commerciale. Rischiarle di nuovo per quello sotto casa. E alla fine, accumulata la quotidiana dose di stress e nervosismo della normale vita urbana, gettarsi stremato sul letto e trovare appena le forze per mettere su un toast e aprire una birra. E se era faticoso anche quello, chiamare una pizza. Da quando non l’aveva più rivista quello era il solito tran tran. Il ritmo? Quando non c’era l’agenda del lavoro, il ritmo era scandito dalle ore delle medicine. Riusciva a trovare una parvenza di consolazione solo al pensiero di quanti nella frenesia di quella città vivessero come lui. Ma non riusciva mai abbastanza efficace come cura. “Un uomo senza una donna al suo fianco è come una Ferrari senza un motore”, gli aveva detto proprio Antonietta un giorno a pranzo: erano seduti su due sgabelli del bar sotto il loro ufficio. Era un tentativo di avance? Qualunque cosa fosse stata, non fu colta. Era una prova di dialogo? Forse, ma la porta fu da lui come sbattuta in faccia a lei, alzandosi di scatto e andando a pagare alla cassa le consumazioni per tutti e due. Antonietta, che aveva persino indossato il vestito corto quel giorno, sospirò e lo riaccompagnò su in ufficio; ma in ascensore non mancò il consiglio non richiesto: “Non va bene così. No. Non mi piace proprio per niente la china che la tua vita sta prendendo.” Era in fondo una delle tante varianti del “Si può cambiare nella vita.” Non rispose, protocollando quella frase della collega nell’ormai caotico faldone dei tanti consigli non richiesti.
In effetti, lei, la sua ex, aveva avuto ragione quel giorno di alcuni anni prima? “Si può cambiare nella vita,” aveva detto, congedandosi con la sua vita che non era mai cambiata, dalla sua vita, che tutti pretendevano che cambiasse. Ed era cambiata. Eccome, se era cambiata! Non andava più in palestra e aveva messo su peso. Nel radersi al mattino in bagno aveva addirittura l’impressione che il gozzo sotto il mento crescesse a vista d’occhio. Ogni doccia sembrava svelare una macchia cutanea in più. Ogni passo appariva più faticoso. Ogni volta che andava dal barbiere si faceva misurare attentamente ogni centimetro quadrato di pelata in più, o sulla fronte o sulle tempie, e calcolava la dose di peli che cadevano sempre più bianchi per terra sotto i colpi di forbice del vecchio Dan, amico di sbornie e notti brave ai tempi delle passioni e dei peccati di gioventù. “Devi cambiare la tua vita”, gli aveva detto anche Daniele, detto Dan, l’ultima volta. Altro dispensatore di consulenze non desiderate. Aveva ricordato le riunioni al movimento giovanile, le discussioni sui testi da usare nei volantini o su quali soluzioni grafiche fossero più efficaci, i viaggi in auto per mezza penisola, i rimorchi delle amiche, anche appena conosciute, le serate in albergo tra bottiglie di liquori presi nelle aree di servizio, che cancellavano subito la memoria sia loro, sia delle ragazze che di volta in volta entravano in quelle camere. Scapestrati. Lui e Dan non erano certo le menti di quelle notti brave, ma non erano neanche di quelli che dicevano “no, queste cose non si addicono ad attivisti politici che mirano a diventare futuri statisti.” Bravi soldati, utile e leale manovalanza, nei loro peccati di gioventù. Lui e Dan pensavano a divertirsi, a essere sempre in prima fila negli scontri di piazza e a poi meritarsi il premio con le più belle del gruppo, mentre altri sulle loro sbornie e sulla loro passione vera, grazie a quello stesso partito, si creavano carriere per il futuro e grazie alla passione vera degli ingenui attivisti che per loro lavoravano, come lui e Dan, facevano poi marameo a tutti cambiando casacca alla prima occasione. Ma loro non ci pensavano: lì si viveva, ci si divertiva, si stava insieme, si eccedeva qualche volta; i ricordi di quegli anni erano davvero belli. “Tu vivi di passato. Non va bene,” gli diceva spesso Dan: solo un’indicazione? forse un suggerimento? o addirittura un