La palla

“C’era una volta una palla, un po’ rossa e un po’ gialla, che la corrente teneva a galla …” non dormiva ancora Umberto. Il babbo si era seduto sulla sedia a dondolo accanto al lettino e, con una mano sulla sponda, iniziò, come tutte le sere, la sua cantilena. Lo faceva per addormentarlo. Quelle parole lente, quasi un canto in sordina, ipnotizzavano. Il bimbo, sveglio in apparenza, volava già altrove. Si vedeva nella dimensione senza spazio e senza tempo che quelle parole cercavano di raffigurare. Non capiva la differenza tra l’andare avanti e l’andare indietro. La palla andava avanti, la mente indietro. E la sedia a dondolo riproduceva quel movimento alternato, in avanti e indietro.

Il cigolio della sedia a dondolo non era più coperto dal traffico della strada; un gracchiare lungo e stridulo quando andava indietro, il suono di colpo secco quando tornava in avanti; entrambi i movimenti, così diversi nel loro alternarsi cadenzato, accompagnati da una cantilena regolare baruffavano con altri rumori che l’arrivo del silenzio aveva, come miracolosamente, risvegliato dal cacofonico e fastidiosamente fragoroso frastuono urbano: i corali garriti delle rondini e il canto solitario dell’usignolo ci saranno sicuramente stati anche prima, come il cigolio della sedia, ma lui non li poteva ascoltare. Quel lento e blando dondolare coccolava una vita in quell’imbrunire che un tempo avrebbe avuto il sapore acido della malinconia temuta e sempre stornata, ma ora assumeva quello rasserenante della quiete, voluta e tenacemente tenuta stretta.

Un movimento indietro e uno in avanti, per ore. Un bicchiere di tè freddo al limone. Una vespa tardiva, che sfiorava i gerani. Lo zampirone acceso accanto alla ciabatta consunta. Il libro caduto per terra e non raccolto. La centralina dell’irrigazione che lampeggiava con la sua batteria scarica. Un tavolino troppo vissuto, su cui da tempo non passava più quella stagionale mano di copale che gli dava il colore vivo dell’ambra. Sei sedie richiuse, due rotte da anni. La griglia elettrica, che conservava il fetore del recente uso. Il grasso della scadente carne di castrato, che era colato fuori. Due cartoni di pizze, di cui uno con residui di mozzarella e gorgonzola. Il gatto che li leccava, unica presenza apparentemente soddisfatta e viva in quella natura morta, di cui lui, Umberto, avrebbe preferito non far parte; il suo ruolo era unicamente quello di strumento indispensabile per consentire i movimenti cantilenanti di quella sedia: un indietro e uno in avanti, per ore.

Lo zampirone era acceso anche quella sera, su un altro poggiolo, con le verdi chine del Càrpano, gli opulenti castagneti e i bianchi scalacci del Nocicchio come quinta, non le cimase e i lastrici dei tetti, né le plastiche ondulate dei bassocomodi, quando il viaggio era appena iniziato e le fondamenta di quell’edificio, ormai alto, che qualcuno, non lui, riusciva a chiamare vita, erano ancora robuste. Umberto progettava tappe. Lei ascoltava. Le poltrone erano due. Le gambe di lui sul legno del poggiolo, quelle di lei su quelle di lui. Le mani di lui, che lievemente stuzzicavano le gambe di lei, quelle di lei attorno al collo di lui. Due bicchieri di prosecco. E dietro, sul tavolo, i piatti vuoti da cui ancora proveniva l’odore del ragù che aveva condito le tagliatelle, che insieme avevano preparato. Il prato, appena bagnato, copiosamente, dai numerosi irrigatori, diffondeva diversi effluvi, profumo d’erba, fragranze che inebriavano. Il viaggio era all’inizio. E all’inizio tante cose sembrano più belle di come poi si riveleranno. Non lo sapevano. Neanche avrebbero voluto saperlo. Bastava quel profumo, bastavano quei colori, bastava quel poco che allora pareva tanto.

Un’auto dei carabinieri squarcia il silenzio, sfrecciando nella strada deserta con la sirena accesa. Una seconda la segue a poca distanza. Passano pochi minuti e l’elicottero del 118 atterra nel piazzale del vicino ospedale. Due ragazzini in bici si inseguono sulla ciclabile. Un anziano rovista nel cassonetto della carta. Un gatto gli passa accanto. Si ferma un attimo. Prosegue verso un altro cassonetto. La luce scema in un cielo sanguigno, pieno di cattiveria, graffiato da striature grigie. E ritorna il cigolio della sedia, a coccolare una memoria quotidianamente tormentata in quelle rituali e ossessive rievocazioni vespertine, malvagie, ma cercate con autolesionistico cipiglio, dannoso, frustrante, ostinato, una memoria che vorrebbe essere soltanto lasciata in pace. Un movimento indietro, uno in avanti, per ore.

I gerani coloravano quel poggiolo di allora, quando le piogge pomeridiane, una certezza di elvetica puntualità, li rendevano orgogliosi dei loro petali rosa, bianchi, rossi. E non appena due cadevano, dieci ne rinascevano. Non appena una pianticella sfioriva, altre cinque ne ricrescevano. Senza sosta. Senza debolezze. Senza quei dubbi e quelle esitazioni, che forse erano già sotto il terriccio, ma nessuno le vedeva. E se avesse anche avuto un sospetto, si sarebbe ben guardato dal cercarle. Umberto passeggiava nel prato, sotto il poggiolo, per raggiungere lei, sullo sdraio, a godere gli ultimi respiri di un paesaggio che si stava lentamente lasciando assopire nel pacifico torpore dei suoi declivi, nello sfrigolio delle prime stelle, nello sciabordare del sottostante rivo, laggiù in fondo al prato. “Ci è caduta la palla, laggiù in fondo. Credo sia finita nel ruscello.” Attraversò il prato, tra gli ornelli e frassini, i carpini e l’antico, alto noce. Arrivò in fondo. Si tolse le scarpe. Vide la palla, imprigionata tra i sassi del rigagnolo. A piedi nudi la raggiunse, la prese. E lei fu felice, quando lui arrivò con le scarpe in una mano e la palla tra l’altro braccio il fianco. Gliela prese, mirò il canestro. Centro. E si baciarono. E mentre si baciavano, la palla ruzzolò giù, tornò dov’era, tra i sassi. Pronta per essere reclamata, ripresa e incoraggiare un altro bacio. L’inizio dei viaggi, di tutti i viaggi è fatto di riti, come questi o molto simili. Li vivevano con una passione fluente, leggera, che scivolava nel tempo, solleticandolo come la piuma d’oca, che soffice lui le faceva scorrere sulla pianta di un piede, sulla pelle di una spalla, su quella del collo, mentre la brezza serale portava i capelli di lei sul viso di lui. Non tutti erano stati ligi agli ordini e tanti erano sfuggiti alla lunga coda di cavallo, che lui adorava farle e lei adorava farsi fare da lui. “Partiamo domani?” “Sì, appena pronti,” le aveva risposto.

Non mutava il ritmo del dondolare della sedia. L’illuminazione pubblica aveva annullato quella fasulla magia di un imbrunire che nel paesaggio urbano non avrà mai l’energia che riesce a infondere altrove. Coni di luce che impedivano di nascondersi al furtivo gatto sempre alla ricerca di cibo tra i cassonetti, all’anziano che non rovistava più nel rusco, ma ora sonnecchiava su una panchina seminascosta tra le sterpaglie mai sfalciate in quell’angolo di verde pubblico sistematicamente dimenticato, alla ragazza con le cuffie nelle orecchie che, svogliata, obbediva all’ordine dei genitori di portare fuori il cane, alla coppia sovrappeso che tutte le sere passava per camminare e non calava mai di peso, al poliziotto municipale in auto che si scaccolava al semaforo, senza accorgersi che Umberto lo stava ammirando. In attesa del verde, guardava spesso l’orologio al polso. Non vedeva l’ora di finire e tornare a casa. Accanto a lui un altro agente con la testa penzoloni, che sobbalzò alla ripartenza dell’auto. Spicchi di una vita che muore come la luce e palesa tutta la fatica di arrivare a quell’ora, così tanta da non riuscire nemmeno a godere della gioia di esserci arrivata. L’auto della polizia municipale partì, mentre Umberto beveva il tè freddo e la sedia dondolava sempre con il suo stridulo canto: un movimento indietro e uno in avanti, e così sarebbe stato per ore.

L’auto era pronta per partire, alle otto del mattino. Lei e Umberto erano felici. Attendevano quel viaggio da tempo. Non li avrebbe portati lontano. Non desideravano visitare luoghi lontani, non avevano velleità turistiche, non avevano neanche una meta precisa, a dire il vero. “Andiamo al sud,” era l’unica certezza rimasta, dopo aver percorso con le mente mezzo continente e averlo citato capitale per capitale, regione per regione, stato per stato. A loro piaceva stare insieme. Umberto prima di partire ebbe un pensiero. Scese dall’auto. Tornò nel giardino. Andò sul prato. Lo ripercorse. Fece una sosta sotto l’antico noce. Andò sull’altro fianco del tronco, quello opposto al prato, appartato e segreto. E vide la targhetta che aveva da poco collocato alla base, senza chiodi, senza ferire quella saggezza di vita che il noce evocava. Sei mucchietti di sassi la tenevano ferma. Ogni albero del prato che si trovava lì era stato piantato dal babbo per una persona cara, per la nascita di un figlio, di un nipote, per l’ultimo viaggio della mamma, per un matrimonio, per i nonni. Solo al noce non era stato dato un nome. Ci aveva pensato Umberto due settimane prima, quando per l’ultimo viaggio era partito il babbo. Il grande albero, il più bello di tutti, spettava a lui. Aspettava lui. Umberto si chinò e lesse la frase che il babbo gli aveva detto in uno degli ultimi, sempre lucidissimi, attimi di vita e che, pazientemente, aveva scalpellato e poi rubricato, come un’antica epigrafe: “Il tempo è un viaggio fatto per essere goduto tutto, fino all’ultimo. Non sprecarlo. Non pensare di fare di testa tua, oltre un certo limite. Lui ne sa sempre più di te. Si tratta di un bene troppo prezioso. Un giorno lo capirai.” Si rialzò. Arrivò in fondo al prato. Si tolse le scarpe. Scese nel ruscello a piedi nudi. Recuperò la palla. E tornò in auto. “Avevamo dimenticato questa,” disse mettendola sul sedile posteriore. E mise in moto. La palla gialla e rossa aveva una bella storia. Un sera, sul poggiolo, nel consueto rituale dell’imbrunire, gliel’aveva raccontata. A lei era piaciuta e le sembrava una bella favola.

Pensava alla favola bella, mentre la sedia rallentava il suo blando dondolio, che infido lusingava la memoria, un periglioso trastullarsi in una malinconia che era amata, desiderata e apprezzata, in quelle ore di dolce e rasserenante languore, proprio perché sempre temuta. Per lui non era un paradosso. Era lo specchio di una vita vissuta sempre sul ciglio del burrone, di un viaggio sempre rimasto incompiuto, di una memoria che aveva sempre qualcosa da dire, ma solo per tradire. Come una favola, che con la sua infantile bellezza e le sue creature fatate, con i suoi gnomi buoni che vincono sempre il male e le sue streghe cattive che finiscono sempre male, affascina e lusinga, ma, proprio per questo, spesso tradisce. Pensava a quella favola bella, trapassando con lo sguardo le aree lasciate buie dai coni di luce, tra un lampione e l’altro, e cercando lì, nelle ombre, quelle verità che la luce nascondeva, come le lusinghe di una favola. Non era possibile. Erano ombre. E nelle ombre al più si intravvede, non si vede. Si intravvede una siepe scossa, si avverte l’acre fortore di resina che trasudano i tanti fitti pini, si sente la civetta, che la sua prof di greco definì “il più umano tra tutti gli animali”. Cercò di concentrarsi su uno di quegli angoli di tenebra, alla ricerca del significato di quella favola bella, che da sempre desiderava. La memoria era la guida dei sensi in quel momento. Ne era in balia. L’animo oscillava, come sospeso, come quello di un pescatore intontito dalla tempesta, in mezzo al mare, incapace di distinguere beccheggio da rollio, il nord dal sud, una buona rotta da un’altra che invece lo avrebbe allontanato dalla quiete del porto. Nell’angolo di tenebra vide solo un oggetto chiaramente. Era una palla bucata, lasciata lì dai bambini che avevano strillato per tutto il pomeriggio, sbucciandosi ginocchia, insultandosi, costringendo i genitori a intervenire per mancanza di un arbitro con i cartellini gialli e rossi. Ogni strillare finì, quando la palla si bucò. E rimase lì, sotto la siepe scossa dalla brezza che montava ora da terra ora dal mare. Avanti e indietro, come la sedia.

E avanti andava l’auto, su per valichi, ignoti ai più, mentre il sonno aveva avvolto il volto di lei, mentre il dubbio iniziava a insinuarsi, infido, nell’animo di lui, mentre la palla, rossa e gialla, pareva tentare di attivare con la sua storia bella, da dietro, dal sedile posteriore dell’auto che ansimava su per l’erta, una comunicazione in quello spazio esiguo, dove nulla poteva sfuggire, dove tutto sarebbe destinato a rivelarsi autentico e sincero e, proprio per questo, malefico e cattivo. Paesaggi da favola facevano da sfondo a quel dramma oscuro, privato e segreto, che aveva assunto la blanda forma di un viaggio gioioso: alture dal sinuoso profilo, poggi aprichi, radure mai essiccate dalle sguaiate, afose canicole del piano, clivi ammantati di grandi castagni e secolari roverelle, che hanno sorriso ai più duri inverni, che hanno patito senza farsi scalfire. Umberto rispettava il silenzio che il sonno di lei chiedeva. E l’auto andava avanti, guidata da lui, mentre la mente, non guidata da lui, cercava sempre di tornare indietro. Un movimento indietro e uno in avanti.

C’era un tempo in cui aveva adorato anche lui le favole. Non quelle della nonna, né quelle della mamma. Era il babbo che gliele raccontava. Le inventava. Poi le cambiava. Poi un giorno ebbe un’idea: le raccolse e le scrisse. E la memoria ebbe allora un sostegno, veramente valido. Tra quelle favole una era quella da lui preferita. Una folata di vento scosse la siepe più di quanto avevano fatto le lievi brezze precedenti e il cono di luce arrivò fino alla palla bucata, e la bella favola, la più bella delle favole, ebbe un sussulto laggiù in quell’abisso dove di bello assai poco era rimasto.

“C’era una volta una bella palla, rossa e gialla, che un bimbo aveva perso e che nel fiume ora stava a galla,” era la sua voce, la voce del babbo, forte e sicura, che risuonava cristallina sul sottofondo del gracidio della sedia a dondolo. “La palla si lasciava cullare dalla corrente, quando il ruscello attraversava un piano, combatteva contro i sassi, quando le rapide lo facevano scendere più ripido tra le forre. Un giorno arrivò ai lati di un prato e la lenta corrente la dimenticò in una secca di mota. Rimase lì per giorni e giorni, nella mota. Era triste vederla. Tutto passava, tutto scorreva, i pesci nemmeno la guardavano. Nessuno si curò di lei, che piano piano si sporcò tutta. La mota portata dalla corrente aumentava, con l’erba e i rami che in quell’angolo dimenticato si accumulavano piano piano, tra flessuosi giunchi e alti canneti. Quand’ecco che un bel giorno due bambini su una barca, risalendo il fiume, si fermarono proprio lì, stanchi del lungo remeggio controcorrente. E videro la palla, rossa e gialla, ma sporca e sgonfia. La presero, la pulirono con l’acqua del fiume e la misero nella barca. Risalirono ancora il fiume e tornarono alla loro casa, che era proprio su quel fiume, chiedendosi quale bimbo avesse potuto perdere una palla così bella, rossa e gialla. La gonfiarono e giocarono a lungo con lei. Ma la palla non era felice. E in un’altra casa un altro bimbo era ancor meno felice di averla perduta. Un giorno, mentre i bambini giocavano con lei, scoppiò un temporale improvviso, che allagò il campo in cui stavano giocando. Scapparono in casa, lasciando la palla. Venne talmente tanta acqua che portò via la palla che ritornò nel fiume. E si affidò di nuovo al movimento della corrente. Tornerà la nostra palla dal bimbo che l’aveva smarrita per farlo felice?” Le favole del babbo avevano quello di bello. Non finivano. Toccava a lui farle finire. “La corrente porta la palla. Se la casa del bimbo è sotto, potrebbe anche tornarci, ma se è sopra, no.” La sedia andava avanti e indietro. Ecco cosa stonava con quella favola. Si può andare solo avanti? Qualcosa impedisce di tornare indietro? Perché la corrente del fiume non si può fermare e invertire? Cosa ci costringe ad essere sudditi di una forza che non ci consente di scegliere la direzione del nostro viaggio? Umberto non voleva guardare avanti. Aveva paura.

Lui le disse di fermarsi e di non andare più avanti un giorno, dopo tante tappe di un viaggio veramente bello. “Basta. Siamo scesi già abbastanza a sud. Ora vorrei tornare indietro.” Lei gli disse che non era d’accordo. Si era lasciato guidare da un progetto che non conosceva. L’auto seguiva i dettami di un navigatore ignoto a entrambi. Non programmarono tappe e le soste si fecero dove capitava. Sempre avanti, mai indietro. Ma ora si doveva decidere.

Si alzò dalla sedia e scese in giardino. Andò alla siepe e prese la palla.

Si alzò dal sedile. Era tornato solo. Aprì lo sportello. Prese la palla, rossa e gialla. Corse sul prato, come un aquilone senza filo, oltrepassò la frase scolpita nel legno, con un grave senso di colpa. Arrivò in fondo al prato e affidò la palla al ruscello.

Trovò la palla bucata, sotto la siepe. La prese. La portò in casa. La pulì. Era rossa e gialla. E se la mise accanto. Aveva paura, troppa paura che gliela portassero via.