monito? Eppure in quel passato adesso quant’era bello rannicchiarsi! Ironia della sorte: Dan era riuscito a entrare in quella polizia da cui aveva anche preso manganellate, e non poche volte, senza mai finire schedato. Poi aveva avuto un incidente stradale, una chiamata per una rissa nel parcheggio di un discount alimentare, un pedale a tavoletta troppo sicuro e disinvolto in tangenziale e una vita cambiata dall’oggi al domani, una causa di servizio, tre anni di calvario tra ospedali e centri di riabilitazione e poi, piuttosto che finire tra le scartoffie negli uffici amministrativi, aveva preferito cambiare mestiere. Il padre, barbiere, ormai vecchio e stanco, fu ben felice di lasciare l’attività al figlio. Lui sì che aveva cambiato vita. Il vecchio Dan … Vita radicalmente cambiata. Eccome, anche se per forza maggiore. Quando sentì quella frase “Devi cambiare la tua vita”, pensava a Dan che vedeva nello specchio alle sue spalle con i suoi movimenti lenti, la zoppia che con lui non sentiva il bisogno di nascondere, come invece faceva con gli altri, e i segni delle cicatrici sulle braccia, lasciati dall’incidente che gli aveva per davvero cambiato la vita, camuffati da qualche tatuaggio. Si era separato, si era rimesso a nuovo, aveva trovato una nuova compagna, era davvero felice. Era l’unico che aveva rivisto lei, la sua ex, ma non glielo aveva mai detto. Non lo aveva fatto, perché lei quel giorno aveva ascoltato Dan in modo quasi singolare seduta al tavolino di un bar; era rimasta con lo sguardo attento, vigile, fisso nei suoi occhi, non aveva quasi detto nulla se non convenevoli di saluto; Dan aveva percepito da subito un certo nervosismo represso in lei, che non si spiegava, perché non era proprio di quella donna, che ricordava sempre dolce e serena, quel comportamento inusuale, quasi calcolatore; infatti, lei, poco dopo, si era alzata di scatto, come in preda a una specie di attacco di nervi o di crisi d’ansia, lo aveva salutato ed era andata via, pagando le consumazioni alla cassa per tutti e due. Dan era convinto che l’avesse fatto per non farsi vedere piangere; senza ombra di dubbio era convinto che ci fosse ancora troppo di sospeso e non risolto in quella donna. Eppure decise che non competeva a lui intromettersi. Perciò, silenzio.
“Non è possibile provare a tornare indietro? Se fossi in te, ci riproverei. Non hai più i genitori, sei figlio unico e vivi da solo. Se fossi in te, sarei già impazzito. Non so come tu faccia a vivere così.” Dan aveva pronunciato quelle parole, interrompendo il suo lavoro di taglio, appoggiando le mani sulle sue spalle e guardandolo negli occhi sullo specchio di fronte a entrambi. Lo scapestrato, il più scapestrato tra gli scapestrati non rinunciava mai a quell’improbabile ruolo di padre spirituale o di improvvisata guida psicologica, o di dispensatore di stimoli motivazionali. Lui non gli aveva mai risposto. Non lo fece nemmeno quella volta. Attese in silenzio. Dan fece un lungo sospiro, riprese il suo lavoro, lo finì, venne pagato e, quando lui era sulla porta e stava per salutarlo, il suo padre spirituale, il suo motivatore lo anticipò dicendo: “Bisogna che io e te parliamo di più.” Lui non aprì bocca. Salutò con un cenno della mano e si richiuse alle spalle la porta di quel piccolo di negozio vintage di barbiere di periferia, rimasto indietro di almeno mezzo secolo rispetto all’evoluzione della specie, un po’ come il suo proprietario, che lui amava proprio per aver conservato intatto il carattere un po’ guascone che sempre aveva avuto e che un tempo entrambi avevano avuto, nei lontani e gloriosi tempi dei peccati di gioventù. Si fermo a guardare da lontano Dan, mentre con la sua zoppia spazzava il pavimento, cambiava i teli sulla poltrona, lavava pettini e forbici. Dan fischiettava. Lui abbassò lo sguardo, turò su il bavero del cappotto, infilò le mani in tasca e nascondendo quello che era possibile della sua anima, tornò a casa sua.
Le giornate passavano tutte uguali. Sveglia sempre più dolorosa. Lavoro sempre più stressante. Pranzo affannato. Toast e birra spesso a cena. Serata steso sul letto o sul divano. Risveglio a mezzanotte circa con il telecomando in mano, senza nemmeno ricordarsi su quanti canali era passato prima di addormentarsi e di risvegliarsi, spesso con il cartone della pizza caduto per terra. Poi la pillola per dormire. E il mattino dopo al risveglio, dopo la doccia, il ciclo sarebbe ricominciato con un capello bianco in più, un centimetro di più nel girovita, una spinta sempre più fiacca a svolgere il dovere, anche perché non riusciva proprio più a comprendere a cosa servisse quella spinta. Eppure, anche solo per fare un piacere a quelli che ogni tanto a lui pensavano, cercava di darsela, quella spinta, e di dare un senso a quello stipendio che, seppur con sempre maggiore affanno, alla fine di ogni mese puntuale arrivava. Ecco, la spinta. Dove doveva essere spinto? Chissà quanti si ponevano quella stessa domanda, si chiedeva quando ogni sera abbassava le tapparelle e vedeva spegnersi una alla volta le luci dalle tante finestre dei tanti condomini di quella grande periferia. “Vieni con me e Ceci! Andiamo a farci un aperitivo al lago.” Era uno dei tanti messaggi di invito di Dan, che aveva deciso di accettare, in quel mare sconfinato di anonimato condiviso da migliaia di persone. Era andato al lago. Aveva assistito con rabbia alle effusioni sentimentali di Dan e della sua bella Ceci, una russa che aveva trovato su un sito di appuntamenti: Dan aveva deciso di incontrarla inizialmente senza alcuna pretesa che non quella dell’avventura da single di una sera; e invece! e invece lui, lo scapestrato Dan, era incredibilmente riuscito a far nascere qualcosa di talmente interessante, che, secondo lui, sarebbe addirittura stabilmente durato. Erano una bella coppia affiatata. Nulla da dire. Era chiaro che lo fossero. Dan nascondeva bene la sua zoppia quando era con la nuova morosa, come del resto faceva con tutti tranne che con lui. Era sempre il vecchio Dan; rinnovato dalle vicende della vita, ma riportato agli antichi splendori. Eppure, vederli aumentò lo stress, aggravò la pesantezza dell’ansia e dello spleen, anziché diminuirne i sintomi. E quella sera non bastò nemmeno la pillola. Da allora niente più uscite con coppie; e così anche Dan aveva smesso di mandare inviti.