A ritroso


Un fiore di colore giallo molto intenso attirò la sua attenzione sul sentiero che portava al lago di conca, ormai ridotto nelle sue dimensioni a una grande pozzanghera. Si fermò e scattò la fotografia. Era un ciuffetto di quattro fiori. Non era sicuro che fosse il raro papavero retico, ma la consultazione della rete, possibile ormai anche a quelle altitudini, gli diede conferma: era lui, il papavero retico, che, con le sue robuste radici che si diffondono tra detriti e pietraie in zone soggette a frane, là dove la vegetazione ad alto fusto ha ormai ceduto il posto ai sassi e ai mughi, è utile a mantenere ferme e sicure le rocce. Lui, seppur così piccolo, così importante: dieci-quindici centimetri di stelo peloso dal peduncolo in giù; quattro soli petali in una corolla appena visibile soltanto grazie al suo colore giallo intenso; e invece quel ciuffo di fiorellini sa esprimere, laggiù dove nessuno lo può vedere, tra le rocce, una forza e una potenza fondamentale per garantire stabilità nel fragile equilibrio di cui quel sistema vive. Si fermò. Quel ciuffetto di papaveri retici meritava una sosta. Non le faceva in luoghi casuali. Avvertiva il bisogno di sentire suoi quei simboli, come se fossero feticci. Slacciò lo zaino. Si sfilò la maglia termica restando a torso nudo. Si tolse anche le pedule, antiche calzature che furono del babbo e che aveva come riesumato da un armadio che non apriva da anni (altro simbolo, altro feticcio); e poi si sfilò le calze per dare respiro ai piedi, che avevano lavorato davvero tanto in quelle tre ore di salita e meritavano il guadagnato riposo. Anche il suo sistema viveva di una fragilità che imponeva i suoi riti di rispetto. Si sedette su un sasso e, approfittando dello stesso buon segnale che gli aveva consentito di avere la conferma della specie del fiore, iniziò a consultare vecchie foto di diversi anni prima. Un rito a cui non poteva resistere. Un rito a cui cedeva immancabilmente in quei momenti in cui i sensi si lasciavano sopraffare dallo spirito, o forse facevano arrivare i propri impulsi fino a regioni sulle quali non riusciva più a esercitare un controllo. Aveva pazientemente digitalizzato tutte le più vecchie tra le tante foto che aveva ritrovato qua a là; e poi si era creato uno spazio su internet in cui aveva deciso di tenere soltanto quella preziosa parte dell’archivio della memoria. Erano ormai migliaia, non tutte sue; alcune erano state scattate da Silvia prima che nascessero le bambine; ma la maggior parte erano foto in cui erano presenti anche Elena e soprattutto Luce, la più piccola e la più fotografata di tutti. Era lei che da piccola chiedeva ossessivamente di esserlo; le piaceva essere fotografata e passava tanto tempo a riguardarsi in quelle foto, spesso scattate soltanto per metterla in pace. A casa, quando quelle foto sarebbero state sviluppate e stampate, Luce avrebbe passato ore a sfogliarne gli album. Lassù, di rientro da una faticosa escursione, che aveva previsto anche un tratto esposto, molto panoramico, su sentiero attrezzato, quel riandare indietro nel tempo assumeva il valore della ricerca di conferme per poter imbastire sulle certezze di un passato – e che bel passato fino a un certo punto! – progetti per un futuro che spesso erano destinati a restare soltanto tali. Ormai era diventato un gioco dal sapore un po’ masochistico, se lo si vuole chiamare con un vocabolo dal retrogusto un po’ acre che quel viaggio a ritroso puntualmente lasciava; e forse per questo non aspettava altro che quelle pause per poter riannodare i fili che lo riportavano laggiù, dove tutto un giorno si era improvvisamente fermato e da dove erano partiti tutti quei vani progetti, di cui nemmeno uno era stato realizzato. Uno di quei viaggi della memoria che per qualcuno sono sterili occasioni di malinconia, per altri, e lui era tra questi, sono un modo come un altro nel tentativo, più disperato che altro, di dare un qualche sostegno al futuro, per dare sostanza a un disordinato coacervo di illusioni che aveva il coraggio di chiamare ancora speranza, per tentare di convincersi che, se qualcosa di bello era potuto accadere prima, perché non dovrebbe accadere anche in avvenire? In queste vacue illusioni amava cullarsi lassù dove il vento non modellava soltanto le rocce, ma aveva una propria voce che sembrava cercare una comunicazione con chi lo sapeva ascoltare, con chi ne sapeva decrittare i tanti e mutevoli codici.

Luce era piccola in quella foto. Non camminava ancora. Era nello zaino sulle sue spalle. Silvia avrà scattato quella foto. Non ricordava. Sullo sfondo i ghiaioni del Pelmo. Si intravvedeva a destra un bosco di pini e larici. La foto forse era stata scattata nelle ore centrali della giornata: la forza del sole abbagliava i loro occhi. Erano tutti e quattro animati da un sorriso molto particolare, insolito per i più, un sorriso di quelli che non sono tipici di chi si mette in posa per una foto. C’era qualcosa di vivo, spontaneo e sincero in quel sorriso, si avvertiva una forma singolare di forza, più che di voglia, di vivere. Altra foto della stessa giornata. Silvia aveva preso in spalla lo zaino con Luce e camminava china. Elena guardava verso sinistra in una direzione misteriosa, incurante della fatica della mamma e della gioia della sorella che non doveva ancora sopportare la fatica del camminare in salita. Incurante anche della fatica del babbo, sulle cui spalle gravava un altro zaino, non contenente bambini, ma bevande e vivande, giacche a vento, cartine, binocolo e altro. Non ricordava chi avesse scattato quella foto. Erano rare quelle in cui erano presenti tutti e quattro, perché non aveva mai avuto l’abitudine di chiedere ad altri di scattare foto che poi sarebbero state viziate da quel difetto della posa non spontanea. C’era qualcosa di speciale in quello scatto. Soprattutto in quello sguardo di Elena, molto attento. Non riusciva a capire cosa la attirasse. Aveva un libro in mano. Elena era sempre stata affascinata dai libri. Lo era già allora. Appena sarebbe stata lei a poterli leggere ne sarebbe stata accanita divoratrice. Proseguì con le foto, mentre il vento rinforzava e, coprendo il sole, faceva precipitare la temperatura. Ma per il suo torso nudo e i suoi piedi scalzi il freddo non era mai stato un problema: era soltanto una delle tante forme che aveva scelto quando voleva mettere alla prova i propri limiti. Quasi sempre era quello l’obiettivo delle uscite, che fossero a piedi o in bicicletta, che la fatica gravasse sui piedi o sui polpacci. Non avrebbe preferito trascorrere sempre lassù le sue vacanze, lui che abitava a due passi dal mare e dalla spiaggia, se non ci fosse stata una motivazione forte come questa. Non avrebbe mai scelto un luogo e un paesaggio che consentisse, meglio di qualsiasi altro, di capire quali fossero quei limiti, se non fosse stato sempre  guidato da una forza abbarbicata alle rocce come quel ciuffo di fiori che gli aveva imposto la sosta. Ma erano domande come tante. Se le faceva, poi dimenticava di cercare la risposta. Lassù, a 2200m, qualche risposta forse si poteva avere. Ma era giusto? Aveva le sue buone ragioni per pensare che non lo fosse.

Adesso Luce camminava e stava raccogliendo un fiore giallo. Era un botton d’oro. Forse non si potevano raccogliere. Forse sarà stata anche sgridata per averlo fatto. Era china sui sassi e allungava la mano verso il ciuffo di fiori. Non era in posa. La foto aveva un nome: CapannaAlpiniLuglio97-64. Stavano salendo sul versante est dell’Antelao, diretti al rifugio Galassi. Tante erano le foto scattate nel corso di quella passeggiata, di cui quella con Luce che raccoglieva il fiorellino giallo era la numero 64. Luce era la più piccola. E i più piccoli, succede spesso, sono i più coccolati: lo dimostrava il suo assoluto protagonismo in quella cartella di foto. Silvia appariva poco, ma, quando presente, sorrideva. Elena era presente solo in cinque o sei scatti. Lei non sorrideva mai. Non guardava mai verso la macchina fotografica. Non guardava mai verso la mamma, né considerava la sorellina. Non c’era la luce del sole in quella serie di foto scattate durante la passeggiata in ombra. Ma il verde delle fronde dei pini, dei larici e degli abeti era quasi devastante, campeggiava con tutte le sue tonalità, uno sfondo che diventava personaggio e poi piano piano protagonista della scena: non c’era la forza della luce in quegli scatti; ma il paesaggio esprimeva ugualmente la sua energia attraverso quel verde e quell’ombra e i silenzi del bosco che quel verde e quell’ombra non potevano non richiamare. Erano i silenzi di Elena. In nessuna foto lui appariva con loro. Solo in una, forse scattata da Elena e un po’ mossa, appariva con Luce sulle spalle. La bambina esprimeva il meglio del suo sorriso; il vento le agitava sul viso una ciocca bionda sfuggita alla coda di cavallo, che le avrà fatto sicuramente la sorella maggiore; le braccia erano sollevate in alto, come in segno di vittoria. Sullo sfondo la macchia di colore verde scuro del bosco e dei suoi sempre affascinanti silenzi. Per lui hanno sempre avuto un fascino singolare i silenzi del bosco. Un fascino diverso da quello che lo attraeva in quel momento lassù, fuori del bosco, tra i mughi, i prati e le pietraie. Non ci possono essere categorie e schemi nel fascino: attrae senza una motivazione, sfugge a una razionale spiegazione, vive di una differenza che è essa stessa monumento attraverso i referenti del paesaggio di cui si serve per esercitare la sua irresistibile energia attrattiva. Finita la vegetazione ad alto fusto iniziava un altro fascino. Quello del bosco era il fascino di Silvia, di Luce e di Elena, ma soprattuto di Elena. Non ha mai detto che lo preferisse; ma lo ha sempre fatto capire. Elena non aveva bisogno di parole per comunicare. Quelle foto erano le sue parole, quegli sguardi che nella loro apparente assenza erano invece, per lui che li aveva saputi sempre interpretare, di una particolare intensità; c’era sua mamma in quegli occhi, in quello sguardo tanto profondo e intenso, quanto apparentemente sfuggente.

Suo babbo, che lo aveva iniziato all’escursionismo di montagna, gli diceva che il bosco non era il suo regno, che lui si sentiva aspirante re della roccia, dopo il bosco, sopra il bosco; gli diceva che il bosco era il regno della mamma, perché nel bosco domina il silenzio e che il mistero della vita, della maternità, della ciclicità della natura si coglie nel silenzio del bosco; lassù, oltre il bosco, tra i sassi e i mughi, non era più il regno della mamma, diceva il babbo: “Quello è il mio regno e sarà il tuo un giorno.” Per il babbo la roccia era una forza primordiale, maschia e indefinibile, violenta e iraconda, imprevedibile e mutevole; aveva bisogno di essere sempre guardata a vista e tenuta a freno, rispettata, temuta; e, nonostante questo, quando avesse voluto tradirti, niente glielo avrebbe mai potuto impedire; quando avesse voluto farti del male, nessuna intelligenza umana avrebbe avuto energia sufficiente a impedirlo. Non c’è nel fragore della roccia, dove un’eco sguaiata squarcia orizzonti senza confini, quella razionalità sagace e avveduta che regna tra i silenzi del bosco. I più sagaci li interpretano, ma non hanno bisogno di parole per esprimerli. Come Elena in quelle foto.

Il babbo. Con il babbo aveva imparato la parte spirituale della filosofia della montagna. Con la mamma aveva imparato le ragioni della montagna. Filosofie diverse, complementari forse, anche se il punto in cui avveniva quella congiunzione e in cui si mostrava quella compartecipazione a esprimere un linguaggio unico gli sfuggiva. La mamma gli insegnava a riconoscere vestigia di animali selvatici, anche dagli escrementi di una volpe, dalla traccia lasciata dalle zampe di un cervo sui tronchi (“si è svegliato troppo presto, faceva già caldo, ma c’era ancora tanta neve; non trovava da mangiare e ha grattato la corteccia degli alberi”, gli disse scendendo con le ciaspole dalla diga di Ridracoli in alta val Bidente); gli insegnava a riconoscere fiori, erbe e alberi. Per mezzora parlò dell’aglio ursino, attraversando un lembo della foresta della Lama nei pressi del Nocicchio, mentre l’olfatto, nel silenzio del bosco, ne era totalmente dominato e mentre un picchio sembrava voler scandire il loro passo, prima che diventasse lui l’oggetto della successiva mezzora di cammino. Era il suo mestiere. Insegnava ai bambini. E non c’era un confine per lei tra quando lo faceva, in busta paga del ministero, da una cattedra in classe o quando la faceva sul posto con lui, a diretto contatto con gli elementi del paesaggio. Con il babbo invece non si parlava in passeggiata; al più, in ferrata, si riceveva una dritta su quale gamba fosse meglio stendere per raggiungere un piolo. La roccia era il suo regno. Lì nessuno lo contraddiceva. Comunicava per metafore. E il termine di riferimento era sempre un animale o una pianta; il comportamento migliore da tenere era sempre quello che teneva un animale o una pianta. Quando si era in roccia con lui ci si doveva sentire animali tra gli animali. Questa era la sua filosofia. Per questo il babbo non aveva ragioni da insegnare come la mamma. Gli animali sono àlogoi, dicevano gli antichi greci. Non hanno il lògos, la parola ragionata. Lo ricordava dagli studi scolastici. Il regno del babbo era lassù, dove la ragione finiva e dove da un temporale ci si difendeva senza farsi domande. Sento che bisogna tornare, capisco che bisogna accelerare il ritorno, mi rendo conto che non conviene proseguire oltre quel rifugio: così diceva, ma non bisognava mai chiedergli perché. Non glielo avrebbe mai detto, perché lassù, dopo il bosco, tra sassi e mughi e poi solo sassi, dove non esiste una ragione, non può esistere un perché.

Altre foto. Gennaio 2001. Neve. Verso la cima del monte Falco. Neve di casa. Paesaggio di confine tra Romagna e Toscana. Quanta neve! Luce è cresciuta. Si stava facendo una ragazzina. Ha le amiche questa volta. Elena non appare nelle prime immagini. Nemmeno Silvia. C’è solo Luce che scende con la slitta, Luce che sale con le ciaspole verso l’osservatorio, Luce che mangia le tagliatelle ai funghi al rifugio. Un’inondazione di sorrisi in quella cartella. Quant’è bella! I suoi capelli biondi sempre lunghi. Spesso con la coda di cavallo alta che lei amava tanto farsi. Luce una sera al rifugio Carbonile, prima di gettarsi sul sacco a pelo, volle uscire nel bosco di notte; voleva sentire i lupi. La mamma le aveva detto che in quella zona erano numerosi. Non avevano sentito lupi, ma avevano visto quattro luci che si muovevano ai lati del sentiero: gli occhi di due cervi, aveva detto la mamma. Non si discuteva la sua autorità in quel contesto: era la foresta. C’era la mamma in alcune foto al rifugio con Luce e le sue amiche. Amava uscire con le sue nipoti e sentiva di dover proseguire la missione dell’iniziazione a quella filosofia della montagna, rimasta ormai priva di un pilastro per la mancanza del babbo. Il babbo non c’era più. Ed era giusto così. Quello non era più il suo regno. Era il grande bosco. Erano le foreste casentinesi. Era il regno della mamma e dei mille perché di Luce, per cui lei aveva sempre avuto la risposta. Il babbo era salito più in alto, là dove certe ragioni non hanno bisogno di domande e là dove con le gambe non si arriverà mai.

Le nubi avevano lasciato posto di nuovo al sole, facendo salire la temperatura. Accanto a lui si era illuminato il ciuffo di papaveri retici. Il loro giallo adesso era più vivo. Non aveva voglia di rialzarsi. Avanti con le foto! Avanti nel viaggio a ritroso! Era schiavo. Sì, tanti gli dicevano che era ormai succube di quelle foto e di quei ricordi. E gli dicevano anche quello che lui sapeva che era vero: che quella sudditanza che si era autoimposto era un ostacolo alla realizzazione di tutti quei progetti rimasti sulla carta, di tutti i suoi mille ‘mi sarebbe piaciuto ma …’. Scavare negli abissi più dolorosi alla ricerca di un grande piacere, di una grande gioia e di un grande amore. Ritrovare nella malinconia degli scatti più autentici, ritrovare nei volti e nei gesti, nei flash di una vita immortalata sempre in modo che non fosse quasi mai in posa. Tutto questo occupava ore del suo tempo da quel giorno in cui tutto finì, senza un perché. Anche se sapeva che procedere avrebbe significato avvicinarsi a zone molte pericolose. Pericolose e sicuramente temibili; avevano sempre una singolare forza attrattiva le cose che incutevano paura, soprattutto in quei momenti in cui scavare nell’abisso del tempo sembrava che non assumesse un significato particolare e non rispondeva nemmeno a una precisa volontà. Del resto era fuori del bosco, fuori del tempio della ragione, dove la mamma aveva per anni dato responsi. Lì dov’era non potevano esserci risposte alle domande, tanto meno alle più difficili come quelle sul perché della conservazione della memoria, sul perché di una consultazione di archivi di foto divenuta ormai ossessiva, sul perché si provava una strana forma di piacere nel vedere e rivedere ciò che, lo sapeva bene, avrebbe recato indubbiamente dolore. Eppure quel ciuffo di papaveri retici incuriosiva; la curiosità non veniva dalla la sua rarità. No. Veniva da altro. Poneva domande ben diverse da quelle sulla sua natura e lo faceva in uno spazio dove le domande non potevano avere risposte dettate da una logica. Era il regno del babbo. Lui sapeva tutto di quel regno. Ma come lui non ne aveva mai parlato se non per immagini e per metafore, era alle immagini che ci si doveva affidare in quel particolare codice di comunicazione: un ciuffo di rari papaveri retici.

Anche la mamma non appariva più nelle immagini successive. Aveva terminato di dare insegnamenti e si era affidata a quelle regole che scandiscono le tappe di uno dei percorsi più difficili da pianificare, quello che si chiama vita. Elena continuava a non sorridere e a non guardare mai verso l’obiettivo, attratta sempre da qualcosa che la distraeva in un altrove indefinibile in quegli scatti, distratta da qualcosa che la attraeva e la costringeva a porsi delle domande che lei non faceva mai ad alta voce. 2006. Era la sua laurea che si celebrava in quella cartella di foto in cui adesso era entrato. E il sole di nuovo era coperto da nubi, questa volte alte e nere, che i venti, immagine perfetta di una vita dilaniata sempre da forze contrapposte in eterna lotta tra di loro, cercavano di chiudere sopra di lui. Per il momento una lotta senza né vinti né vincitori. Sul suo petto nudo caddero due pesanti gocce d’acqua. Non se ne curò. Le persone passavano sul sentiero con le giacche a vento, di passo frettoloso per arrivare a fondo valle prima della pioggia, spaventate da quelle rade, innocue gocce; e lo guardavano quanto meno stupite. Ma lui non aveva fretta. Non temeva la pioggia, che faceva parte di un ordine naturale delle cose che non doveva mai essere temuto, solo ascoltato. Il tuono che si sentì era dall’altra parte del passo. I venti stavano concentrando altrove le nubi. Il babbo si sarebbe fermato a guardarle, senza paura alcuna, mentre gli altri correvano preoccupati, imbacuccati, o, meglio ancora, incapaci e privi di strumenti per sentirsi parte di quell’ordine naturale, affascinante con le nubi nere, tanto quanto lo era stato con il sole. Ed Elena, elegante nel suo vestito a fiori, misteriosa con i suoi enigmatici e grandi occhi neri, veramente sensuale con i suoi sciolti capelli mossi di colore castano scuro, con le sue amiche popolava lo schermo, qualche volta cinta di quell’orrenda corona d’alloro che lei non sopportava e le amiche le mettevano sul capo prima che lui scattasse la foto. Ogni tanto appariva Silvia, lui mai. Erano foto che aveva scattato soltanto lui.

Un tuono molto forte fece rimbombare tutto il vallone ai suoi piedi, un’improvvisa ventata fresca scosse i rami dei mughi, ma il cielo era sgombro di nubi e il sole dominava su di lui, infondendo una serenità e una sicurezza, che non c’erano sicuramente di là dal valico, ad appena venti minuti di cammino da quella pietraia risultato di antiche e più recenti frane, in cui aveva deciso di fare quella pausa, tra grandi massi erratici, ottimi divani naturali. Non farti domande, sentiva la voce dentro di lui salire da quel passato che da solo occupava ormai sconfinate regioni della sua anima. Tuona, ma c’è il sole. Il vento si è raffreddato e agita tutto intorno a te, ma il sole ti scalda ed entra dentro di te come non ha mai fatto. Non farti domande. Tutti corrono giù a precipizio, avvolti nelle loro coloratissime giacche a vento e i loro variopinti pantaloni da montagna, ma tu resti lì scalzo e seminudo con l’abbronzato rosa della tua pelle come unico colore che ravviva di una nota diversa quel paesaggio che soltanto di diversità vive, come unico vestito di un corpo che non necessita di altro. Non farti domande. Guarda loro e impara: volse gli occhi verso il ciuffo di papaveri retici, ora gialli, ora arancioni. Sfumavano secondo la luce. Ed erano l’unico fiore lì presente, tra mughi e sassi. Un altro tuono, anch’esso lungo e forte, ebbe questa volta un suono quasi metallico, come di lamiere che si accartocciavano su se stesse; fu seguito da un rimbombo di rantoli acuti che sembravano lamenti che non finivano mai, disperate richieste di aiuto. Il cielo viveva di contrasti forti tra il nero di là dal valico e l’azzurro di qua. In mezzo tonalità di rosso sangue e un’iride beffarda. E il viaggio nel tempo s’interruppe. Come sempre. In un attimo. Quando il sentiero stava prendendo la forma dell’asfalto dell’autostrada, quando le nubi quella della nebbia e le persone che correvano spaurite quella dei primi soccorritori, in un batter di ciglio tutto si fermò. Procedere avrebbe significato vedere immagini di una grande solitudine: avrebbe rivisto foto di paesaggi senza persone, sentieri senza escursionisti, boschi senza più un’anima, rocce senza più una vita. I sorrisi di Luce non ci sarebbero stati più; non più gli sguardi segreti di Elena; non più la dolcezza infinita di Silvia. Tutto era finito in un attimo, ingoiato sull’asfalto, tra le fauci di un banco di nebbia.