Andava avanti lentamente la sua auto. Veniva sorpassato anche dagli autobus e dai pochi camion e camioncini in giro di domenica. Alcuni gli suonavano o gli lampeggiavano, perché la sua marcia lenta era per loro una specie di intralcio, oltretutto con quelle condizioni di maltempo. Ma quel procedere lento della sua vecchia utilitaria sulla prima corsia dell’autostrada non era altro che lo specchio di una stanchezza che nasceva ormai da lontano. Vide il segnale di un’area di servizio. Con una scusa o un’altra non ne aveva saltata una: prima il bagno, poi il caffè, poi il giornale. Ora non sapeva perché si sarebbe fermato. Ma si fermò. Entrò nel bar. Vide dei panini. Scelse il più imbottito, nonostante avesse già fatto colazione a casa. Da un po’ di tempo il suo nuovo stile di vita imponeva alcune scelte, per così dire, compensative: scegliere da un menu le cose più caloriche era solo una di quelle. Aveva comprato un giornale nella precedente sosta. Si mise a leggere, incurante della maionese che colò sopra una pagina, del pomodoro che macchiò la camicia e della goccia d’olio che aveva appena disegnato una chiazza ovale sui pantaloni, male assemblati con la camicia, a sua volta male assemblata con la giacca. Passò quasi mezzora. Poi tornò in auto. Accese il cellulare. Nessun messaggio. Nessuna notifica. Per il mondo stava piano piano diventando un fantasma. Quei messaggi e quelle notifiche erano andati progressivamente calando proprio da quel fatidico “Si può cambiare nella vita.” In effetti, anche il telefonino a modo suo era cambiato. Non si preoccupò che il marchingegno elettronico dell’auto, che non aveva mai capito come funzionasse, lo riconoscesse. A ben pensarci, in effetti, chi lo avrebbe dovuto chiamare? Lo ricollocò nel taschino. Avvertì un dolore alla testa. Non se ne curò. In quei giorni di dolori ne aveva un po’ dappertutto. Forse gli era salita la pressione. Con l’abbassamento delle temperature doveva stare attento, gli aveva detto il suo amico medico, che almeno era giustificato dal ruolo professionale come erogatore di moniti non richiesti. Appoggiò la nuca al poggiatesta del sedile. Chiuse gli occhi. Iniziò a fare quello che il suo amico medico gli aveva detto di fare: inspirare a bocca chiusa ed espirare a bocca aperta a lungo. Era docile ai consigli di Roby. Anche lui era amico di gioventù. E anche lui aveva a lungo dispensato consigli e inviti inascoltati. Anche lui era di quelli convinti che si può cambiare nella vita, che cambiare è facile, basta volerlo, che si può dare un calcio al passato, che si può ripartire da zero, e così via. Ne erano convinti soprattutto quei colleghi di lavoro che erano gli unici a poter constatare giorno dopo giorno il suo degrado. Da quasi tre mesi lui e Roberto, da sempre Roby, non si sentivano più. Era andato un giorno nel suo studio di fretta per una ricetta, dopo aver sudato non poco per il permesso nell’ufficio del suo direttore. Una parentesi di due parole su questa persona, il direttore, che era odiosa a tutti, ma non a lui, per un semplice fatto: per quell’uomo esisteva solo la sua carriera; della salute di lui, del degradare lento e progressivo della sua vita gli poteva interessare come per l’aumento del tasso d’inquinamento della capitale del Bangladesh e soprattutto, nota di carattere di immenso valore, non era un dispensatore di consigli non richiesti. Chiusa la parentesi. Ebbene. Dopo quella fugace visita da Roby in una giornata di fine estate, aveva sempre avuto a che fare con il sostituto del suo amico medico. Anche Roby era un presenza che stava piano piano come evaporando dalla sua vita. Incredibile, ma