Procedere nel viaggio avrebbe richiesto una nuova energia. Decise di non cercarla nemmeno. Spense il cellulare, che avrebbe solo richiamato icone di un dolore che non avrebbe avuto più confini. Chiuse gli occhi con una sola immagine viva. Era un’immagine di energia e di grande vitalità. Di quella sentiva il bisogno. Aveva appena scattato quella foto. Aveva un valore inestimabile adesso: esprimeva forza e vitalità là dove nessuno aveva il diritto di farsi domande su quanto accadeva di là dal valico, sotto i nembi sempre più scuri. Lui era rimasto di qua. Era rimasto solo lui. Lui con una foto che mai avrebbe cancellato. Un ciuffo di papaveri retici, forti e robusti nella loro maestosa solitudine, ricchi nelle diffuse radici di un’energia che non si vede, che non scialacquano alla vista del primo sconosciuto, incuranti del vento gelido, incuranti del freddo, incuranti di tutto quanto potesse far loro del male. Incuranti, soprattutto, perché lì non ci si deve mai porre domande.

La teoria dei paletti

I fiori gialli di tarassaco realizzavano forme perfette ai suoi piedi . Non erano frequenti sui rivali dei fiumi. Aveva aromatizzato il miele con quelle erbe. “Li devi utilizzare sempre in una dieta equilibrata e associata a uno stile di vita sano”, gli aveva detto Serena. Stava correndo sul rivale di un fiume e il giorno prima aveva percorso novantacinque chilometri in bicicletta di cui più di venti in salita: lo stile di vita doveva essere di quelli sani. Non era a lui che quelle frasi andavano certamente rivolte. La farmacista era sua ex compagna di scuola e lo conosceva bene. Le aveva chiesto qualcosa contro la stipsi e lei gli aveva detto che i prodotti a base di tarassaco davano buoni risultati. Ora era lì ai suoi piedi, con le foglie lucide di rugiada e i cerchi perfetti dei sui fiori che realizzavano nei cespugli cupole altrettanto perfette. “Non pensare che le medicine risolvano tutto, Claudio. Affidati a qualcuno. O meglio, fidati di qualcuno, una buona volta.” Non aveva risposto. Aveva comprato, pagato e salutato. Non sopportava più che tutti gli dessero consigli. Serena gli aveva dato un altro di quei consigli. Lo aveva fatto dentro un camice bianco e dall’altra parte di un bancone, un camice e un bancone che le conferivano evidentemente la convinzione di avere una sorta di autorità. Così almeno lui credeva. Ma forse sbaglio, pensava. Serena, tra i tanti consigli, gliene aveva spesso dato uno che lui non sopportava, non tanto perché lo ritenesse ingiusto, quanto perché pensava che fosse ottimo alibi ritenerlo difficile e quasi impossibile da realizzare, perché lui non fosse tenuto a seguirlo. Correva sempre, con ritmo regolare, pensando al fatto che Serena avesse ragione, ma non dovesse avere la soddisfazione di sentirselo dire. La ricaduta della scarpa sullo stabilizzato aveva l’impegnativo compito di scaricare ogni bruttura su quel terreno, di liberare il corpo, la dimora dell’anima, dal rusco che si accumulava notte dopo notte. “Vedrai che ti rifarai una nuova vita”, gli aveva detto Pierpaolo. Le stiance si susseguivano fitte ai suoi lati. Quattro di quelle erano state usate come ornamento all’ingresso della villetta al mare in cui Pierpaolo passava i mesi estivi. Era il suo medico, anche lui amico d’infanzia, lo aveva invitato a una grigliata estiva in una delle poche sere in cui era uscito da sei anni a quella parte. Aveva invitato solo lui. Sapeva che amava le grigliate e che anche lui era bravo a farle. Ricambiò un altro invito di anni prima a casa sua, con la sua famiglia ancora unita, le tre bambine che giocavano, Valentina avvolta in un sorriso forzato. “Sono cose che capitano ormai a tanti. Anche a me è capitato. E tutto è ricominciato da capo. Vedrai. Ricomincerà da capo anche per te.” Pierpaolo parlava sempre generalizzando. L’archivio delle cartelle dei suoi assistiti era per lui la cartina di tornasole dell’umanità. Pensava di averne talmente tanti e così diversi da poter realizzare un casellario: qui ci metto tizio, qui caio, qui sempronio. Punto. Tutto doveva stare lì dentro. Non si accettano deroghe. Claudio si chiedeva da tempo in quale di quelle maledette caselle fosse finito. Sicuramente in quella sbagliata. Anzi, no. Tutte erano sbagliate. Correva ora adirato. Il suo respiro non era più al passo con la corsa. Non riusciva più ad accordarlo. “Quando Giulia ed io decidemmo di comune accordo di chiudere tutto, mi riproposi di ascoltare. La prima che avesse fischiato sarebbe stata mia.” In effetti, gli era bastato un mese per riempire quella casella. Le maledette caselle di Pierpaolo non erano mai rimaste vuote. “Sei hai bisogno, vieni qui da me quando vuoi”, gli diceva sempre Serena, la dispensatrice di consigli umanitari, con quel sorriso costruito da animatrice di parrocchia che deve dare consigli anche se non richiesti, un sorriso che Claudio però le aveva sempre un pochino invidiato, senza sapere esattamente perché. Serena, tutto sommato, aveva un grande pregio: regalava filosofie semplici e sapeva farlo molto bene dentro quel camice bianco. Non era giornata. Correre non gli piaceva come andare in bici. Lo faceva per stare bene, ma era proprio piegato sulle ginocchia e il respiro era affannoso. Dunque, non funzionava, perché non stava bene. Il vento rinforzava e il profumo dei tigli che veniva dalle spalle di un altro, che il camice bianco lo indossava sì e no, lo pervase con forza. “Adesso, Claudio, sei pronto per entrare da protagonista nella vita e, dopo tutto quello che hai sofferto, lo farai da lottatore.” Aveva ascoltato le parole del medico che aveva seguito la sua lunga riabilitazione dopo l’incidente, ma Claudio non aveva capito chi dovesse essere il lottatore, con quali armi avrebbe dovuto agire questo lottatore e soprattutto, cosa ben più importante, contro quale nemico questo lottatore avrebbe dovuto combattere. Tutti gli avevano sempre dato consigli ispirati. Tutti pretendevano di pontificare sulla sua anima, conoscendo di lui appena una parte del corpo a testa. Il suo errore era stato quello di averli sempre ascoltati, di aver preteso che, mettendo insieme le conoscenze delle parti del corpo di competenza, ne uscisse un quadro esaustivo. E invece no. Era sempre stato costretto ad ascoltare. Non aveva mai potuto veramente agire, né tanto meno reagire. Si era lasciato riempire fino all’orlo di consigli di vita. Per nove anni, del resto, cos’era stata la sua vita? Come poteva pretendere chi aveva curato il suo corpo di ergersi al ruolo di vate della sua anima? Allora non poteva correre. Adesso sì. E, se lo poteva fare, era proprio grazie a chi si era preso cura del suo corpo. Avevano fatto il loro dovere. Basta. I consigli di vita non competevano loro. Eppure li aveva lasciati parlare, li aveva ascoltati, riascoltati, spesso con l’attenzione che si dedica a una lima sorda. Li aveva persino accolti tra gli amici. Parola impegnativa. No. Non aveva amici. Conoscenti, meglio. Persone che con un ruolo o un altro avevano casualmente visto la loro vita incrociare la sua, meglio ancora. Eppure queste persone avevano, per diverse ragioni, avuto a che fare con la sua intimità, avevano lavorato il suo corpo, avevano visto tutte le sue nudità, quelle fisiche e quelle altre, quelle che pretendevano di incasellare e trattare come le quotazioni dei titoli in banca. Perché non le aveva volute tra gli amici? Loro si consideravano suoi amici. Lui non li considerava suoi amici. Erano amici o no? Cos’è un amico? Un confidente? Uno che deve sapere tutto? Nessuno di loro sapeva tutto. Uno sapeva questo, un altro quest’altro. Ma nessuno sapeva tutto. E la somma degli addendi non era mai una certezza e non dava mai lo stesso risultato. La fisiatra aveva fatto i capelli bianchi e le rughe in quei nove anni di lavoro su di lui che le avevano permesso di dirgli che sarebbe tornato da lottatore e da protagonista nell’arena della vita. Il profumo dei tigli che con le sue parole entrava in lui era qualcosa di indescrivibile. Il nonno gli faceva passare ore nel cortile tra i tigli, quando a giugno, terminate le lezioni, veniva portato da lui, nella sua casa in campagna. In cortile aveva iniziato a leggere. Quello spazio non aveva recinti, non era una casella: si apriva in tutte le direzioni verso i coltivi ed era lambito da una gora che una chiusa poche centinaia di metri più avanti rendeva sempre lenta e placida. Non poteva correre. Non era ancora stato effettuato l’intervento che glielo avrebbe consentito e gli avrebbe permesso di ritornare da ‘grande protagonista’ e da ‘lottatore nell’arena della vita’. Leggeva. Leggeva di tutto. Usciva con il nonno, che lo portava in libreria e lo lasciava lì finché non avesse scelto. Adorava i libri di avventura, di viaggi in terre lontane, anche di fantasia. Adorava leggere di persone che facevano grandi cose e lo facevano sognare. Non poteva fare altro nelle sue condizioni. Poteva solo sognare. Conoscersi e uscire dall’adolescenza significa anche prendere atto delle più scomode verità sulla tua vita, mentre il profumo dei tigli ti illude che in quella vita tu possa assaporare anche qualcosa di buono. E allora perché correre se farlo non ti ha mai sconfinferato? Mai che ne facesse una buona.

Claudio non voleva che un altro lo vedesse piegato sulle ginocchia. Si rialzò. Chiuse gli occhi nell’illusione che il groppo sarebbe andato giù. Si voltò. E decise di tornare indietro. Lo fece camminando, fiero del fatto che il poterlo fare non era affatto scontato, per chi conosceva la sua storia. Pochi potevano dirlo. Lui era di quelli. Il groppo non andava giù. E il cuore sembrava che volesse scappare, cercare un’altra vita e abbandonare lì tra le canne e le stiance quella ormai inutile che lo aveva tenuto per tanti anni prigioniero, incapace di esprimersi, di conoscere un vero piacere, di gustare una vera gioia. Correva anche per quello. Andava a fare chilometri e chilometri in bici da corsa anche per quello. Il cuore non doveva lasciarsi prendere da quell’insano desiderio di andarsene altrove. Doveva essere tenuto sempre impegnato. Se il cuore lavorava, chissà, forse anche l’anima sarebbe stata meglio. Quante volte avrebbe voluto sapere dove stava quell’anima? Nel cuore? Nella testa? No, ‘sta nei sensi’, gli disse un giorno una collega. No, troppo materialistico. Claudio non era mai stato un materialista. Eppure i sensi avevano un ruolo importante. E anche lì in quel momento lo avevano: il ritmico e cadenzato tonfo della scarpa che batteva sul suolo della strada bianca come arrivava alla sua mente? E il giallo dei fiori di tarassaco? E il profumo dei tigli? E questi sensi perché mettevano in atto ingranaggi che riavvolgevano la bobina del tempo? E perché quel film appariva ora bello ora brutto? Tra quei lacerti disordinati che di quando in quando, soprattutto di notte, venivano recuperati e rivissuti qualcuno infondeva serenità e diventava sogno, altri subdolamente s’intrufolavano tra i primi e trasfiguravano tutto, e la serenità diventava paura, e il sogno incubo. Cercò il cellulare, accese la musica e si mise le cuffie. I sensi potevano essere distratti.

Era la stessa musica che aveva sentito il giorno prima nell’uscita in bici e che aveva impresso la cadenza alle frequenze della pedalata. Era una musica ossessiva, ripetitiva. Carmina Burana: “è pseudodoping: non vale!”, gli diceva Lele, un suo compagno di uscite in bici. Si era ripromesso di non ascoltarla più, perché aveva l’impressione che lo trasformasse in un essere innaturale. Ma quante promesse erano cadute nel vuoto! Il giorno prima ne aveva parlato con Pierpaolo. In sala d’attesa non c’era nessuno. “C’è l’insegnante che dopo una brutta esperienza in una gita scolastica, dice che non ne farà più e l’anno dopo puntualmente la ritroviamo in gita. C’è il fumatore che promette che non fumerà più, lo dichiara coram populo e si fa sorprendere con la sigaretta in bocca. C’è il bevitore che accusa dolori di fegato, assicura che non toccherà più niente di alcolico e di nascosto riprende presto a scolar bottiglie. Con lo stesso spirito anch’io avevo fatto il mio solenne proclama: avevo deciso di non scrivere più.” Pierpaolo gli aveva risposto: “ Fai bene. Tanto chi legge quello che scrivi ci fa solo risatine sceme sopra.” Lui lo aveva corretto: “Forse sarebbe meglio dire che queste persone spesso non hanno proprio strumenti per intendere, perché non leggono; oppure, se lo fanno, si dedicano a quelle che comunemente si chiamano letture da ombrellone. (Mi è piaciuta la tua espressione quando hai detto che chi legge tende spesso a commentare animato da ‘vampirismo pettegolesco’). Oppure, peggio ancora, esce con le sentenze di mia cugina, quando le consigliai la lettura di Palazzo Soglianodella Casati Modigliani (roba di qualità …): ‘Non sopporto leggere libri che parlano solo di tristezza. Voglio roba allegra. Meglio la Settimana enigmistica.'” Pierpaolo gli aveva detto che non era facile restare a un livello alto: “Dopo il successo della prima raccolta di racconti, ti sei convinto di non essere riuscito a tornare a quel livello. E hai perso motivazione. Per me sbagli.” “E infatti, come vedi, ci sono ricascato. Lingua batte dove dente duole, del resto, si sa. Mi sono rimesso a scrivere. Ed eccomi qua. Stanotte mi sono svegliato alle due in preda a un incubo, uno dei più cattivi e anche dei più ricorrenti, purtroppo. Facciamo il gioco del dottore: io parlo, tu ascolti. Dovresti essere bravo a fare la parte del dottore.” Pierpaolo conosceva quegli incubi da tempo. Del resto tanti racconti di Claudio, forse i più belli, erano scaturiti da lì. Ma non sapeva che quello nuovo, che si stava accingendo ad ascoltare e che per questo ancora non aveva preso forma narrativa, forse li avrebbe battuti tutti. Claudio aveva sospirato, chiuso gli occhi come per riordinare le idee e poi aveva iniziato a narrare il sogno. “Sei pronto? Guarda che è roba forte questa.” “Sono pronto. Vai!”

Sono in classe, sono alle medie, forse la seconda media, è suonata la campanella dell’intervallo e mi tocca alzarmi, perché mi scappa. Per farlo devo mettermi o lo scarpone con la zeppa alta più di 15 cm (il ‘trampolo’ lo chiamava mio babbo) o andarci zoppicando vistosamente mettendo la scarpa normale che avevo nello zaino. Comunque, in un modo o nell’altro, con una scarpa o l’altra, mi prenderanno ugualmente tutti per il culo. Inevitabile. Tanto vale farlo senza trampolo. Mi alzo e, quando ho trovato l’equilibrio giusto fra la flessione della sinistra e la lunga discesa della destra, mi accingo ad andare in bagno; per farlo ci sono le Forche Caudine: bisogna attraversare quel corridoio affollato dove si sono dati convegno tutti i minus habentesdella scuola che rideranno come sempre del maiale emiliano storpio con una gamba più corta. Ci ero abituato. Infatti, ridevano solo loro; io non ridevo mai. Stavo sempre da solo in un angolo in classe. Persino se interrogato, aprire bocca per parlare era motivo di terrore. Appena metto il muso fuori dell’aula, uno urla subito ‘eccolo il secchione, il maiale emiliano storpio’. Uno, il capobranco (non saprei se più ammirato o temuto dagli altri), mi si avvicina e mi fa il verso della camminata, poi mi dà uno spintone e mi fa cadere; e infine, ridacchiando insieme a tanti altri – il bullismo è democratico e sa unire tutti, maschi e femmine, ricchi e poveri -, si mette a urlare: ‘adesso rialzati e corri se ci riesci, maiale emiliano storpio. Facci vedere come fai a correre. Avete mai visto un maiale zoppo?’ E tutti ridono, tranne me; non è mai stato nel mio repertorio. Lì vicino c’è una sedia metallica. Nessuno ci si siede, perché corre voce che l’ultimo ad averlo fatto sia stato bocciato per tre volte di fila. Inutilizzata da anni, pare. Ho un’idea: usarla finalmente. Mi rialzo, la prendo e la fracasso in testa al capobranco con tutta la mia forza. Mi rendo conto che questa volta l’ho fatta grossa per davvero. Cola sangue dappertutto. Il bidello arriva, mi prende e mi porta dal preside, un altro chiama l’ambulanza, urla e spintoni a destra e a manca, una ragazza si mette a piangere impressionata dal rivolo di sangue che ha colorato il pavimento; ho osato colpire Lapo Claudio Lorenzo Antonioli Dell’Impruneta, diretto discendente della nobile casata, che conserva un’incalcolabile ricchezza e può permettersi lusso in ville medicee, vendendo vini adulterati o taroccati in tutto il mondo. Lo sanno tutti. Firenze è una città molto più piccola di quanto si creda. Vengo portato in presidenza. Non mi oppongo. Sono abituato anche a quello. Il preside mi fa domande a cui ovviamente non do alcuna risposta. Silenzio. Una mummia sarebbe il prototipo della loquacità al mio confronto. Mio babbo arriva a scuola di corsa. Ascolta. Cerca di spiegare. Non serve a nulla. Sospensione.”

Pierpaolo aveva ascoltato immobile: “Caspita! Roba proprio pesante quella di oggi. Per fortuna che è un sogno.” “Non lo è affatto, amico mio.” “Ah, lo dovevo immaginare, come se non ti conoscessi ancora.”

E così – riprese Claudio – passo le notti da allora, amico mio, come ben sai. Di giorno si cerca di non pensarci. Ma di notte è difficile. Ti prende sempre a tradimento. E se ti impedisce di dormire, che fai? Ti metti al computer e cerchi di passare in un altro modo le ore. Di soluzioni alternative ho una certa esperienza dal mio particolare punto di vista. Ho sempre scritto. Scrivendo vinco l’ansia che mi provoca il parlare. Di giorno fai passare il tempo montando sulla bici: lì nessuno ti vede camminare e ti senti come tutti. Credo sia impossibile capire quanto è bello sentirsi come tutti. La bici fu il vero riscatto. Mio nonno e mio babbo furono veramente due grandi, immensi, veri uomini. Seppero ascoltare il mio silenzio. Me la fecero fare da Gastone Nencini, vincitore di un Tour, amico e compaesano del nonno, con le pedivelle su misura (e una cassetta pignoni che arrivava al 34! …), per venire incontro alla minore forza che avrei avuto inevitabilmente dalla parte destra.” Pierpaolo avrebbe voluto chiedere della mamma, che ruolo aveva avuto in quella storia. Fu letto nel pensiero: “Mia mamma sapeva tutto; conosceva tutti i perché, ma non parlava di queste cose. Se lo faceva, era per sgridare. Non era un bel modo per sfogare il senso di colpa, avrei pensato con il senno di poi. Non ho mai capito se per scelta sua o perché così avesse voluto il babbo. La mia era la famiglia dei silenzi inquietanti. Sarà, tuttavia, difficile per me perdonarle silenzi che hanno rovinato una vita, che hanno fatto sì che desiderassi rompere quanto prima quel legame con quell’ambiente che avvertivo malato più di me. Oggi sto meglio, amico mio. Non ho preso l’antidolorifico.” Senza rendersene conto, nel camminare aveva iniziato a buttare di lato il piede destro: il tempo che non passa. Per questo decise di riprendere a correre. La musica continuava a dare il ritmo. Come lo aveva dato in bici il giorno prima. C’era sempre quel messaggio sul cellulare. Era arrivato ieri, mentre era in salita. Lo aveva letto in cima, al valico. Era di Pierpaolo, preoccupato perché non avrebbe dovuto fare quegli sforzi, dopo i dolori che aveva iniziato a patire e sotto l’effetto di quel forte antidolorifico che gli aveva somministrato nei mesi del recupero postoperatorio dopo l’incidente. Claudio gli aveva risposto.

Tranquillo, mi fa quasi da doping. Non sento la fatica. Sono in bici. Ho finito la salita e ora torno. Sono soddisfatto. A me in fondo è sempre bastato questo da allora. Quassù mi sento un altro. Mi è bastato allora, mi deve bastare anche adesso. Non posso avere purtroppo altre gioie, perché qualcuno ha pensato bene che non bastasse avere una gamba più corta e un occhio inutile. Ho queste. Ho i libri, per cui un occhio basta e avanza, e ho le bici, che sono l’unica cosa veramente miracolosa: mi fanno sentire bene perché non mi sento sguardi addosso. Mi tengo quello che ho. La solitudine è un falso problema. La separazione non l’ha provocata; l’ha solo acuita. Quando mai sono stato socievole? Ma soprattutto, perché mai sarei dovuto esserlo? Ecco cosa significa la bici e perché lì, sulla bici, ho cercato il riscatto. Forse non te l’avevo ancora detto. O forse l’avevi già capito, perché tu non hai un intelletto comune e ti elevi ben oltre la media, amico mio. In bici non devo difendermi dagli occhi di nessuno. E quando monto sui pedali per affrontare una salita, non solo non mi sento diverso dagli altri, ma, concedimelo, qualche volta mi sento addirittura un pochino migliore. Soltanto sulla sella della bici mi capita. Non è forse giusto che ognuno cerchi il suo posto nell’ordine naturale? Perché obbligarmi ad andare in una spiaggia e dare in pasto alle iene e agli sguardi che sbavano solo cattiveria quello che odio io stesso per primo guardare? Perché obbligarmi a mettere quello scarpone che odiai talmente tanto e che ancora popola incubi? Quanto male facevano quelle cinghie! ‘Deve tenere dritto il piede, Claudio’, diceva mia mamma. Ma quel piede era nato storto e serviva storto per arrivare meglio a toccare terra con le dita; ‘ne ha solo tre; non reggeranno il peso del corpo’. Chissenefrega! Per camminare bastano. Il corpo si adatta a tutto. Non farmelo soffrire di più, mamma, per favore. Non serviva a niente. Lei ascoltava solo i medici. E invece … anni di dolore, di isolamento, di torture del corpo per essere uguale, sapendo che quell’uguaglianza aveva una data di scadenza. Quelle torture del corpo, prima o poi, avrebbero fatto male anche altrove. Non mi si può rimproverare di non essermi liberato del passato. Come si fa a liberarsi di un passato pesante e ingombrante come questo? Un passato così non si metabolizza; al più si cerca una forma di convivenza con lui e si tenta di domarlo. Ma non è facile, perché non sei tu a decidere quando farlo tornare in superficie. Lo decide lui. Non credo, pertanto, di essere un pusillanime per non essermene liberato. Mi colpisce a tradimento. E devo difendermi. Qualche volta, giocando in difesa, si riesce anche a vincere. Qualcosa ho vinto anch’io, non devo dimenticarlo. Ho tenuto per me le mie vittorie. Non mi è mai interessato che altri condividessero sentimenti che non avrebbero mai inquadrato nel contesto giusto. Le ho sempre gelosamente custodite; le tengo per me; e quassù, ogni volta che arrivo in cima a un passo o al termine di una salita, me le godo. Non avrà mai sapore amaro una vittoria che devi solo ed esclusivamente a te stesso e a forze che mai un tempo avresti creduto di poter avere. Non è forse bello tutto questo? Posso avere questo. Non posso avere altro. Ma non è poco quello che mi sono conquistato. Non mi interessa a questo punto il ridacchiare altrui per quello che scrivo. Quassù lo sento lontano anni luce. E quello che scrivo quassù non è mai scritto a vanvera. ‘Quasi tutti i grandi libri sono tristi’ tu hai scritto, più o meno con queste parole, un giorno. Non credo che sia triste quello che ho scritto. Non sarà di sicuro grande. Ma a me piace, perché sento che possiede un valore profondo, ha un significato speciale, affonda le sue radici in un terreno di cui conosco, solo io, ogni sentiero. Oggi è di moda fare pubblicità inserendo negli spot un disabile, per attirare l’attenzione sul problema. Torniamo ai circhi e ai baracconi dove i freaks, gli scherzi di natura, facevano fare soldi? Chi si riempie la bocca di resilienza in tv o su internet, venga quassù e faccia due chiacchiere con me. Parlerebbe molto meno a vanvera. Anzi, forse non parlerebbe proprio più e si vergognerebbe di tante boiate sparate a destra e a manca. E se sapesse ascoltare e spogliarsi di quella superbia che lo fa parlare troppo e lo tiene al centro dell’attenzione sui social trattando di ciò che non sa, imparerebbe, vedendomi salire quassù, che una grande storia si può raccontare anche con quello che qua domina incontrastato: il silenzio. Quel silenzio che allora mi relegava nel ruolo del perdente senza speranza, adesso, quassù, prende un sapore completamente diverso. È un sentimento ineffabile, amico mio. Solo quassù in questo spazio, solo dopo la sedimentazione del dolore in quel tempo (anche gli incubi come quello di questa notte paradossalmente servono), prende una forma e si lascia rappresentare. Forse non spetta a me dare giudizi che escono dal campo del metodo ed entrano in quello del merito; ma non credo che tu pensi che io esageri se ti dico che quassù avverto il sapore, per me inconfondibile, della vittoria.” E Claudio, infatti, memore di quello scambio di messaggi del giorno prima, correva pensando a quando il correre era un sogno, ma soprattutto era motivo di rancore nel bambino che ancora non capiva perché gli altri potessero farlo e facendolo si divertissero, mentre lui invece non poteva. Forse avrebbe dovuto smettere.

Il referto del radiologo era finito nelle mani della sua fisiatra: “Dia a me il dischetto; il radiologo non capisce niente di queste cose.” Poi in quelle dell’ortopedico: “Dia a me il dischetto: non deve ascoltare la fisiatra. Ascolti me, se vuole guarire.” Quel ‘se vuole guarire’ suonava singolarmente beffardo per come era stato pronunciato. Da quando era nato doveva ‘guarire’, ma non aveva mai capito esattamente da cosa. “Ma cosa significa guarire? Essere come gli altri? Ma allora perché per farmi ‘guarire’ mi hanno fatto più male? E perché adesso quel ‘guarire’ significa dover tornare come ero prima? Non ricordo di essere stato male prima che qualcuno si fosse messo in testa che dovevo ‘guarire’. La causa di tutto non è stato forse in un farmaco che è stato messo in vendita per ‘guarire’?” Il medico, che aveva ascoltato seduto nel suo studio in ospedale, era stato spiazzato da quelle argomentazioni. Sapeva che non era quello della parola usata come frutto di passione il terreno in cui avrebbe vinto e ricorse pertanto alla parola scientifica, al linguaggio gergale della sua specialità, al lessico tecnico. Claudio aveva ascoltato per anni quelle parole. Non le sopportava più. Mentre il medico ancora stava parlando, si era alzato, aveva salutato ed era uscito. Non aveva sbattuto la porta, perché quel medico non aveva alcuna colpa e non stava facendo niente di male. Non stava semplicemente facendo nulla di utile.

Amico mio, aiutami,” aveva scritto a Pierpaolo, facendo una pausa nella corsa, con le asettiche parole di quel referto che andavano su e giù per il suo corpo, come se non avessero il coraggio di fermarsi nella mente. Sentì il bisogno di sedersi ed ebbe un primo conato di vomito. Non riuscì a trattenere il secondo. Uscirono da dentro anni di finta vita coniugale, anni di continui infingimenti nei rapporti con i colleghi e i conoscenti, anni di una finta volontà di riscatto tramutatasi presto nella rivalsa del ‘devo fargliela pagare’. Aveva macchiato una bianca distesa di convolvolo che si dipanava tra i pruni già pieni di more a grappoli e le verdi foglie appuntite dell’ortica. Vita. Vita ovunque, che si irraggiava allegra di colori per fare più male al grigio che imperava laggiù. Su quella vita aveva vomitato tutta la sua inutilità. Il sapore della vittoria, di cui tanto era andato fiero, lassù, in bici, alla fine della salita, sembrava ora un lontano ricordo.

Come posso aiutarti, Claudio?” Pierpaolo diceva sempre così quando non aveva tempo. Poi si pentiva e gli scriveva di nuovo, scusandosi della frettolosa risposta. Come sono prevedibili e scontate le persone! Qualche volta persino inutili. La solitudine poteva rivelarsi in certi momenti addirittura una salvezza, pensava in preda ad una pura pratica di autopersuasione, come uno che dicesse ‘ho freddo’ con quaranta gradi. Non corse più. Avrebbe dato almeno una piccola soddisfazione ai maestri dell’arte del ‘guarire’. Riprese a camminare. Di nuovo quel piede destro buttato di lato, senza accorgersene. Arrivò all’auto. Era infuocata. Dopo aver corso e anche vomitato, si sentiva asciutto. Aveva sete. Si diresse velocemente a casa. Ma prima ebbe bisogno di fermarsi in farmacia. Entrò. Prese il numero. Al suo turno si presentò al bancone e chiese di Serena. Arrivò da dietro, da una delle stanze dove si trovano gli uffici del servizio comunale. “Ciao, Claudio. Sono impegnata in ufficio. Se hai bisogno di parlare, mandami un messaggio e ti dico quando posso.” “Non ho bisogno di parlare. Ho bisogno di aiuto.” Serena sospirò. Poco prima in farmacia si era presentata Valentina, la sua ex, con le bambine. Aveva una ricetta del suo medico che le prescriveva psicofarmaci di due tipi. Stava male evidentemente anche lei. Gli occhi di Serena caddero per un attimo sulle bambine, che assomigliavano tantissimo a Claudio. Anche i suoi assomigliavano al babbo, che l’aveva lasciata sola per un’altra. La donna l’aveva salutata con un po’ d’imbarazzo, conoscendo il legame di amicizia che da anni legava Serena a lui. Non si erano guardate negli occhi. Le aveva messo la ricetta davanti sul piano del bancone con un mezzo sorriso. Tra le labbra era apparso un mezzo saluto. Non era certamente il modo di fare che aveva avuto nelle uscite, quando tutti insieme andavano a cena fuori con le loro famiglie, dei bambini c’erano solo i suoi e quelli di Claudio sarebbero arrivati dopo. Era un comportamento che Serena ormai dal quel privilegiato punto di vista aveva avuto l’opportunità di conoscere anche troppo bene. Solo un giorno su quelle labbra era apparso quel mezzo sorriso. Serena lo ricordava bene, perché Valentina e Claudio erano venuti in spiaggia con lei, che amava molto il mare, a differenza di Claudio che non lo amava per niente. Valentina quel giorno era apparsa assente. Felice di essere lì, ma poco di comunicare. Serena, che con lei aveva confidenza, le aveva chiesto se ci fossero dei problemi. Valentina naturalmente aveva negato. Quello che la preoccupava non era quello che solitamente è considerato un problema: Valentina – Serena lo avrebbe saputo da Claudio – era incinta. Eppure non trapelava alcuna gioia. Al contrario, Serena aveva avuto l’impressione che aleggiasse agitazione e nervosismo nel distacco tra loro due. Non aveva, sulle prime, indagato ulteriormente. Ma dopo, mentre Valentina era in acqua a fare il bagno, Serena e Claudio si erano trovati al bar e lui le aveva dato la notizia, con un sorriso e una felicità troppo di circostanza per essere autentici. Serena e Pierpaolo sapevano di Claudio cose che forse nemmeno Valentina conosceva. E sapevano entrambi che Claudio aveva sbagliato a tacere, glielo avevano anche detto più volte, ma lui, testardo, sempre aveva risposto che sapeva il fatto suo. Serena era stata più volte convinta che Claudio non avesse avuto il coraggio di dire tutto di sé alla moglie. Lo aveva saputo da Claudio stesso. A scuola erano stati compagni di banco, avevano fatto i compiti insieme per anni. Claudio allora ebbe interesse non ricambiato per Serena, ma dovette alzare bandiera bianca quando lei conobbe un altro. Rimasero buoni amici, ma la confidenza che li legava era ormai molto profonda, quasi fraterna. Valentina si era innamorata di Claudio durante una vacanza in barca. Erano in cinque: Serena con il marito, un amico e collega del marito, Valentina, Claudio. Serena era incinta e non poteva aiutare il marito nella conduzione della barca, per cui si prestarono a turno gli altri. Durante la traversata Valentina e Claudio si trovarono a fare insieme la notte al timone, che fu galeotto. Stavano bene insieme. Riservati entrambi. Timidi, li definiva Serena, che, memore degli studi classici, diceva a Claudio che timido ricorda di più il timore e la paura e che lui le dava l’impressione di aver paura nel rapporto con gli altri. Per cui se Claudio era timido, Valentina era timida lei pure per conseguenza. Quando al mattino Serena fu svegliata presto dal sole che alle 5,30 era già alto e li vide abbracciati al timone, con Valentina che si era addormentata con la testa sul petto di Claudio, dentro di sé fu felice. In effetti, non aveva mai immaginato che potesse succedere, non con Claudio. Di Valentina sapeva ancora poco. Era amica di amici di suo marito, arrivata nel gruppo per quelle vie molto traverse che per lei, assidua praticante della sua comunità parrocchiale, era lecito chiedersi se non siano frutto di un qualche disegno superiore. Con Claudio ne aveva parlato, ma con Valentina, che ostentava nel colloquiare un certo materialismo di fondo che a lei suonava talvolta anche acido, non aveva mai osato. Eppure quella persona che era arrivata in farmacia con la ricetta era diversa da quella solita, che conosceva abbastanza sicura di sé, benché decisamente poco espansiva. Quando si arrivava al punto di trarre conseguenze dalle medicine che si usano, non è più generica amicizia quella che lega due persone: è confidenza.

Mentre Claudio, che si era presentato in farmacia sudato dopo la corsa, tornava a casa, Serena stava partecipando alla riunione, ma non riusciva ad ascoltare il direttore che parlava seduto dalla sua sedia alle altre persone convocate. Pensava a quella frase e a quella richiesta di aiuto a cui aveva troppo frettolosamente risposto. “Scusatemi,” disse alzandosi con la borsa in mano. Nessuno la guardò. Tutti erano attenti alle parole del direttore. Serena si ritenne scusata e uscì dalla saletta riunioni. Aprì la porta dell’uscita di sicurezza e, sedutasi in cima alla scala antincendio dell’edificio che ospitava il magazzino farmaci, accese il cellulare. Mentre suonava a vuoto in quella casa di lui rimasta essa stessa vuota, ai suoi piedi pulsava febbrile l’attività dei magazzinieri sui muletti e degli addetti al trasporto con le liste delle consegne. Richiami ad alta voce partivano dai furgoni, altri rispondevano dall’interno dell’edificio, ilarità, allegria, risate persino sguaiate di una routine quotidiana che aveva come proprio referente materiale i farmaci, le medicine, strumenti per lenire il dolore di altre persone, che davano da mangiare a lei, ma avevano rovinato la vita a Claudio. Serena riprovò per una seconda e poi per una terza volta. Ma non ebbe risposta. Allora chiamò Valentina. Sapeva che il suo cellulare in casa aveva poco campo e la chiamò direttamente sul fisso. Rispose una voce di bambina: “Mamma! Telefono!” Un attimo di silenzio, poi arrivò il “Pronto! Chi parla?” “Ciao. Sono Serena. Cosa sta succedendo? Parla!” ”Adesso non posso. Ci sono le bambine. Scusa.” “Scusami tu allora. A presto. Ciao.” “Ciao, Serena.” Era stata diretta. Lei era così. Riprovò per l’ultima volta con Claudio, ma non ebbe risposta. Tornò in riunione. La collega accanto alla quale si era seduta, notata la sua espressione preoccupata, le chiese se fosse tutto a posto. Serena eluse la risposta con uno di quei cenni del capo passibili di una vasta gamma di interpretazioni. Gli altri prendevano appunti, lei scarabocchiava figurine senza senso sul suo tablet. “Scusami, Serena. Ero sotto la doccia e non ho sentito le tue chiamate.” Parole rassicuranti, finalmente, quelle che arrivarono e che Serena poté leggere nei dieci minuti di pausa che il direttore concesse ai convocati.

L’acqua della doccia scendeva su un corpo già abbastanza lavato. Claudio non l’avrebbe mai interrotta se avesse avuto la convinzione che sarebbe potuta entrare dentro e lavare via tutta l’immondizia depositata e mai gettata in anni di vita balorda. Lasciava scendere quell’acqua mentre il calcagno del piede destro toccava terra finalmente: a diciassette anni il miracolo della Santa Uguaglianza si è verificato. Nella doccia di casa sua per la prima volta aveva avuto quell’incredibile ebbrezza. Non ricordava che fosse successo in altre occasioni. Tutto lì? Anni di interventi, rinunce a stare con gli altri, isolamento e dedizione allo studio quasi monastica, eremitica, si può dire, perché un calcagno tocchi terra? A diciassette anni capiva bene il valore di tutto quanto gli era stato tolto e di cui quella gamba era solo il dettaglio più macroscopico nel quadro generale; non si vedevano gli altri danni che il farmaco maledetto aveva recato al suo corpo e che erano subdoli, perché, non vedendosi, ingannavano le persone e costringevano a spiegazioni spesso imbarazzanti, non solo per lui. A lui del proprio imbarazzo era sempre interessato ben poco; gli interessava assai di più l’imbarazzo di chi era imbarazzato dal suo imbarazzo. Fu lì sotto la doccia che per la prima volta prese forma la filosofia del ‘devo fargliela pagare’. Era una reazione puramente istintiva, perché non esisteva un nemico che dovesse essere combattuto, non aveva carne ed ossa; avrebbe dovuto combattere contro un’intera società che tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta era ubriaca di boom economico e faceva figli come conigli, le mamme erano sempre incinte, gli ospedali, che ora non sanno dove mettere gli anziani, traboccavano di neonati, e un farmaco che non faceva sentire le nausee alle puerpere avrebbe avuto un sicuro successo. E fu dato a larghe mani come caramelle a un bambino. Decine di migliaia di vittime sancirono quel successo e a lui era andata bene, tutto sommato. Eppure il riscatto divenne rivalsa e il ragazzo si apriva alla vita, per la prima volta, in modo sano con il corpo, ma in un modo ormai inevitabilmente insano con l’anima. Riprese la bici, che era la sua passione, e iniziò a registrare anno dopo anno migliaia e migliaia di chilometri, maciullando per ore, ma chissenefrega!, la sala macchine sulla sella. La rivalsa era con se stesso prima di tutto. Non sentiva il bisogno di riscattare alcunché. Tutto avvenne però in un modo che era sostanzialmente goffo, perché non aveva mai avuto esperienza di vita sociale: nessuno gli aveva mai insegnato la non facile arte del dosaggio delle emozioni nei colloqui, nel conversare, nello stare insieme.