purtroppo vero. Incredibile al pensiero che era proprio lui, Roby, che aveva organizzato quelle uscite in coppia in cui si erano per anni divertiti. Lo aveva fatto con quello spirito giocoso e disincantato che si dice sia uno dei segni di una sincera amicizia. Ogni estate loro quattro, Roby con sua compagna Caterina e lui con sua moglie, andavano in vacanza insieme. Roby aveva la barca e per due volte fecero la traversata dell’Adriatico. Anche lui era separato. Si era rifatto la vita. Insomma, Roby aveva cambiato la sua vita. Caterina, la compagna di Roby, aveva ereditato una casa nelle Dolomiti e avevano passato spesso vacanze estive e invernali insieme. A quello pensò con gli occhi chiusi, lì nel freddo dell’abitacolo dell’auto. Pensò a un capodanno a casa di Caterina. Quanta neve venne quella sera! Era nevicato quasi ininterrottamente dal venti dicembre. Avevano passato più tempo a spalare che a sciare nei giorni precedenti. Fino alla fine di marzo, con l’alzarsi del sole sull’orizzonte, quel lato del paese non avrebbe visto un raggio di luce e il ghiaccio pertanto si formava molto facilmente dappertutto, con tutta quella neve che scendeva senza sosta. Che serata indimenticabile! Avevano bevuto davvero tanto. Roby, trascurando Caterina, si era lasciato andare a parlare a lungo con lei, con quell’ingenua civettuola di sua moglie, donna che, quando apprezzata, sapeva emanare quel fascino indiscutibilmente unico che è proprio delle anime apparentemente più ingenue e che a tutti danno l’impressione di essere timide e abbordabili. E Caterina, la compagna di Roby, visibilmente indispettita dal suo atteggiamento, aveva iniziato a flirtare con lui. In fondo era lei la padrona di casa. Era partito tutto per scherzo tra i fumi dell’alcol. Lui era stato al gioco. Dalla strada venne un vocio di gente, amici e vicini di casa di Roby e Caterina, che stavano improvvisando in un campo sgombrato dalla neve dei botti e dei fuochi d’artificio. Roby, indossata velocemente una giacca a vento sopra al maglione, andò fino alla portafinestra, la aprì, uscì sul balcone, e anche sua moglie lo seguì, sul balcone anche lei, chiudendosi sbadatamente la porta alle spalle. Caterina e lui erano così rimasti soli. “Non c’è la maniglia dalla parte esterna. Solo io e te li possiamo far rientrare. Tua moglie si è chiusa fuori con Roby,” disse Caterina. Era decisamente brilla e lo era un po’ anche lui. Caterina faceva di tutto perché la generosità dello spacco e della scollatura del vestito raggiungessero l’obiettivo per cui erano stati pensati. Lo prese per mani e se lo portò su in camera, approfittando del fatto che la moglie di lui e Roby erano presi dagli schiamazzi con gli amici. Non ci volle molto. Quando scesero e sentirono Roby e sua moglie che infreddoliti bussavano alla porta, visibilmente brilli anche loro, gliela aprirono. Se anche Roby e sua moglie avessero sospettato qualcosa, prima sul balcone, poi quando realizzarono di essere rimasti chiusi fuori, nessuno dei due lo dimostrò mai nei giorni successivi. Come per miracolo, la mattina si svegliarono con il sole, dopo quasi due settimane di neve. E andarono sulle piste di neve fresca a appena battuta approfittando del fatto che nella mattina di capodanno non ci sarebbe stato di sicuro affollamento. Roby e Caterina, lui e sua moglie: sciavano affiancati e felici, si fermavano a scaldarsi nei rifugi a monte o a valle degli impianti e ripartivano, una pista dopo l’altra, del tutto immemori ma non certo inconsapevoli di quanto accaduto poche ore prima. Riaprì gli occhi e ripartì. Umidità o lacrima? Si asciugò una goccia sulla guancia.