Eri davvero ubriaco di uguaglianza in modo insano.” Pierpaolo, che gli aveva portato la spesa a casa poiché lui era immobilizzato dal tutore alla gamba, parlava seduto sulla poltrona della sua sala. “Ricordo come tutti fummo sbalorditi dalla tua reazione, Claudio. Nessuno capì. Ti buttasti a capofitto nella vita. O meglio, ti buttasti a capofitto in due cose: nello studio e nello sport.” “No. Non mi buttai a capofitto. Volli esprimere quel massimo che prima non avevo potuto dare. A scuola andavo a fasi alterne; quando ero presente, studiavo tanto e ottenevo voti altissimi; ma le assenze erano tante. Tante quante i triboli, che mi erano stati assegnati per sentenza dal Santo tribunale dell’Uguaglianza. Nello sport ovviamente facevo quello che potevo.” Claudio aveva ironizzato declamando. “Eri come un pulcino che non riusciva ad aprire il guscio e, quando ci è riuscito, lo ha fatto con il botto.” “Più o meno.” Pierpaolo aveva deciso di fargli visita, perché sapeva che quell’incidente era stato anche un motivo di abbattimento per l’amico, che si era seduto su una seconda poltrona vicino a lui, tenendo la gamba immobilizzata nel tutore postoperatorio appoggiata su una sedia. “Ti ho portato un po’ di spesa. Se manca qualcosa, dimmelo subito, che vado a prenderlo.” “Grazie. Non dovevi.” “Perché non avrei dovuto? Ti dirò di più: ho preso anche delle pizze surgelate e adesso ce le facciamo. Ricordi quante ne abbiamo mangiate in montagna quando andavamo a sciare?” Claudio non rispose. Pierpaolo era veramente un grande in quelle cose, anche se incasellava tutto. “Non ci voleva questa caduta, Claudio. Ma come hai fatto a fare tutto da solo?” “Sfortuna. Sono il campione del mondo. Non ero ancora nato che avevo già iniziato gli allenamenti. O no?” Il sarcasmo di Claudio non era mai gradito da Pierpaolo. Serena gli rispondeva e si arrabbiava quando usciva con quelle frasi, ma Pierpaolo taceva. E tacendo, confermava. “Sai, Claudio, che quando mi hanno detto che eri caduto, ho pensato che non doveva essere possibile? La prima cosa che mi è venuta in mente è stata proprio che tutti potevano cadere, ma tu non saresti mai dovuto cadere.”

Era rimasto solo. Quando i suoi compagni di uscita avevano scollinato, non si erano fermati alla fontana fuori del bar del passo, come lui invece era abituato a fare. ‘Li riprenderò in discesa’, aveva pensato, allentando il cinghietto del casco, togliendosi i guantini e sganciando la cremagliera degli scarpini. Aveva sciacquato con meticolosa diligenza la borraccia, come suo solito, e, come suo solito, l’aveva riempita e svuotata due volte. Riti antichi. Così faceva suo babbo e così faceva suo nonno. Lassù, tutto assumeva, per uno di quegli automatismi che lui non pretendeva mai di indagare, il valore del rito antico. Anzi, sorrideva in modo quasi caustico di chi saliva in cattedra e tentava di fornire delle spiegazioni a quei comportamenti. ‘Strutture di lunga durata’ le avrebbero chiamate gli storici della scuola francese che tanto lo avevano annoiato ai tempi dell’università, quando studiare era solo un modo per esprimere la rivalsa contro tutti e nessuno, in base al principio del ‘dovergliela far pagare’. E in effetti, lui, che di antropologia ammetteva di capire tanto quanto capiva di fisica nucleare, si divertiva a leggere testi altrui, apprendeva, spesso rielaborava. Ma non pretendeva di capire. ‘Il bello di un racconto è quando non dà chiavi di lettura, ma lascia a chi legge di essere capito’, aveva sentito dire durante la presentazione di un libro di un suo ex alunno. Non amava le presentazioni dei libri, cui partecipavano persone che non li avevano mai letti; preferiva leggere le recensioni di chi li aveva veramente letti, o, meglio ancora, parlare di persona con chi li aveva letti. Eppure, quel giorno non poté esimersi. E da allora decise di non dare più spiegazioni di atteggiamenti che fanno parte di una tradizione, di un tramandare di padre in figlio che non ha mai avuto un perché. Se le cause non gli interessavano, nutriva invece un forte interesse per i fini. Tutti quei gesti servivano a star bene con se stessi, a sentirsi in una gabbia di sicurezza, a trovare una certezza entro un confine ben delimitato. E lui di paletti e confini si intendeva molto bene; la sua vita era stata segnata sin dall’inizio dalla teoria dei paletti e dei confini, quando aveva troppo presto dovuto decidere cosa avrebbe e cosa non avrebbe potuto fare per colpa di quel farmaco che lo aveva indelebilmente marchiato alla nascita. Con la borraccia piena, lavata, spolverata e rifatta come nuova, era ripartito per la discesa, senza sapere di essere destinato a veder crollare in una frazione di secondo quel muro di certezze costruito dalla teoria dei paletti e dei confini. Quella bici era un simbolo di riscatto, non di rivalsa. In altri campi si era esercitato e manifestato l’acido rancore della rivalsa, non sulla bici. Lì tutto aveva il sapore della vittoria, soprattutto al termine di una salita e nella sosta sul punto di scollinamento. Tutto era amico lassù. Mai avrebbe immaginato di essere colpito a tradimento proprio su quel terreno, l’unico in cui si era sempre sentito al sicuro. A quell’entità indefinibile che tanti chiamano destino fu sufficiente il primo tornante; non ebbe bisogno, lui, il male, la bestia, il fato di pensarci troppo su come rivelare castello di carte quello che era stato fino ad allora guardato e difeso come un fortino di robuste pietre squadrate. Alla bestia bastò una curva, un gioco beffardo di luci che lasciò in ombra una macchia d’olio appena lasciata da un trattore. Claudio sul lettino dell’ospedale ricordava solo di aver scavalcato il confine della strada e disse al medico una frase che più volte avrebbe ripetuto da allora, ma nessuno avrebbe capito: “Non ho saputo mettere i paletti questa volta. Non mi era mai capitato.” Pierpaolo lo vedeva decisamente abbattuto in quella condizione di bisogno di aiuto altrui. Sapeva quanto avesse sempre odiato ricorrere agli altri. Aveva lottato per questo. Non voleva sussidi di invalidità, non aveva nemmeno voluto sostenere quelle visite medico-legali che Pierpaolo tante volte gli aveva consigliato. Aveva una fiducia incrollabile nella sua teoria dei confini e dei paletti: sapeva quali erano i confini e sapeva dove e come potevano essere spostati i paletti. Non più adesso. Quella macchia d’olio ha messo in un batter di ciglio in crisi un sistema costruito in una vita intera di sofferenze e di dolori e lui, medico da una vita, non si capacitava al pensiero di come una persona avesse potuto affrontare, tollerare e superare tali tormenti. “Quando venisti a trovarmi in ospedale mi dicesti una cosa che non dimenticherò mai: ‘ho tanti amici che vanno in bici e per tanti ho temuto, ma mai per te.’ Eri sconvolto quel giorno.” Pierpaolo non rispose subito. Dosò le parole della risposta: “Era impegnativo affrontare la teoria dei paletti. Sembrava che …” non riuscì a finire la frase “… che fossi stato un idiota io a formularla e a crederci,” concluse Claudio. “No. Non volevo dire questo.” “Non lo vuoi dire, ma lo hai pensato. Sai, ti voglio dire una cosa, amico mio: sei tu quello che ha ragione. Tu hai sempre stramaledettamente ragione.” Fu a quel punto che Pierpaolo capì che nulla sarebbe stato più come prima.

Uscì dalla doccia e si mise solo un paio di jeans, perché aveva ancora torace e schiena bagnati. Amava sentirsi ancora un po’ di acqua sul corpo. Lo faceva sentire più pulito. Si stava sedendo davanti al suo computer, quando suonò il campanello. Andò a rispondere al citofono. Non rispose nessuno. Andò allo spioncino della porta e vide una persona che la scarsa illuminazione del pianerottolo per via di una lampadina fulminata, più volte segnalata all’amministratore del condominio, non consentiva di distinguere. “Chi è?” chiese ad alta voce. “Serena.” Aprì. Serena sorrise e gli mise le braccia al collo. Lo baciò affettuosamente. Lui mise le sue braccia tremanti sui fianchi di lei, che lo continuava ad abbracciare, accarezzandogli il petto nudo ancora bagnato. Non disse nulla. La porta si richiuse alle loro spalle. Aveva parlato con Valentina che le aveva detto che non doveva preoccuparsi di lei. ‘Sto bene. Ci sono persone che stanno peggio di me e hanno più bisogno di quanto ne abbia io,” le aveva detto al telefono, con un tono tra il distratto e lo scontroso, non pensando a nessuno in particolare; generica allusione. Lì non c’erano più risposte da cercare, pensò Serena. Restava allora solo quella frase che lui aveva pronunciato al bancone. A quella non aveva dato ancora risposta. Doveva darla. Si alzò sulle punte dei piedi e sfiorò le labbra di lui con le sue. Le mani di lui smisero di tremare sui fianchi di lei e la strinsero con forza.

Quando Claudio si rialzò dal letto, Serena stava uscendo dal bagno.

Credo di essere stato un idiota.”

Perché dici questo?”

La teoria dei paletti …”

Cosa?”

La teoria dei paletti è una grande boiata.”

La favola della volpe e della panchina

La mia scuola elementare è piccola. Si trova in un paese di montagna, che è piccolo anch’esso. Sono stato mandato a dirigerla tanti anni fa. Ho avuto tante opportunità di avvicinarmi alla città dove abito, che invece è grande. Ma sono rimasto quassù, in questo paese piccolo, che invece alla distanza si è rivelato grande, perché ha qualcosa di speciale rispetto alle città. Queste, crescendo, diventano informi e piano piano perdono quello di speciale che avevano e apparendo sempre più omogenee, alla fine quasi tutte uguali nelle loro cinture periferiche. I paesi no. Soprattutto in montagna, crescendo sembrano invece andare nella direzione opposta; anche perché crescono lentamente; e per questo, espandendosi lungo questa o quella strada, sembrano accentuare le proprie tradizionali peculiarità che, frequentando le persone, riconosci anche nel modo di salutarti, di comunicarti un sentimento. Ogni nuova casa, ogni nuovo cantiere, ogni nuova strada sono occasioni per una festa. Ieri è arrivata la gru per costruire un piccolo albergo all’estremità orientale del paese: era accompagnata dalla banda musicale in costume. Per me un tempo questo era folclore, perché il punto di vista non era diverso da quello del turista o del frequentatore occasionale. Poi ho riflettuto sul fatto che in questo paese avrei avuto un ruolo importante e che non potevo vivere da estraneo. Non è stato facile. Per chi di noi in questo paese è arrivato dall’esterno comprendere il carattere particolare delle persone che lo abitano, un carattere grande in un paese piccolo, non è facile. Richiede sforzi. Esige impegno. Soprattutto, impone tanti passi indietro. Ebbene, impegnandosi cosa impari? Che ogni paese ha la sua storia. E in quelle storia c’è quasi sempre uno iato, un evento tragico che ha spezzato in due la storia della comunità. Anche qui c’è stato. E da allora le sue persone sono per me tutte in un modo o nell’altro anime speciali, perché direttamente o indirettamente collegate a quella tragedia che le ha segnate. Queste persone hanno delle storie. Storie diverse, vissute da individui l’uno diverso dall’altro, che metterebbero a dura prova gli schematismi delle scienze umane. E pensare che quelle teorie costituiscono la base della formazione di tante persone che insegnano in questa scuola che dirigo adesso; non sarà forse un caso che vengano quasi tutte, come me, da fuori? Alcuni, le loro storie, te le raccontano senza pudicizia alcuna. Altri le vivono in modo diverso, più riservato e spesso addirittura quasi reticente. C’è anche chi parla dandoti quasi l’impressione di metterti alla prova, per capire se meriti di conoscere il modo in cui ha vissuto quei tragici eventi. Non devi parlare. Devi metterti in ascolto. Questo loro ti chiedono. Sono queste storie che con il passare degli anni mi hanno fatto amare le persone e hanno creato un certo tipo di legame che ancora, pur dopo tanto tempo, non trovo le parole precise per definire. Tale è la frattura che quella tragedia ha scavato tra loro e gli altri, cioè noi, che veniamo da fuori; per quanti sforzi possiamo produrre, mai saremo parte di quella singolare condivisione collettiva del trauma. Tra noi e loro una distanza rimarrà inevitabilmente, anche perché non hanno mai elaborato in tutto questo lasso di tempo una modalità comune di vivere e condividere un dolore di tale entità, fatto di perdite, di lacerazioni di famiglie, di distruzione di oggetti e anche di affezioni dell’anima. A me piace parlare con loro. Soprattutto con quelli che – lo capisci con gli anni, conoscendoli – hanno avuto bisogno di tempi più lunghi per metabolizzare un dramma di quelle dimensioni. Chi parla di più trova il modo di far scaturire la rabbia che allora invase la comunità; chi invece è, per diversità di carattere, meno loquace, necessita di aiuto, ha bisogno di essere rispettato nel suo silenzio e, se possibile, ascoltato, qualora decida, prima o poi, di esprimere qualcosa del suo dolore. Da Sergio, marito di Chiara, un’insegnante della mia scuola, una delle poche che è originaria del paese, impiegato in una delle tre banche del paese, un giorno, proprio qui nel mio ufficio, appresi, per caso forse quella che, tra tutte le storie che dalla tragedia traevano origine, è ancora per me la favola più bella. Ricordo che pioveva a dirotto quel giorno. Eravamo alla fine delle lezioni. Era sabato. La moglie, in dolce attesa, era venuta a scuola senza ombrello e lui, che era a casa dal lavoro, poteva riportarla a casa, lassù in fondo al paese, su in quella villetta al limitare del bosco che sarà lo spazio della nostra favola, quasi alla fine della forestale rimasta incompiuta, che doveva portare alla stazione a monte degli impianti da sci. Lui non apparteneva alla prima delle due categorie, ma alla seconda, quella dei più silenziosi. E il fatto che si sia aperto qui con me, nell’attesa del suono della campanella e dell’uscita di Chiara, fu davvero singolare. Era noto in paese a tutti per la sua estrema riservatezza ed era quello che forse, tra tutti, sembrava che avesse avuto una dose di dolore maggiore da elaborare dentro la sua anima. Lo dimostrava il fatto che  avesse deciso di parlare con me, il dirigente scolastico della scuola di sua moglie Chiara, uno di fuori, estraneo alla piccola comunità e ai suoi antichi riti, e di farlo soprattutto in modo così sereno. Occorse tempo perché capissi la motivazione di quell’inattesa confidenza. Fu necessario parlare con altri del paese, raccogliere informazioni, mettere a posto alcune tessere del puzzle che le parole di Sergio avevano lasciato fuori posto. Fu necessario riflettere a lungo, perché, come Sergio testualmente mi disse quel giorno, mentre la pioggia batteva sui vetri dell’ufficio, “quando si ha a che fare con i sentimenti delle persone, si deve sempre essere molto cauti: non si deve mai giocare con le anime delle persone.” Ricordo che Sergio andò alla finestra che si affaccia sulla piazza centrale del paese e consente di vedere il caffè Prati, luogo di incontro per tanti di noi, la banca dove Sergio lavora, la chiesa con il vicino camposanto che contiene tutte le vittime di quella tragedia e il monumento pubblico, eretto al centro della piazza, in loro onore. ” … e chi lo ha fatto, spero se ne sia pentito”, concluse con l’indice puntato proprio al monumento, un gesto che solo alla fine del racconto capirete, come ho capito io stesso. Alla fine ne nacque una storia e decisi di scriverla. Penso di non fare torto a nessuno, soprattutto a suoi due protagonisti, se per voi la chiamo favola.  Non saprei quale ne sia l’inizio vero e proprio, se ci sia o no un “C’era una volta …”; ancor meno sono in grado di dire quale ne possa essere la conclusione. Posso solo dire che tanti dilemmi, tante domande rimaste senza risposta, tante reticenze spesso male intese si chiarirono in una notte autunnale di pioggia, lassù in quella casetta che si intravvede al limitare del bosco, dove quell’anima speciale decise di conservare a lungo, forse troppo a lungo, quei segreti che in pochi minuti, invece, mi aveva squadernato nel mio ufficio.

I rumori notturni lo mettevano sempre in agitazione. Era una notte di vento che preannunciava burrasca. Davvero tanti e diversi tra loro erano quei rumori. Aveva sempre avuto paura del buio, da quel giorno, o meglio, da quella sera. Eppure, l’aver deciso di abitare in quella casetta isolata fuori dal paese, da lui stesso scelta e pazientemente ristrutturata, anche insieme a Chiara, faceva parte di quelle che gli altri chiamavano le contraddizioni della sua vita. Lui semplicemente le accettava, senza pretendere di dar loro un nome. Aveva paura del buio, ma lo cercava. Si lamentava della solitudine: non solo ci stava bene, ma l’aveva scelta come sua fissa dimora, prima di condividerla con Chiara. Era reso inquieto dalla notte, ma nulla aveva mai esercitato in lui fascino maggiore di una notte come quella, piena di vento, di rumori, di una vita che si sente dappertutto, ma non si lascia vedere, che per altri sarebbe inquietante, ma non per lui. Si era addormentato solo con i boxer. Il fuoco della stufa a legna aveva reso davvero tanto calda la sua piccola casa ed era veramente alta la temperatura, quando si era addormentato con la tv, come spesso capitava, accesa. Ma l’abbassarsi della temperatura esterna, l’alzarsi di quel vento forte in piena notte e lo spegnersi lento della stufa avevano piano piano, con il passare delle ore, raffreddato l’ambiente. Trovò solo una felpa leggera a portata di mano. Attento che Chiara non si svegliasse,  scalzo andò alla finestra di cui erano rimasti aperti gli scuroni esterni. Il cielo era terso; le stelle si vedevano bene. Le fronde erano scosse con violenza dal vento forte, che cercava ogni pertugio per inserirsi. Chiara amava la storia delle parole e diceva che i bambini a cui insegnava ne erano spesso affiascinati: “Pertundo. Dal suo participio pertusus, colpito con forza fino a creare un varco, viene molto probabilmente la parola italiana pertugio”. Da uno di quei pertugi che la sua anima, accortamente blindata e inchiavardata, aveva distrattamente dimenticato, Chiara era entrata nella sua vita. Da quei pertugi stava adesso entrando di tutto. Dai pertugi dell’assito di legno sulla pianta dei piedi nudi arrivava aria. Dai pertugi delle pareti di legno, intorno agli infissi, che non aveva completamente chiuso, arrivavano refoli fino al suo corpo; dai pertugi delle finestre a ribalta, rimaste parzialmente aperte per aerare i bagni, arrivavano carezze d’aria al suo viso. Si sedette su una poltrona in ascolto di quel vento. Era l’una di notte. Difficilmente con quel vento, con quei rumori che invadevano e avvolgevano la casa, avrebbe ripreso sonno. Accanto alla poltrona c’erano ancora i due bicchieri vuoti e la bottiglia di rosso, rimasta a metà. Ne versò due dita nel bicchiere che aveva usato lui, ma con gli occhi su quello che aveva ancora le tracce del rossetto di lei. Il calore del vino corposo lo pervase velocemente. Chiuse gli occhi. Non appoggiò il bicchiere. Rimase per un attimo in ascolto. Poi decise di alzarsi. Con il bicchiere in mano andò alla porta d’ingresso. La aprì. Uscì nella veranda rialzata e si appoggiò alla balaustra. Il movimento delle fronde lasciava vedere ogni tanto qualche luce delle prime case del paese. Folate calde si alternavano ad altre fresche. Folate più violente si alternavano ad altre più carezzevoli. A quel vento aveva tante volte invano chiesto di ripulire, saccheggiare, scozzonare tutta la sua vita. Alle forze della natura aveva tante volte chiesto di fare quello che le sue non avevano più la possibilità, forse neanche la volontà, di portare a effetto: sbarbarire l’anima. Ma la natura esitava. Sferzava con quel vento, ma, nel momento stesso in cui lo fustigava, lo ammansiva; nel momento stesso in cui lo flagellava, lo scoraggiava ancora di più. Eppure amarlo, amare quel vento, faceva parte di quel mondo di dolci aporie, che gli altri ostinatamente chiamavano contraddizioni. Plasmava con il dolore forme di amore: le ombre disegnate delle fronde agitate contro la frangia rocciosa, a cui era appoggiata la casa, prendevano vita. Bevve un altro sorso di rosso e anche il suo sangue riprese vita. Scese dal loggiato del piano rialzato da cui si accedeva alla casetta e poggiò i piedi nudi sul prato; allora, solo in quell’attimo fuggevole, tutto riprese vita intorno a lui, si animò, assunse forme note e amiche. Bevve un ultimo sorso. Raggiunse la panchina di legno che insieme a Chiara aveva costruito un giorno con dei residui trovati nella segheria di suo zio: due grossi ceppi tondi come base, a cui era inchiodato un mezzo tronco appena scorticato, levigato e verniciato; ai due estremi due fioriere di gerani. Non c’era schienale, non c’erano braccioli. Non era fatta per sostenere un corpo stanco, sfibrato, snervato. Il piano che fungeva da seduta traballava. Ma era bella, perché nella sua dozzinale forma di manufatto abbozzato, esprimeva in quel momento la risposta alla domanda che lui esattamente le aveva posto, sedendocisi. Una domanda ossessiva, angosciosa, esacerbante. Una domanda senza risposta da anni. Un abbozzo come quella panchina: lo scartafaccio che non aveva ancora preso forma. Su quella panchina si era seduto sempre e solo lui; insieme non si erano mai seduti, benché insieme l’avessero voluta, costruita e messa lì, nell’unico lembo del prato da cui si vedevano i primi spioventi del paese. Era un cantuccio che per lui era bello proprio per quello, perché appartato, perché riservato, perché ricco della sua incompiutezza. Per lei era la panchina dei fiori. Lei aveva preso quelle fioriere. Lei aveva scelto i gerani. Lei, nondimeno, non si era mai seduta su quella panchina. Perché? Grovigli di memorie chiedevano di essere districati.

Era una pungente giornata di fine novembre. Era sabato. Non erano ancora sposati. Alle 12 Chiara uscì da scuola e lo chiamò. Era eccezionalmente in ufficio a sistemare alcune pratiche, che una collega non aveva terminato il giorno prima alla chiusura, perché non stava bene. Vedendola pallida in viso, le aveva detto di andare a casa prima della chiusura, ché ci avrebbe pensato lui con calma nel fine settimana. “Andiamo a bere qualcosa da Prati?” gli aveva chiesto Chiara. Lui lasciò il lavoro quasi finito e la raggiunse al Prati, il caffè in piazza, alla base degli impianti, che da lì a qualche giorno, con l’inizio della stagione invernale, avrebbe totalmente cambiato fisionomia. Chiara era particolarmente felice in quei giorni. Lui la rendeva sicuramente felice, facendo la sua parte. Non aveva dubbi. Ma c’era qualcos’altro, che non riusciva a capire in Chiara, che contribuiva a questa gioia singolare. Presero due tramezzini e una birra e passarono più di due ore insieme. Chiara era euforica. Lui le aveva più volte chiesto come mai quel giorno fosse così felice. Ma lei aveva sempre glissato e deviato l’argomento. Mentre erano in auto ed erano diretti a casa di lui, a lei venne quella singolare idea della panchina. Si fermarono nella segheria di suo zio, fratello del babbo di lui, dove lei vide i due grossi ceppi tondi, che fece solo tagliare, in modo che fossero della medesima altezza, e il mezzo tronco lungo quasi due metri, che insieme avrebbero sistemato e inchiodato ai due ceppi; questi dovettero essere anche svasati, per realizzare l’incavo, in cui posizionare il tronco orizzontale. Chiara e Sergio lavorarono tutto il pomeriggio: prima scorticarono il mezzo tronco, poi lo levigarono con la pialla, poi lo verniciarono e lo posizionarono sui due ceppi. Alla fine con quattro grossi chiodi lo fissarono. Chiara era euforica dall’entusiasmo. E lui continuava a non capire. Ma aveva deciso di non fare più domande.

Il vento stava rinforzando e qualche nube iniziava a celare la vista delle stelle. Non era un vento freddo. Al contrario. Poggiati i gomiti sulle ginocchia nude, si prese la testa tra le mani e lo sguardo si posò sui suoi piedi nudi e sull’erba, di cui essi avvertivano tutta la soffice morbidezza. Un sentimento di tenerezza salì dentro di lui. Memorabile. Chiuse gli occhi. Il vento aumentava di intensità. Il bicchiere, poggiato sulla panchina, cadde; ma era di quelli di plastica da campeggio. E non si ruppe. Il prato era in leggera pendenza verso la casa. Il bicchiere iniziò a rotolare, dapprima lentamente; poi nella discesa prese velocità e andò a fermarsi, quando da ultimo sbatté contro il primo dei gradini che portavano al loggiato d’ingresso della casetta. Lo seguì in quella corsa, la cui accelerazione era regolare, esattamente come regolare era stata l’accelerazione della relazione con Chiara: un corsa proprio come quella del bicchiere. Nel momento in cui aveva assunto maggiore velocità, al primo ostacolo ebbe un brusco stop. Perché? Si alzò. Andò a raccogliere il bicchiere, tornò in casa, salì sul soppalco, infilò un paio di jeans vecchi, che usava da lavoro. Riempì di nuovo il bicchiere, incurante di un filo d’erba che vi era rimasto dentro. E tornò fuori. Volle conservare quel sentimento di dolcezza e di tenerezza, che la soffice erba gli trasmetteva attraverso le piante dei piedi e rimase scalzo. Il cielo si stava coprendo. Il vento aumentava ancora l’intensità delle sue folate; sbuffava nervoso tra le fronde. Non si diresse subito alla panchina. Vide qualcosa muoversi proprio vicino ad essa. Sapeva già di cosa si trattava, era una presenza consueta: le antiche popolazioni di quei luoghi le invocavano come sagge protettrici e sapienti conoscitrici dei boschi in cui vivevano. Non doveva avere la sua tana lontana. E quella panchina le piaceva. Tante sere l’aveva vista fermarsi lì sotto. Era un dialogo a distanza quello tra lui e quella volpe rossa. In una leggenda che circolava tra i più anziani del posto erano l’incarnazione delle fate dei boschi. Era bello pensarla come Fata, che addita, propone e suggerisce la strada; bella o brutta che essa sia, lei non dice. Rimase lì ai piedi della scaletta, sul ciglio del prato, sull’orlo che disegna il confine tra la dolcezza della vita e la spigolosità di un legno morto, usato per costruire la dimora dei vivi. Era un ciclo che partiva dalla terra e tornava alla terra. Era l’ordine naturale delle cose. E in base a quell’ordine naturale era giusto che lui fosse lì e che la volpe restasse a custodire quell’oggetto così speciale e singolare, fortemente voluto da Chiara, ma il cui significato attendeva ancora una risposta. Si sedette sugli scalini. Gli occhi della volpe, acciambellata sotto la panchina, erano puntati dritti sui suoi. E non poté non pensare a lei, poco fa anima di fuoco di quella casetta, a lei in cui poco prima aveva fatto penetrare un amore profondo come la memoria di quella casa, di quello che da sempre era il guscio protettivo della sua vita. Chiara era l’unico progetto che stava per essere veramente compiuto tra i tanti abbozzati. La amava, la sua casa, perché lì amava stare Chiara. La adorava, quella villetta di legno, perché lì adorava incontrarlo Chiara. La venerava quasi come un feticcio, perché lì, tra rocce, boschi e prati, Chiara, lontana dalla scuola, assumeva quelle forme diverse, naturali, più autentiche e spontanee, che la facevano apparire a lui più simile. Questo comunicava il dialogo tra i suoi occhi e quelli della volpe. Lì si sentiva protetto dalla montagna. Era sul lato sicuro della valle, era lontano dal fiume, era difeso dalla foresta, era protetto da una massiccia e compatta rupe. A questa, come a larici, faggi, abeti e pini, aveva affidato la sua custodia. Se a loro si fossero affidati anche i suoi genitori, adesso forse non sarebbe lì, non avrebbe bisogno di sentirsi forte, proprio perché lontano dalle altre persone. Quella casetta era per lui un simbolo di rinascita dopo la tragedia. La frana si era staccata dall’altra parte della valle; aveva travolto tre case, un capannone e diverse auto che stavano sfortunatamente passando sulla strada in quel momento; soltanto lui della sua famiglia non si trovava per un puro caso del destino in casa sua, ma era dai nonni. Il nonno aveva detto più volte di non costruire lì, che l’autorizzazione del comune era stata data incautamente, che quella montagna si muoveva. Ogni sasso che cadeva per lui era un segno. Gli anziani sanno ascoltare la montagna. Ogni albero che si spostava per lui era un segno; ogni sentiero che in primavera andava ridisegnato, prendendo una forma diversa da quella dell’anno precedente, era un segno. Il babbo, invece, aveva preferito ascoltare il geometra e si fidava di lui, che era suo amico d’infanzia. Ma il geometra non abitava più in quel paese da quando era bambino: non avvertiva più il respiro di quella montagna, che era viva come loro. Al babbo piacque il progetto e lì costruì la sua casa. Non era possibile dimenticare quel terribile boato. Lo sentiva di notte, lo sentiva di giorno, lo sentiva da solo, lo sentiva in compagnia; e l’effetto era sempre quello: ansia, paura, sensazioni di mancanza di respiro, mani sul viso, nel malcelato tentativo di nascondere inevitabili lacrime. Uno sfogo che era un rito della memoria, un omaggio inutile ma inevitabile al sacrificio di tante vite. Sergio aveva quattordici anni, quando rimase l’unico superstite, perché non presente sul posto, di una famiglia di sei persone: babbo, mamma e tre fratelli aveva lasciato sotto quella massa di roccia e fango, che aveva sradicato e trascinato con sé tronchi e arbusti d’ogni genere. Da allora avrebbe dovuto avere paura della montagna. E invece no: Sergio non ne ebbe mai paura. Ebbe paura, piuttosto, dell’uomo che non la sapeva o non la voleva ascoltare e rispettare. Appena poté, coronò il suo sogno di uscire da quel paese maledetto, pieno dei segni di quella tragedia. Il monumento in piazza, le lapidi nelle scuole, in comune, il museo con le fotografie della tragedia … Ma perché l’uomo è così sadico? Perché non capisce che queste tragedie non hanno bisogno di monumenti pubblici, ma devono rimanere nella dimensione della memoria privata? Non sopportava questa autolesionistica mania di celebrare in pubblico una sofferenza che solo in privato per lui si doveva vivere e si poteva comprendere. Non rispondeva d’abitudine alle domande di chi chiedeva, per semplice curiosità, particolari della frana, ma un giorno fece un’eccezione. Uscendo dall’ufficio, vide scendere una coppia di giovani da una macchina parcheggiata proprio sotto quell’odioso monumento pubblico eretto in piazza, opera d’arte commissionata a un grande scultore, inaugurata alla presenza di un ministro della Repubblica e di tutti i politici locali, più o meno vicini alle sorti del paese. La ragazza, che si presentò poi come Asia, lo guardò, lesse la didascalia che ricordava l’occasione in cui fu innalzato e disse rivolta proprio a lui, che passava a piedi davanti alla loro auto, uscendo dalla banca: “Non le sembra una cosa tristissima questo monumento? Ma perché si fanno queste cose? A me sembra anche brutto.” Sergio capì di avere di fronte una persona dotata di intelligenza sufficiente per approfondire la questione. Per lui era come se avesse già capito qualcosa di quella tragedia e li invitò entrambi al Prati, lì in quella stessa piazza. Non entrò in dettagli sulla sua famiglia, ma volle che fosse chiaro questo concetto: “Tu, Asia, hai capito una cosa importante: quanto pericoloso sia giocare con i sentimenti altrui, pensando principalmente a se stessi. Questo monumento, a tutte e tre le famiglie che quel giorno furono devastate, fa male; eppure, a noi cittadini, pur chiedendoci sempre il voto, nessuno ha chiesto mai un parere. Questo paese, tutto intero, è diventato da quel giorno un grande, collettivo monumento alla frana. Ma a loro interessa il monumento pubblico, non la nostra anima ferita: per quello hanno pagato e per quello, che tutti vedono, hanno preso voti. Amo le persone, certe persone, ma non posso più dire da quel giorno di amare il paese. Se fosse rimasta una piccola memoria nel nostro cimitero, in un luogo segreto, appartato, vicino ai nostri cari, frequentato solo da chi ha consapevolezza del dolore di quel giorno, sarei contento e amerei ancora questo paese; ma avere dato in pasto in modo così plateale una tragedia come questa, nella piazza centrale, dove passano tutti i turisti, non è un comportamento da persone degne di questo nome. Del resto con i sentimenti che l’anima conserva gelosa voti non se ne prendono; si prendono da chi si squarcia il petto in piazza, da chi posta frasi a effetto sui social, da chi organizza i minuti di silenzio e le cerimonie con la banda, lo faccia o no con sincera partecipazione.” Il ragazzo ascoltò quelle parole forti, guardò la ragazza, le prese la mano, dopo che il dialogo era sempre stato tra Sergio e lei, per la prima volta aprì bocca e disse: “Immagino che lei ne sappia qualcosa – come dire? – da vicino.” Sergio non ebbe il coraggio di dire, il cuore gli fece un salto fino alla gola. Non uscì dalle sue labbra altro se non un laconico “Sì.” Li salutò, offrì loro la consumazione e uscì dal locale. Lui era uno dei pochi che tutti i giorni, uscendo dal lavoro, passando accanto alla chiesa, possibilmente senza dare nell’occhio, apriva il cancello metallico dell’adiacente piccolo cimitero, attento che cigolasse il meno possibile sui cardini arrugginiti, entrava e pregava. Non sapeva chi dovesse pregare dopo quella sciagura che lo aveva distaccato un po’ da tutto, anche dalla parrocchia, dalla chiesa e da chi la frequentava. Ma sentiva che qualcuno da pregare ci doveva essere da qualche parte. Il parroco, se lo vedeva, scendeva, si metteva al suo fianco, gli metteva una mano sulla spalla. Non diceva una parola a Sergio, perché anche la sua era una di quelle anime ferite e comprendeva la necessita di condividere il dolore in silenzio. Anche lui disprezzava quel monumento sguaiato proprio davanti alla sua chiesa. Sergio non comprava fiori. Non dava neanche questa soddisfazione a chi – lo diceva sempre, tanto spesso che era quasi un’ossessione – faceva del lucro sui sentimenti altrui. Usava le rose o altri fiori di casa sua, secondo la stagione. Chiara adorava i fiori e con vasi di ogni forma e fioriere di ogni genere e materiale aveva dato un tocco molto personale alla casetta di legno. Ogni mattina Sergio se li portava in ufficio e ogni sera li depositava sulla tomba. Un rito che continuava ormai da trent’anni. Il vento ora parlava tra gli alberi. Era la voce di Silvano per gli antichi. Andava ascoltata. Perché lì, nella montagna, nei boschi e nelle tante forme di vita che li animavano era la risposta a tutto; nella terra, che i suoi piedi nudi interrogavano, era la ragione della frattura che aveva spezzato la sua vita, devastato la sua anima. La volpe rossa si alzò e con movimento lento si spostò altrove. Ma prima di andarsene, per nulla intimorita dalla sua presenza per lei ormai naturale, restò per un attimo con i suoi occhi puntati su di lui. Gli aveva detto qualcosa di sfuggita? Scomparve. Sergio bevve un altro sorso di rosso. Alzò gli occhi e vide una stella accendersi e spegnersi a intermittenza al passaggio delle nubi, ancora rade. Per un attimo la volpe riapparve nel punto in cui finiva il prato e iniziava la forestale che scendeva in paese. Ebbe come l’impressione che la sua Fata lo invitasse. Si alzò. Andò fino all’inizio della strada. Eccola. La volpe stava scendendo proprio lungo la stessa sterrata. Ne percorse una decina di metri, poi bruscamente voltò a destra e con un balzo, uscita dal cono di luce dell’unico fioco lampioncino, s’immerse nel bosco. La Fata aveva detto abbastanza. Che il destino fosse segnato?

Non puoi pensare – aveva detto Chiara poco prima quando lui era uscito da lei – che condividere la vita nella memoria del passato sia un’esperienza che possa apprezzare oltre un certo ragionevole limite chi quell’esperienza conosce soltanto per sentito dire, da te come da altri; oppure la legge sui libri, anche se la rispetta profondamente.” Chiara parlava da insegnante con periodi lunghi, ma aveva parlato da amante, stringendo forte le sue mani tra le proprie. Era un modo per dirgli ‘Quello che ti dico farà male, ma devo dirtelo, per il tuo bene.’ Sergio ripensava a quelle parole così forti, rivolte da Chiara a lui che di quella tragedia aveva eretto il monumento nella sua anima, un monumento ben più importante di quello in piazza. In quel sacrario, costituito di memorie che avevano come interrotto per lui il procedere del tempo, non potevano entrare altri. E quando la mente si lasciava prendere dal vortice doloroso di quel flusso di memorie, il dolore diventava per lui esperienza quasi piacevole, placandosi in una dimensione lontana dalla vita vera. Da quella realtà Chiara ormai si sentiva fondamentalmente estranea. Aveva fatto tanti sforzi per cercare di capire come entrare in quella dimensione. Ma alla fine aveva ritenuto di dover prendere una decisione dolorosa. Quando, terminata la cena, sul letto, lì accanto a lei, lo aveva visto per l’ennesima volta ansimare e mettersi le mani sul volto, drizzandosi a sedere all’improvviso, aveva creduto di aver compreso tutto, si era rivestita ed era uscita, senza dire una parola, quasi innervosita e indispettita. Sergio, da come si era comportata, aveva buone ragioni per temere che non sarebbe più tornata. E invece così non fu. Chiara tornò. Lo abbraccio e gli chiese scusa. Il vento aveva fatto sbattere violentemente uno scurone non fissato bene alla parete della casetta. Sergio lo fermò.

Il dolore è una cosa che ti ha segnato in modo indelebile – aveva detto nel corso di quella serata Chiara, mentre cenavano giù nella sala riscaldata dal camino – ma non puoi pretendere che un sentimento individuale e tutto interiore come questo diventi una forma di esperienza totalizzante. Nella tua anima è giusto che viva la memoria del passato. Quello che non è giusto è che la tua anima sia rimasta abbarbicata a quella memoria e che il dolore che evoca sia l’unica cosa che dà un significato ai gesti della tua vita.” Sergio non aveva saputo dare risposta a quelle parole, sempre forbite e ben costruite, come in altre occasioni invece era capitato. Chiara parlava, lui poteva solo patire. Chiara rimaneva indispettita da quel silenzio, lui s’innervosiva per non trovare parole adeguate alla grandezza del sentimento che avrebbe dovuto esprimere. Aveva pensato anche al fatto che quelle stesse parole erano state pronunciate, in forma non molto dissimile, dal suo direttore, il 13 maggio precedente, anniversario della tragedia, quando tutto l’ufficio era sceso per partecipare al breve momento di raccoglimento in piazza, insieme a tante altre persone del paese, ma lui non era voluto andare con gli altri ed era rimasto in ufficio. Lo scurone non poteva più sbattere. Aveva fatto male alla casa, aveva fatto male all’unico nido che lo proteggeva. Ora quel legno era innocuo. Non lo era però quello della panchina, che esercitava sempre un singolare fascino.