La pioggia sembrava intensificarsi. Continuò con la sua andatura lenta e cauta. Un’altra trentina di chilometri ed ebbe bisogno di fare gasolio. Altra sosta. Ancora mal di testa. Ebbe un senso di vertigini. Durò soltanto per un attimo. Si fermò al bar. Comprò una lattina di aranciata. Non gli facevano bene le bibite gassate. Aveva gli esami del sangue sballati da tempo, colesterolo molto alto, stile di vita viziato da stress, sedentarietà e adesso anche alcol, lui che era stato per anni una persona energica e sportiva, che sprizzava vitalità da tutti i pori, lui che per anni era sempre stato addirittura un modello di attenzione quasi maniacale all’alimentazione, al peso, al suo aspetto fisico. Roby, quando lo vide l’ultima volta, appunto nel corso di quell’ultima, fugace visita di fine estate, lo trovò notevolmente ingrassato, degradato, con la barba di tre giorni, insomma, imbruttito; e non nascose la sua sorpresa. Non lo vedeva, infatti, da tempo. Lui a Roby aveva chiesto sempre le ricette o con un messaggio o una mail. Le riceveva poi dalla segretaria e con Roby non ebbe più rapporti. Era andato in studio per rivederlo quel giorno, ma, non appena intese che l’amico medico avrebbe iniziato a sciorinare la sua dose di consigli di vita e di spicciole consulenze motivazionali, si alzò e uscì. In fondo, Roby ci aveva provato tante volte a volergli bene e aveva fatto tutto quello che era nelle sue possibilità, quando aveva saputo non tanto della separazione, quanto delle sue conseguenze. E non solo per Roby: ma quello che riguardava lei, la sua ex, era segreto professionale. Anche la sua compagna Caterina aveva fatto quello che aveva potuto. Era questo che l’amico medico avrebbe voluto dirgli quel giorno della visita, ma le parole, quando lui si alzò e uscì, restarono per Roby nel faldone con l’etichetta ‘buoni propositi’. Le immagini sempre più sfuocate delle persone che avevano recitato un ruolo nella sua vita apparivano e sparivano. Mentre beveva l’aranciata sullo sgabello, l’acqua iniziò ad arrivare sui vetri portata da più forti folate di vento. Uscì dall’auto in quella che ormai era una bufera di acqua mista a neve. Faceva anche freddo. La gente nel bar diceva che pochi chilometri più avanti nevicava. Aveva tutto l’occorrente. Le gomme erano invernali. Nessuna paura. Tornò in auto con la lattina in mano. Afferrò la chiave. La inserì per mettere in moto. Poi si fermò. Non trattenne il rutto: l’aranciata gassata, che non doveva bere. Il mal di testa che andava e veniva. La disarmonia dell’imbruttirsi di una vita che per tutti i dispensatori di consigli non richiesti sarebbe potuta facilmente cambiare. In effetti, avevano perfettamente ragione. Oh, se ne avevano! Un senso di spossatezza gli piombò addosso. Non girò quella chiave. Appoggiò nuovamente la nuca al poggiatesta. Era freddo nell’abitacolo. Non se ne curò. Brividi. Un senso di vertigini. Come previsto, iniziarono a infittirsi i fiocchi di neve in mezzo alla pioggia. In poco tempo la pioggia diventò una nevicata di fiocchi piccoli e radi. Per terra la neve non attaccava ancora. La lattina d’aranciata quasi vuota cadde dal cruscotto dove era stata messa e bagnò il tappetino.
Questa volta gli occhi si chiusero da soli. Vide lei stesa al sole sulla Praia dos Boscoitos alle Azzorre; la vide sui bordi delle caldere dei vulcani, con quella canottiera e quei calzoncini corti che lui le aveva comprato a Lisbona e che lui aveva voluto che lei mettesse quel giorno; la vide con quella lunga coda di cavallo nera che non finiva mai e che lui aveva sempre voluto farle; la rivide con quegli occhi neri che, quando incontravano i suoi, avevano la potenza del più devastante degli ordigni, sprigionavano l’energia della più devastante delle onde sismiche, esplodevano tante scintille quante nessuno dei più fantasmagorici spettacoli pirotecnici avrebbe potuto produrre. Immagini che avevano fatto salire alle stelle la sua anima allora, la facevano sprofondare in un abisso di disagio, inquietudine e malessere adesso. Quel disagio, quell’inquietudine e quel malessere avevano un nome per Roby, l’amico medico, rispondevano a una definizione ben precisa, c’era una brutta parola che riassumeva tutto: non l’aveva mai voluta sentire nella sua vita quella parola, perché accettarla con il suo nome l’avrebbe obbligato a prendere provvedimenti che, lo sapeva bene, mai avrebbe preso. E la rivide. Adesso era stesa sui prati delle malghe lungo le carrarecce che portavano su al Pelmo, con quelle gambe che non finivano mai, infaticabili nell’arrampicarsi ovunque, dalle rocce al suo corpo; non si stancavano mai. Sprigionava un’energia e una vitalità che ormai assumevano l’aspetto di un drammatico e beffardo contrasto rispetto alla quotidianità di quel presente scandito dai ritmi di un lavoro ansioso, di uno stress dannoso, di farmaci inutili, di medici anche loro ormai inutili, di una spasmodica ricerca di una pace che non trovava se non nel cibo e nell’addormentarsi sul divano di casa, dopo essersi tolto soltanto la giacca, averla gettata su una sedia, dopo essersi tolto le scarpe tenute una giornata intera ed essersi allentato il nodo della cravatta, quanto bastava per aprire i primi due bottoni della camicia. Sentì il bisogno di fare quel gesto anche lì in auto:; sentì un forte bisogno di aria e di allentare i primi due bottoni della camicia.