Il fervore che manifestò Chiara quel giorno in cui la panchina prese vita lo aveva colpito. Era appassionata, tra le altre cose, di medicina tradizionale cinese e, mentre lavorava alla realizzazione della panchina trattando il legno, parlava, parlava, parlava. Poi, interrompendo l’attività, fece un gesto particolare: gli disse di rialzarsi, gli tolse la polo che indossava, lo lasciò a torso nudo e disse una cosa che lo riguardava, passando e ripassando le mani sul suo torace: “La persona che incarna l’elemento ligneo, uno dei cinque elementi fondamentali, deve essere magra e armoniosamente proporzionati devono essere il suo portamento e la sua muscolatura, deve avere arti e addome slanciati e ampio torace, ma anch’esso proporzionato con l’insieme del corpo”. Poi gli prese le mani e continuò dicendo: “Deve avere mani allungate e magre con dita lunghe dalle articolazioni ben marcate.” Poi tornò sull’addome: “Può esserci un po’ di adipe, ma senza esagerare. Non è il tuo caso. Direi che tu potresti incarnare fisicamente il tipo ideale della persona lignea.” E lui alla fine, rimettendosi la polo, le chiese: “Ma avrà qualche difetto questa persona?” Chiara ci pensò un po’. Poi disse: “Maledettamente cocciuta.” Non parlò più, fino a quando non ebbero finito di lavorare insieme alla costruzione della panchina. Alla fine Chiara le girò attorno a lungo e poi, dopo aver pensato, disse: “Eppure, c’è qualcosa che non mi convince. Non riesco a capire che cosa, ma c’è qualcosa che mi lascia un po’ perplessa.” Sergio la ricordava in tutta la sua prorompente bellezza quel giorno: indossava una canottiera bianca e un paio di jeans; calzava un paio di sandali, di cui si era liberata lì sul prato e aveva i lunghi capelli biondi raccolti in una coda di cavallo, che si agitava in modo direttamente proporzionale all’euforia con cui lavorava. Voci di animali notturni iniziavano a increspare di suoni le tenebre sempre più fitte e tormentate; suoni che mai Sergio aveva temuto, come ben poteva testimoniare il gufo che portava al collo, regalo di Chiara: infatti, tra quei suoni anche l’inconfondibile e sordo verso del gufo non poteva mancare. Lo portò il vento. Lo fece sembrare vicino. Era un verso fatto di richiami brevi ma acuti, nervosi: qualcosa non andava come sarebbe dovuto per il gufo, che mandava segnali da laggiù, in mezzo al bosco, tra i larici e i pini, tra gli abeti e i faggi. Voleva avvertire. Il cielo era ormai del tutto oscurato. Delle stelle più nessuna traccia in cielo. Il grande faggio, armoniosamente cresciuto vicino alla casetta di legno, resisteva più degli abeti e dei pini, le cui cime ondeggiavano con una smania nervosa e un’irrequieta agitazione. Un altro grande albero, il più vicino alla strada, un giovane larice, lasciò cadere una pigna, che arrivò vicina a lui. Un bagliore di luce lo illuminò. Gli antichi ritenevano quell’albero lo strumento attraverso cui Sole e Luna comunicavano con Terra: su di esso passavano bagliori e misteriosi animali e uccelli argentati e dorati. Un albero speciale. Il tecnico del comune lo voleva abbattere, perché pericoloso per il passaggio dei veicoli più alti sulla forestale. Sergio aveva lottato per quel larice, che costringeva in effetti la strada a una strettoia. Erano arrivati a un compromesso: di mezzi ne passavano pochi per quella forestale. Era stata un semplice sentiero per tanti anni, che fu allargato quando vennero costruiti gli impianti che dal paese portavano alle piste; poi quasi mai usata, anche perché il lavoro non fu completato per mancanza di fondi. Qualche chilometro più avanti, dove la sterrata terminava, c’era un vecchio capanno che era stato usato dalla società degli impianti come deposito attrezzi. Lo era ancora, ma a giudicare dai pochi mezzi che Sergio aveva visto passare in quegli anni, era arrivato alla conclusione che anche quegli attrezzi nel capanno dovevano ormai essere poco più che un ammasso di ruggine. Il larice sarebbe stato potato, per consentire a piccoli camion il passaggio, ma non abbattuto. Dei piccoli camion Sergio da allora non ne aveva visto passare ancora uno. Il larice nelle leggende del posto era spesso associato a storie in cui diveniva simbolo di amore. E tutto lì, con intensità maggiore o minore, alludendo più o meno esplicitamente, parlava di Chiara. Il prato era curato da Chiara con amore; i fiori erano innaffiati da Chiara con amore; la casetta era tenuta ordinata e pulita da Chiara con amore; la panchina, su cui Sergio non l’aveva mai vista seduta, era stata voluta da Chiara con amore. Il larice, che poi ricrebbe riprendendosi tutto lo spazio che gli era ingiustamente stato tolto, non fu forse lasciato lì, anche lui, per un gesto d’amore? Sergio raccolse la pigna. Bevve un altro piccolo sorso. Andò sulla panchina. Ancora il gufo. Il verso, se Eco non faceva scherzi, veniva dalla scaffa sopra la casetta, non più dal bosco. Un secondo bagliore. Il baleno illuminò tutta la foresta. Le prime grosse gocce d’acqua caddero sulle sue gambe, sui suoi piedi nudi; si tirò su il cappuccio della felpa. Non si alzò dalla panchina. La pioggia s’infittì. Le gocce divennero più fini e fitte, lacrime del cielo che con altre lacrime si confusero sul suo viso. Il gufo era sempre lì, incurante della pioggia. Cupo e malinconico era il messaggio che mandava. Per tre giorni era piovuto così, a gocce fini e insistenti, fino a quel 13 maggio di trent’anni prima.

Erano le lacrime più dolorose. Avevano quel particolare fascino di recare una paura, che lui non temeva; di evocare un dolore, in cui spesso trovava inattesa serenità; erano lacrime che ne richiamavano altre, indimenticabili, quelle che avevano impresso la direzione alla sua vita. L’auto della polizia municipale arrivò in serata davanti alla casa del nonno. Pioveva ancora a dirotto. Dal grande boato erano passati appena venti minuti e tante voci confuse si rincorrevano. Ma quei due agenti posero fine alla confusione. La nonna lo aveva portato via, trattenendo i singhiozzi. Aveva capito. Il nonno non voleva capire, non voleva pensare e non voleva immaginare nulla. Aprì la porta. Uno dei due agenti disse: “C’è appena stata una frana. Di grandi dimensioni. Ha travolto tre case, un capannone e la strada. Delle case una è quella di suo figlio. Speriamo di trovare qualcuno in vita, ma là non c’è più nulla. Ora dobbiamo tornare tutti là sul posto. Siamo qui anche per dirvi che vi siamo vicini in questo difficile momento.” L’agente pose una mano sulla spalla del nonno, che infilò la tuta e disse: “Vengo con voi.” Sergio era rimasto per ore con la nonna, ammutolito, con gli occhi fissi alla finestra, che guardava verso la montagna che aveva cambiato forma, che aveva ridisegnato il paesaggio, che, soprattutto, aveva chiesto un sacrificio. Si fece notte. Dal luogo della frana si vedevano le luci dei grandi riflettori che illuminavano la zona dove i soccorritori cercavano superstiti. Il nonno rincasò alle quattro del mattino: una maschera irriconoscibile di fango. “Li abbiamo trovati tutti: dodici persone che erano nelle case, undici nel capannone e sette di passaggio nelle auto. Nessuno si è salvato. Erano sepolti da metri di fango.” Non disse ‘ve l’avevo detto’. Andò in camera. Si chiuse là dentro. La nonna strinse Sergio forte a sé. Sergio per sette giorni non parlò, non volle uscire dalla casa dei nonni; dimagrì in modo preoccupante, perché non mangiava quasi niente. I compagni di scuola e gli amici chiedevano di lui, ma lui non sarebbe più stato il Sergio di prima da quel giorno, chiuso in un mutismo che preoccupava tutti, i nonni, gli amici e gli insegnanti. Sergio, da allora, sarebbe cresciuto nel corpo, diventato aittante e sportivo, le ragazze parlavano molto di lui e alle ragazze lui sapeva di piacere; ma l’anima sarebbe rimasta inchiodata a quel maledetto 13 maggio. “Tu devi in qualche modo metabolizzare il passato. Non puoi rimanerne così schiavo”, gli aveva più volte detto Chiara. Metabolizzare. Accettava quelle parole solo da Chiara. Lei era del paese. Sergio aveva studiato il greco a scuola e sapeva il significato di quella parola, che veniva un verbo che significa ‘trasformo’, ‘lancio via in un’altra dimensione’, ‘supero’, ‘porto a compiuto sviluppo’. “Cosa intendi per ‘metabolizzare’?”, aveva chiesto a Chiara. “Intendo che devi passare oltre, superare quella data a cui sei rimasto inchiodato.” Sergio rifletté a lungo prima di rispondere, poi disse, con quel suo solito, modo di parlare lento, a basso volume e a occhi bassi che per Chiara era irritante: “Metabolizzare significa anche portare a compiuto sviluppo un processo.” E Chiara: “E tu cos’hai portato a compimento da allora?” Sergio aspettò ancora più a lungo, irritando ancora di più Chiara: “Il dolore. Ho portato a compimento un processo di elaborazione del dolore, l’unico ineluttabile e necessario firmamento della vita.” Chiara scosse la testa e disse “No”. Urlò più volte, a ripetizione, quel no. Aveva meglio di lui stesso capito tutto di Sergio, ma lui era convinto che lei facesse così perché si rifiutava di ascoltare e comprendere il suo dolore, di condividere le regole che governavano la convivenza in quel mondo speciale di memoria in cui pochi eletti erano stati ammessi. Chiara era stata ammessa. Lei avrebbe preferito restarne fuori. Ma lui aveva preteso che lei entrasse. Errore. Stramaledetto errore. Amore e dolore devono reggere la volta, come due colonne: devono rimanere distanti uno dall’altro, devono alzarsi paralleli ed esattamente uguali, anzi perfetti nella loro uguaglianza di forme e dimensioni, senza toccarsi mai, se vogliono che la loro funzione sia svolta secondo la regola dell’arte. Così aveva sempre detto agli amici e ai conoscenti, che lo esortavano nei momenti di abbattimento, come dicevano loro con termine delicatamente edulcorato, di depressione e di ansia, come ben sapeva lui, fuori di ogni infingimento. Al momento in cui dalle parole si sarebbe dovuto passare ai fatti, si era reso conto che aveva parlato bene, ma razzolato malissimo. Errore. Pretendere che entrasse l’amore in quel mondo di dolore era stato un maledetto errore. Chiara sarebbe dovuta restarne fuori. La felpa era ormai intrisa d’acqua. Non distingueva più le lacrime del cielo da quelle degli occhi. Tutto era confuso. Un informe e caliginoso paesaggio notturno offuscava la vista nelle tenebre, dalla terra si alzava vapore, dal cielo scendeva pioggia. La terra si bagnava, diventava fango e lui sprofondò, inevitabilmente, sotto quel fango, che sognava a occhi aperti, mentre con fragoroso boato precipitava dalla montagna dall’altra parte della valle e distruggeva, devastava i corpi di alcuni e annichiliva le anime di altri, poneva fine ad alcune vite, rendeva un inferno quelle di altri. La pioggia aumentò d’intensità. Il vento non calava. Scuoteva le fronde degli alberi, che si agitavano come braccia di fantasmi disperati nella notte. Aveva tenuto il bicchiere protetto sotto la panchina. Lo prese. Entrò in casa. Si tolse la felpa fradicia. Si asciugò i piedi nudi. Salì sul soppalco, dove aveva camera e bagno. Fece la doccia. Aveva tanto fango da togliersi. Ma non era quella l’acqua che l’avrebbe pulito, benché più volte fosse passato e ripassato con la mano insaponata. Effimero sollievo fu quel trascorrere del flusso caldo sul suo corpo raggelato. Erano le tre del mattino. Il battito incessante della pioggia sul tetto, i fulmini con i loro subitanei bagliori attraverso i vetri, i tuoni, non uno uguale all’altro e perciò l’uno più inquietante dell’altro, dei quali tutta la valle rimbombava, il vento, che trovava ogni pertugio per intrufolarsi nel suo mondo, tutta quell’invasione nei sensi, da cui non poteva escludersi, faceva male, perché riavvolgeva il film della vita e lo riportava ineluttabilmente là dove il dolore aveva la sua origine. Lo riconduceva là dove l’anima era ancora tenacemente allignata. Riannodava i fili del tempo là da dove erano partiti i silenzi, le riflessioni, le tante domande, i tanti perché, domande che aveva preteso di fare solo a se stesso, domande che non riteneva nessun altro in grado di intendere, domande che lo avevano segregato lassù, allontanato dal paese, isolato dai colleghi, dagli amici e dai conoscenti, indotto a perdere fiducia nel prossimo che l’avrebbe invece potuto aiutare. Quella casa al limitare della grande foresta, in una piccola radura che si apriva sulla strada abbandonata e mai finita, la forestale degli impianti, appoggiata al dorso di una grande frangia, protetta da un’altrettanto grande scaffa sporgente, non era solo un guscio, un nido, ma diventava in quei momenti il simbolo più eloquente dell’emarginazione, che solo lui pretendeva di comprendere. “Dovresti avere quarantaquattro anni e invece mi sono resa conto che nei hai solo quattordici e che questa casa sta diventando un malsano feticcio”, aveva detto pochi giorni prima Chiara proprio lì dentro, nella casetta che anche lei adorava, nel letto su cui lui credeva di curare il dolore con l’amore. Eppure lei aveva amato quella casa, aveva con le sue mani contribuito a renderla più ridente e accogliente, aveva saputo apprezzarne e anche valorizzarne tanti aspetti. Alla fine era andata oltre quel sottile strato di bellezza tangibile, che ammaliava gli occhi con il paesaggio meraviglioso in cui lui aveva saputo inserire la sua piccola dimora. Quel contesto affascinava l’udito con i suoi pacifici silenzi interrotti solo dai suoni della foresta e riportava a quell’ordine naturale che lei aveva inizialmente inteso come il recupero di una dimensione più atavica e semplice; e invece non era così. Riuscendo a penetrare quella patina superficiale, abilmente costruita da lui per coprire la parte brutta di tutto quel mondo di fascino, Chiara aveva avuto la possibilità di percepire un flusso di dolore e anche i suoi gesti, le sue parole, i suoi lavori per quella casetta piano piano si erano pervasi di questo flusso negativo. Chiara, insomma, con il protrarsi della relazione, aveva compreso che quella casetta mascherava con provetta accortezza un’angoscia devastante. Sergio appariva come l’impiegato di banca serioso e riservato, preciso nel suo lavoro, sempre corretto e sorridente con la clientela; si era costruito con sicura destrezza un personaggio pubblico, con il quale faceva a pugni quello che invece, senza farsi notare, portava ogni giorno un fiore sulla tomba di famiglia, nell’angolo del camposanto in cui erano state raccolte tutte le trenta vittime della frana, e poi, in punta di piedi, silenziosamente, si eclissava ai margini di quella vita, lassù, nella casetta di legno sulla forestale mai finita. Chiara aveva capito che quel 13 maggio di trent’anni prima non era più solo un momento di dolore; era una data sul calendario che possedeva, proprio grazie alla sua carica di dolore, un’irresistibile forza di attrazione. Il simbolo di tutto quello, il luogo in cui l’anima trovava la sua pace nell’ansia, era la casetta a margini della foresta. Come a quella casetta mancavano ancora tanti dettagli, alla strada su cui si trovava mancava un traguardo: una grande incompiuta, proprio come quella vita che aveva conosciuto uno sviluppo nel corpo, una maturazione nello studio e nella carriera professionale, ma che nell’anima a quattordici anni aveva subito un trauma da cui non si era mai scossa. Chiara rimase affascinata dalla forza di quegli occhi neri, più neri dei suoi già neri, quel giorno in cui l’impiegato che la seguiva di solito in banca era assente per un corso di formazione e venne affidata a un suo collega, appunto a Sergio; con tre o quattro pretesti nei giorni successivi tornò da Sergio, anche quando era rientrato l’altro impiegato che l’aveva fino a quel momento seguita; le colleghe a scuola le avevano consigliato di informarsi per un fondo pensione, che a loro era sembrato migliore di quello proposto dai sindacati. E così si erano conosciuti; fu un attimo passare dall’sms, che fissava l’appuntamento di lavoro in banca, al messaggio in chat privata, che ne fissava un altro da Prati, quando la mano di lui si poggiò per la prima volta su quella di lei, trasmettendole quella parvenza di sicurezza, che sarebbe stata per anni al contempo l’inganno e il mistero di Chiara. Quanto inganno e quanto mistero ci fosse in quegli occhi vivi lassù nella casetta, ma spenti quaggiù in paese, Chiara ancora non sapeva quantificare, nel momento in cui, riprendendosi dal sesso, Sergio la abbracciava stritolandola tra le sue braccia, come se volesse con lei stritolare un coacervo di memoria e di dolore. Quale rapporto intercorresse tra la passione che lo animava lassù e la malinconia che lo schiacciava quaggiù Chiara non volle mai chiedersi. E c’era sempre quella panchina là fuori: anche lei avrebbe dovuto avere schienale e braccioli. Era un oggetto su cui si stava solo sospesi, con la terra come unico sostegno, firmamento lo chiamava lui. Sergio non aveva mai chiesto a Chiara perché non si fosse mai seduta su quella panchina, che aveva voluto lei, ma che poi aveva preferito trasformare in fioriera. I lampi illuminavano ogni tanto anche la radura con il prato sempre tenuto accuratamente tagliato, che Chiara voleva curato alla perfezione, davanti alla casetta. Sergio si affacciò alla finestra della mansarda, che era stata recuperata come soppalco e camera da letto, e la vide: la volpe rossa era tornata sotto la panchina, dove l’acqua non arrivava. Da quando viveva lì era la prima volta che la vedeva in un giorno di pioggia. Il suo rosso era come un’insperata nota di vita in quella tenebra d’ansia, da ore agitata e scossa dagli elementi.

Si tolse l’accappatoio. Lo specchio rifletté un’immagine denudata di tutto, priva di ogni protezione, priva di ogni copertura, priva di tutto quanto la potesse rendere fallace. Era l’immagine di un ragazzino nudo e spaurito, a cui il destino aveva tolto ogni sicurezza, che aveva costretto negli angusti limiti di quello spazio marginale e incompiuto, ma dove ogni alito di vita era quello dell’ordine naturale. “Devo essere sincera e dire le cose, così come veramente le sento. Mi piaci tanto e con te mi sento bene; sei un uomo decisamente bello, sportivo, atletico; sai apparire forte, quando vuoi dare questa impressione; c’è un indubbio fascino che emana dalla tua persona di lavoratore, in banca e in casa, che non conosce stanchezza e infonde sicurezza agli altri, come quando corri a piedi su questi sentieri o ti alleni con la bicicletta su per i passi; sei una persona che legge e sa tante cose e mi hai dato tanto nel momento in cui avevo bisogno di qualcuno al mio fianco; hai saputo darmi amore come nessuno ha mai fatto. Ma ogni tanto mi chiedo perché quassù ogni cosa sembri aver bisogno di un passo in avanti, di una mossa in più, di una spinta, di un aiuto che le è mancato e che non dovrei essere io a dare.” Chiara lo aveva detto poche ore prima. Sentendo il bisogno di non coprire quella veritiera nudità riflessa dalla specchio, Sergio si lasciò cadere sul letto. Disegnò un cuore con le dita sul ventre di lei. E prese sonno. Ma prima di addormentarsi gli era parso di aver sentito la sua voce: “Ti amo, Sergio.”

Erano le nove del mattino, quando un rumore lo svegliò. Chiara non era accanto a lui. Non era la sveglia, che di domenica non puntava mai. Il sole illuminava la radura e la panchina, per la sua posizione, era la prima ad essere raggiunta. Aprì la finestra che dava sul retro verso il paese. Il soppalco aveva due finestre, entrambe sui lati corti della casa: da una si vedeva la parte della foresta che declinava verso le prime case del paese, di cui si vedevano alcuni tetti lucidi della pioggia caduta copiosa nella notte; dall’altra si vedeva la parte del prato in cui era stata collocata la panchina. Solo allora si rese conto di cosa fosse il rumore che lo aveva svegliato. Veniva dal piano di sotto. Qualcuno bussava alla porta. Ma non c’erano auto.

Indossò velocemente il primo paio di calzoncini che trovò e scese ad aprire. Chiara era sulla soglia. Bella, bella come tutto non poteva non essere bello in quell’inondazione di luce dopo le tempeste notturne. Indossava un completo da corsa rosso con i bordi bianchi, con canottiera rossa, calzoncini corti rossi e scarpe da corsa bianche con bordi rossi. I lunghi capelli d’oro erano raccolti in una coda di cavallo. Era uscita per correre. I suoi occhi neri, con i quali aveva spesso saputo parlare meglio che con le parole, erano fissi sui suoi ancor più neri. Non dissero nulla per un attimo. Avevano troppe parole da dirsi. Poi fu lei a prendergli la mano destra e a portarlo fuori, sul prato che attraversarono insieme. Chiara si posizionò davanti alla panchina, rimase a guardarla a lungo, strinse forte la mano di lui come in cerca di un aiuto; Sergio rispose stringendo anche lui la mano di lei. Chiara allora si sedette sulla panchina e disse: “Aspetto un bambino, Sergio. Ripartiamo da qui. Schienale e braccioli. Subito. Vèstiti e andiamo a cercare il legno. Entro stasera la voglio completa e finita.” La volpe rossa, con le sue zampe di un grigio chiaro tendente quasi al bianco, aveva solo cambiato posto. Aveva lasciato la panchina e si era stesa a sonnecchiare sotto la legnaia. Ogni tanto apriva gli occhi. Poi discretamente li richiudeva. Li vide sedersi. Allora si alzò, li guardò da lontano e con passo lento riprese il posto a lei assegnato, nell’ordine naturale cui tutto lì doveva obbedire, tra i faggi, i pini e gli abeti.