Dan lo avrebbe saputo soltanto diversi giorni dopo, per puro caso. E scosse impotente la testa. I colleghi di lavoro erano abituati ai suoi periodi di malattia, spesso comunicati in ritardo, e non si erano preoccupati. Quanto ai vicini, era già tanto se lo salutavano e notavano la sua presenza. Roby, il suo medico, lo seppe molto tempo dopo, quando un comune conoscente gli fece vedere una notizia su un quotidiano on line che non faceva nomi e che parlava di una persona trovata senza vita in un’area di servizio; riconobbe in modo inconfondibile la sua auto nella foto sotto il titolo: “Vittima di un malore … trovato nell’auto … secondo il personale sanitario arrivato sul posto e chiamato dai responsabili dell’area di servizio, il decesso doveva essere avvenuto da diverse ore; un addetto alle pulizie del parcheggio e alla sostituzione dei sacchi nei bidoni, annaspando nella neve che ormai si stava accumulando, lo vide di sera al buio; l’uomo era stato insospettito dall’auto che la neve stava ormai ricoprendo; ‘difficilmente un’auto resta così a lungo nel parcheggio di un’area di servizio; perciò ho pulito i vetri che erano coperti di neve e ho visto l’uomo con il capo reclinato su una spalla’, ha dichiarato l’uomo che lo ha trovato” L’articolo non diceva altro. Roby, stravolto dalle lacrime, impotente anche lui, lo disse a Caterina. Lei commentò: “Che cosa triste.” Era tardi per mandare messaggi. E poi a chi li avrebbero dovuti mandare? Lo avevano ormai già sepolto da giorni. Andarono al camposanto. Caterina poggiò la testa sulla spalla di Roby, dicendo di nuovo: “Che cosa triste.”
Se lui avesse potuto vedere chi c’era tra le sei o sette persone presenti nella chiesetta dell’obitorio, colleghi e vicini, quasi tutti dispensatori di consigli non richiesti, tranne uno, il suo direttore, avrebbe forse intravisto una donna dai capelli neri, in fondo, in disparte, in un angolo, con gli occhiali scuri. I capelli erano raccolti in una lunga coda di cavallo. Nessun altro l’avrebbe notata. Stette lì per un po’. Seguì solo una parte della funzione. Uscì in silenzio, lasciandosi avvolgere nel freddo umido e nebbioso, senza che nessuno la notasse. E senza che nessuno notasse che era l’unica tra i pochi presenti sulle cui guance era scesa una lacrima. L’indomani per tutti, compreso il prete che aveva ripetutamente sbadigliato durante la sbrigativa funzione, sarebbe ripreso il tran tran di sempre. Forse per lei no. Forse. Chissà. Nessuno lo potrà sapere. E se anche lo sapesse, ormai sarebbe una notizia tra le tante. Ognuno ha la sua vita; la vita si può cambiare; c’è chi la cambia e chi non ci riesce. C’è chi ascolta consigli e chi no. Siamo più di sessanta milioni in questo paese; in fondo, se anche qualcuno di loro non ci riesce a cambiare la sua, cosa cambia a quella degli altri? Così lui aveva sempre ragionato da quel “Si può cambiare nella vita”. E forse alla fine aveva avuto ragione proprio lui.
In quello stesso momento, a diversi chilometri di distanza, nel parcheggio di un’area di servizio un addetto alle pulizie raccoglieva una lattina d’aranciata, bestemmiando e imprecando con ogni genere di parolaccia contro “tutti i maledetti idioti incivili che, con il bidone davanti al naso, le lasciavano per terra!” La raccolse con la paletta. Il bidone per vetro e alluminio era lontano. Era freddo. Era buio. Nevicava forte. Nessuno lo avrebbe visto. La gettò nel piccolo bidone dei rifiuti indifferenziati, pieno di tutto, dai pannolini ai fazzoletti, dalle bottigliette di plastica di ogni forma e dimensione alle scatole di biscotti, alle lattine, appunto, come quella. Isolatosi da tutto e da tutti, mise le cuffie nelle orecchie e fischiettando tornò al caldo nel negozio. Rideva felice per una vignetta condivisa da un amico o sedicente tale vista sul telefonino. Le auto sfrecciavano. I camionisti dormivano nelle cuccette. Una coppia di poliziotti si fermò a bere qualcosa di caldo al bar, parcheggiando l’auto proprio accanto a quel bidone. Quando i due agenti risalirono in auto, la neve aveva già ricoperto l’ultima traccia di quello che sarebbe stato un episodio spiacevole, una cosa triste, una vicenda umana difficile, una vita che poteva cambiare, ma non aveva ascoltato i consigli, insomma un piccolo quotidiano, comune dramma, di cui nessuno mai più avrebbe parlato. Eppure su quell’evento, dall’apparenza così insignificante, una persona, forse, una sola, avrebbe segretamente ancora riflettuto, perché da quel giorno nemmeno lei che era stata in fondo una delle tante che gli avevano dispensato consigli, una delle tante persone che gli avevano detto che si può cambiare la vita, lei che nemmeno in quell’ultima occasione si era trattenuta dal dargli consigli e dal pronunciare quella stramaledetta frase, nemmeno lei, no, nemmeno lei quella vita da schifo era riuscita a cambiarla. Una sola persona avrebbe forse pensato a quanto era successo. Lo avrebbe fatto a tempo scaduto, come avviene per quasi tutte le cose più delicate e importanti, che proprio perché tali si ritengono troppo impegnative e si rimandano sempre. Aveva saputo della notizia dall’ospedale. Un agente di polizia aveva preso informazioni e aveva avuto il nome di lei. Lei era stata chiamata per riconoscerlo. Lei era l’unica che poteva sapere quanto stupido fosse pretendere che una vita possa cambiare facilmente. Era un riflessione postuma, ormai. Inutile, alla fine della storia. L’avevano già fatta altri. L’avevano fatta Dan, Roby e Caterina, Antonietta e i suoi colleghi, persino il suo asettico direttore; e anche i vicini di casa avrebbero rivolto un loro fugace pensiero a quella che solitamente si definisce una cosa triste. L’avrebbe fatto chiunque di noi. Un pensiero non è un atto; non ha quei costi e non implica quelle responsabilità. In fondo – pensiamoci bene! – a quanti di noi interessa veramente sapere dove finisce una lattina vuota? Era ruzzolata fuori dell’auto chissà come, quando lui fu portato via. La neve l’aveva ricoperta per diversi giorni. Fu poi raccolta e buttata svogliatamente nel primo bidone. Rimase per un po’ in compagnia di tutto quanto non serve, è inutile e dà fastidio. E poi della fine di quella lattina, come di migliaia e migliaia di altre tutte uguali, nessuno si sarebbe più interessato.
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