Così finì quella che da allora in paese sarebbe stata per tanti di noi, ma soprattutto per i bambini e per gli insegnanti della mia scuola, la favola della volpe e della panchina: di una volpe sagace, premurosa e attenta, che andava e veniva, appariva e scompariva, ben sapendo quando comparire o quando congedarsi; di una panchina, per tanto tempo rimasta fragile e incompiuta, ma che di quella volpe da allora non avrebbe mai più potuto fare a meno.

Ma c’è una cosa che Chiara e Sergio sicuramente ancora non sanno. L’ho saputa per caso un giorno a un tavolino del Prati dallo zio di Sergio. Il legno del tronco, che fa da seduta della panchina, e quello dei due grossi ceppi, che ne formano la base, vengono da alcuni dei tanti alberi che furono sradicati dalla frana quel 13 maggio di tanti anni fa e poi raccolti nella sua segheria. Con quei legni sono stati fatti tanti altri lavori in paese. Quel legno è come se vivesse ancora. Per quello Chiara non amava sedersi. Quella notte è stato animato da una volpe e la volpe ha detto che quel legno vive. Ha parlato prima a Sergio e poi deve aver parlato anche a Chiara. Con quali parole, non saprei dire; solo le Fate hanno di questi poteri, del resto. Chissà, forse un giorno la favola avrà una fine diversa da questa. Ma a me piace così com’è, anche se restano tanti segreti che la lasciano sospesa, come tanti nelle anime di questa gente da quel 13 maggio di tanti anni fa. In fondo, tante anime di questo paese hanno sofferto senza colpa e conservato nel cuore quei segreti.

La campanella è suonata. Chiara è uscita. Sergio mi ha salutato ed è uscito con lei sotto l’ombrello. E mentre dal mio ufficio esattamente di fronte alla chiesa sento cigolare sui suoi cardini arrugginiti quel cancello, so che il dono segreto e quotidiano del fiore è il modo che una di quelle anime ha trovato per conservare il suo sentimento. Ognuno ha la sua commozione e la sua percezione di quell’evento, qualcuno la esterna, altri no; tutto avviene assolutamente al di fuori di ogni schema e senza regole; lavorare in questo paese mi ha insegnato una cosa semplice: a nessuno spetta cercare regole, né tanto meno imporle, quando al fondamento di comportamenti ritenuti atipici, fuori dei binari imposti, ci sono tragedie di queste dimensioni. Tenerne uno per me di questi sentimenti e di questi segreti e trattenermi quando vedo il piccolo Luigi giocare con le macchinine su quella panchina, ora completa di schienale e braccioli, significa sentirmi un po’ come una di queste anime e partecipare a mio modo a quel dolore che ognuno ha metabolizzato in modo diverso. E come la volpe, quando lascia la panchina e torna nel bosco, anch’io mi ritiro alla mia scrivania, nel posto a me assegnato. E quel cigolio del cancello del camposanto, faccio finta di non averlo mai sentito.

Pensa un po’! Tutto inizia e tutto finisce lì: una spina d’acacia

Sono rientrato in un bagno di sudore dal giro in bici. Infilo la mano nel taschino posteriore per prendere le chiavi e aprire il garage e mi pungo. Avevo dimenticato di averla conservata. Non c’era qualche ora prima quando ero partito. Eppure, da quella goccia di sangue, da quel frammento di natura messo chissà perché in quel taschino, da lì mi piace riavvolgere il racconto. Da qualche ora prima. Quando il sole non troneggiava ancora così spavaldo in mezzo al cielo, ma iniziava appena a intravvedersi a spicchi tra le cimase e la temperatura era di almeno dieci gradi più bassa. Da un paesaggio diverso, da colori e odori diversi, da spettacoli diversi, da mondi dell’anima così maledettamente ma anche meravigliosamente diversi. Quella goccia di sangue rende diverso il dito dagli altri. Penso a un sacrificio: il sangue rimanda al sacrificio; penso a un’espiazione: il sangue ricollega alla colpa e alla sua espiazione. Ho fatto un viaggio. Ho espiato. Cosa ho espiato? Se sono stato parte di un’esperienza di sacrificio, tutto questo a che pro? Il sangue riporta il girovagare dell’anima, attraverso i contorti meandri della mente e gli errabondi pellegrinaggi della memoria, anche al dolore. Amore e dolore sono i due pilastri della vita, si sa. Si legge forse anche sui bigliettini dei baci Perugina. Eppure è così. Quel sangue, non saprei dire perché e per come, fatto sta che adesso ha un potere che nessuno gli può impedire di esercitare: riavvolge la bobina della memoria.

Si parte. Il sole è alto di poche spanne sulla linea dell’orizzonte. L’aria fresca del primo mattino di metà giugno invita a essere assaporata. Cosa meglio di un rampichino (qualcuno la chiama mountain bike) consente di fare questo bagno di bellezza in un paesaggio classificato tra quelli con maggiore biodiversità di tutto il mondo? Si tratta del tratto di costa tra le ultime case a sud dell’abitato in direzione della pineta, in direzione del mare verso la foce del fiume, risultato dell’artificiale confluenza tra due alvei, ancora ricchi di acqua grazie alle abbondanti nevi invernali e alle copiose piogge primaverili. Un bagno di bellezza. Sì. Lo è per davvero nella pacifica e silenziosa solitudine di queste prime ore del mattino. E chi lo snobba dicendo che il rampichino è fatto solo per la montagna sarà un fenomeno della bicicletta – e questo triste primato nessuno glielo vuol contendere – ma non sa cosa si perde se sa guardare non solo con gli occhi della testa, ma con quelli dell’anima, se sa dare un significato agli opposti fortori di letame e di tiglio, ai ritmi del contadino che ha battuto il grano per tutta notte con il fresco e spegne i potenti riflettori del trattore quando arrivo io: il nostro essere urbanizzati non è più avvezzo a questi ritmi, ritmi da recuperare, anche solo come esperienza visiva, ritmi che andrebbero vissuti e farebbero bene ogni tanto all’anima.

Un bagno di bellezza. Non solo: quello che tu prevedi, attendi, desideri come bagno di bellezza potrebbe, chissà, diventare a tua insaputa, come premio della tua totalmente disinteressata esperienza di viaggio, un premio di sapienza. Cerchiamo di farci capire. Ma per essere chiari bisogna vivere quel viaggio tra coltivi e incolti, tra acque e terre, tra bosco secolare e larghe di bonifica, tra residui di saline, che richiamano alla mente l’immane disumanità di certi mestieri, che nulla avevano da invidiare alle miniere quanto a malattie e ridotta speranza di vita. Accompagnare in questo paesaggio di bellezza persone in viaggio, come un cicloturista olandese, che ha incrociato la mia traiettoria per caso, e spiegargli che qua persino i medici condotti per tanti anni sono stati mandati per punizione, perché nessuno voleva venire in posti dove chiunque aveva paura di ammalarsi e di morire e dove la speranza di vita non era bassa solo per chi faceva i durissimi lavori di salinaro o pignarolo, ecco, spiegare queste cose lascia spesso a bocca aperta il tuo interlocutore. Anche questa è biodiveristà. L’Archivio storico comunale di Cesenatico, poco più di sud di qui, lo può documentare in tutta la sua cruda e drammatica realtà. Sale e pinoli erano oro per queste genti; per il primo, il sale, ravennati e forlivesi hanno litigato per secoli, finché non sono arrivati quelli più grossi di loro a farli star zitti, prima Venezia, poi lo Stato pontificio; per il secondo, il pinolo, assai più avaro, le dicerie popolari erano assai antiche. Tre anni impiega un pinolo dentro la pigna a maturare e 30 kg di pigne occorrono per 1 kg di pinoli. Forse per questo loro carattere misterioso, per questa lentezza a crescere, per questa rarità nel farsi trovare, per questa difficoltà nel farsi cogliere già Apicio nella sua Ars coquinaria li riteneva afrodisiaci? Il filosofo persiano Avicenna disse addirittura che nessun altro prodotto di natura aveva la capacità del pinolo di far aumentare la produzione di sperma nel maschio e favorire il coito. Al popolo forse le sue dotte disquisizioni su Aristotele saranno passate inosservate; ma queste sicuramente no. Il ciclista olandese non mi segue. Pazienza. Mi chiedo come faccia a stare, lungo lungo e secco secco com’è, su quella bici che non è della sua taglia. Ma mi chiedo come faccia a tenere quella barba così lunga, da cui scendono gocce di sudore, con questo caldo. Non faccio domande. Fatti suoi.

Finita la stagione dell’asparago selvatico, che dà il meglio di sé appena si dissipano le ultime brume invernali, ci si accontenta delle tante erbette che crescono sulla buona terra dei rivali, in attesa della raccolta di more in agosto. Sono i tempi dell’uomo che vive la pineta e ne sfrutta quel sottobosco così tanto amato anche dai timidi daini, che solo all’alba o all’imbrunire si avvicinano ai sentieri. Al campeggio gli avevano detto, a lui, al cicloturista olandese con barba da filosofo greco, che in pineta avrebbe visto i daini; sì, così gli avevano detto i sapientoni che si definivano protettori e grandi conoscitori dell’ambiente, proprio come se i daini fossero ammaestrati a fare le belle statuine per i turisti.

Il cicloturista olandese è stupito da questa narrazione, mentre procediamo, passando repentinamente dal paesaggio assolato del rivale del fiume a quello del lido affollato di turisti, da quello della campagna dove il fieno pervade tutti i sensi, ma proprio tutti, al viale di tigli che ci introduce in una strada bianca nelle cui piazzole giovani ragazze nere attorno a un camper mettono un brusco stop al bagno di bellezza. Loro sono belle, non lo è quello che sono costrette a fare: oltre il passaggio a livello un camposanto di paese, un tuffo nella storia di quel paese, dove anche giovani caduti in guerra vanno fieri della loro foto in divisa; ma quante domande pongono quegli uomini anziani che, forse appena usciti dal camposanto stesso, si mettono in fila fuori dal camper? Lui, il barbuto cicloturista che viene da un paese dove il sesso a pagamento si fa in negozio con ricevuta, scatta foto, assai inopportune. Gli spiego che potrebbe esserci il protettore da qualche parte e che forse è meglio fotografare uccelli e fiorellini. Credo che non abbia capito. O forse ha capito altro. Comunque, non sembra sveglio.

Procediamo oltre la statale, tra le larghe di bonifica; un pozzo di metano troneggia al centro di un vastissimo campo di colza appena battuto, alimentando quella visione di contrasti che pongono sempre domande senza risposte; un campo appena arato è aggredito da decine e decine di gabbiani; il vomere ha rivoltato le zolle e tutta la vita di vermiciattoli, che sotto di esse si era per mesi celata, è stata messa brutalmente a disposizione di quegli aggressivi uccelli di mare. Anche loro fanno come noi; se l’obiettivo dei sapiens è arrivare alla fine del mese guadagnando di più e lavorando di meno, non è forse più sapiens di noi chi ci fa capire che è più facile mangiare quei lombrichi, che volare ore e ore in cielo sul mare sperando di vedere affiorare un misero pesciolino pieno di lische?

Il cicloturista olandese, tecnologicamente dotato di tutto quello che su una povera bici può essere montato, mi fa notare che rispetto al suo gps siamo finiti fuori strada. Gli dico di non preoccuparsi. Per noi italiani tutte le strade portano a Roma. Ride e mi segue, con la sua bici a cui è attaccato di tutto: campanelli, fanali, navigatori, computer, portacellulari, portattrezzi; insomma, un albero di Natale fuori stagione. Mi sta cominciando a diventare un po’ più simpatico.

Ho appena detto che l’Italia è così varia che basta passare un ponte che cambia tutto: paesaggio, lingua, abitudini. L’ho appena detto che, passato un ponte su un canale, ci troviamo fuori dalle desolate larghe di bonifica, in un campo di girasoli più alti di noi, con tante case sparse circondate di tigli e di querce. E i tigli si sentono. Eccome se si sentono. Li riconosce anche iron-man, che pigia tasti ovunque in quel coacervo di elettronica di cui ha appesantito la sua bici. Ma se un cellulare ha già l’app con il gps, che bisogno c’è del gps?, gli chiedo, così, in modo del tutto disinteressato e distratto. Mi dice che è più preciso. Ma se un cellulare ben configurato ti dice già che consumo calorico e che dispendio energetico in watt hai avuto dalla partenza, che bisogno c’è di cardiofrequenzimetri e altri marchingegni?, gli chiedo sempre più distrattamente. Mi dice che sono più precisi. Fatti suoi. In fondo, è lui che viaggia per l’Europa portandoseli addosso. Tipo ben strano, comunque. Mi chiede una pizzeria per mangiare. Una pizzeria? Ma hai capito dove siamo? Siamo tra pinete e piallasse, larghe di bonifica e rivali di canali. Una pizzeria! Ma da che pianeta è cascato questo?

Ho capito che non è tipo da idilli bucolici. Lo riporto sull’asfalto della statale, tra i camion e le auto che sfrecciano. Probabilmente un paese con una pizzeria qua c’è. Infatti è là che maneggia pigiando tasti sulle sue diavolerie elettroniche. Questo ha fame. Lo vedo in difficoltà. Accendo il mio cellulare. Ricordo di aver installato un’app per trovare ristoranti nelle vicinanze. E trovo una pizzeria aperta a mezzogiorno a 8 km dal punto in cui siamo, sicuramente uno di quei posti frequentati dalle squadre di lavoratori, quasi tutti stranieri, che lavorano nei campi. Credo di averlo fatto veramente felice dal luminoso sorriso con cui si congeda da me facendo dietrofront. Fa parte della biodiversità anche lui, in effetti, penso tra me e me. Appena trovata una sterrata più adatta alle mie ruote grasse, ritorno in direzione del mare e in quelle larghe verdi, secate da canali che non fanno una curva, una minima deviazione per chilometri. Arrivo a una chiusa, nelle cui vicinanze è una fontana, dove sciacquo finalmente la borraccia impolverata e la riempio; quanta acqua devo sprecare, prima che ne esca che non sia bollente! Alla fine inizia a diventare un po’ più fresca, poi davvero fredda. E finalmente posso bere acqua che non sia calda e non sappia di polvere, con quel singolare retrogusto di plastica e gomma che prende dopo un po’ nella borraccia. E allo sciabordio della gora tra le paratie della chiusa tutte aperte affido la pausa pranzo: un sacchetto di frutta secca, una banana, una mezza borraccia di acqua. Fresca, acqua vera. Silenzio tutt’intorno. In lontananza si vede una macchia nel cielo. Disegna figure cangianti. Sto assistendo a uno degli spettacoli forse più emozionanti che queste terre sanno regalare: il volo in gruppo dei fenicotteri rosa. Riparto per ritornare a casa. Ma il bagno di bellezza mi ha riservato un ultimo dono. Non me lo aspettavo.

Appena uscito dalla pineta, sopra i campi di colza appena battuti lo vedo volare. Horus aveva le sue sembianze. La sua intelligenza ne ha fatto per l’uomo antico simbolo non solo di preveggenza, come la poiana per gli aruspici etruschi e poi romani, ma di accorta avvedutezza, di capacità di organizzare, di non aver mai fretta per raggiungere l’obiettivo. Lui infatti studia a lungo dall’alto, esamina, valuta, calcola traiettorie, fa tutto con freddezza e perfezione e raramente sbaglia, quando il suo piano è portato a effetto. Mi fermo. Lo guardo. Le sue ali sono immobili, dritte nella fase di studio; ma ecco, a un certo punto le punte di quelle ali cambiano d’un tratto posizione, si piegano, la velocità del volo non sfrutta più le ascensionali, deve vincerle esprimendo quella che è considerata la velocità maggiore in natura: la picchiata del falco pellegrino. Neanche un’auto di formula uno è ancora arrivata a tanto. Prendo il cellulare e mi informo. 372 km/h è la velocità massima raggiunta da una Mercedes in gara; 387 km/h è quella che può raggiungere il volo in picchiata del falco pellegrino. Riparto con la mia diversità in quel grande palcoscenico di altre diversità. La mia mente è presa dal babbo che non c’è più, dai suoi moniti e dai suoi silenzi: lui avrebbe parlato per ore di quel falco; la mente è invasa dalle scadenze del lavoro, che stonano quanto mai là in mezzo; eppure senza quel bagno di bellezza e senza quell’esperienza di sapienza, lenta e oculata pianificazione, e infine perfezione all’atto dell’esecuzione del volo del falco, forse non esagero se dico che sarei diverso. Anche senza quella maledetta spina d’acacia, lunga come mezzo pollice e che mi ha forato la posteriore nella discesa di un rivale ad appena 5 km da casa, sarei forse diverso. Anche senza quel bizzarro cicloturista che cercava pizzerie in mezzo alle piallasse, sarei forse diverso. Ho estratto quella spina d’acacia, l’ho maledetta in tutti i modi; però poi l’ho messa nel taschino e me la sono portata in garage. In fondo, di tutta quella bellezza e di tutta quella sapienza, una volta lavata dalla polvere e dalla sabbia la bici, alla fine, dopo tante pretese, dopo tante riflessioni, dopo tanti andirivieni nel tempo e nello spazio, alla fine non resta forse solo lei, una spina d’acacia?

E credo proprio che sia giusto così. Solo una spina d’acacia.

© 2018. Stefano Tramonti

Il premio

La temperatura si era abbassata dopo il temporale notturno. La pioggia caduta copiosa nella notte aveva lasciato tanta umidità nell’aria, di cui tutto era impregnato. Dalle staccionate le gocce scendevano con ritmo regolare, formando pozze che riflettevano il grigio dominante. Le nubi basse avvolgevano anche il fondovalle e la nebbia s’infittiva più ci si avvicinava al fiume. La montagna, che in quella giornata sarebbe stata protagonista, si nascondeva con atteggiamento quasi maligno dietro quelle fitte caligini mattutine. Il silenzio avvolgeva le squadre e il loro séguito di staff tecnici e medici, di amici, parenti e conoscenti, la stampa, i tifosi accorsi numerosi nonostante il clima e i valligiani, quasi tutti, anche i meno giovani, in un modo o nell’altro coinvolti come volontari nell’organizzazione di quell’atteso evento, per il momento avvolto in un grigio che metteva pensierosa preoccupazione in tutti, nei corridori soprattutto; molti di loro erano in sella alle bici sin dalle prime ore del mattino con il cellulare fisso sul meteo, la grande incognita che avrebbe potuto mandare all’aria strategie studiate e perfezionate da giorni. Con questo dominio di grigio creava un singolare contrasto la vivacità dei colori delle divise delle squadre già in allenamento e dei loro pullman parcheggiati in prossimità degli alberghi. A Marco piaceva e riusciva a infondere un po’ di carica e di alacrità il giallo-blu del pullman della sua Alberti Costruzioni, ma anche il rosso del pullman della Robocycling, la sua ex squadra, due curve più su, davanti a un altro albergo, ricordava momenti vissuti da guerriero. In mezzo un altro albergo e davanti a quello un altro pullman completamente bianco con le scritte nere: era quello della tedesca BTW-Plastik, l’ultima squadra a essersi iscritta. Anche Marco era già in divisa. Qualcuno era già uscito e aveva fatto con la bici qualche chilometro di allenamento. Tre alberghi della zona erano stati occupati dalle squadre iscritte. Altri gruppi sarebbero arrivati con gli autobus da altri alberghi in località vicine. Da anni desiderava partecipare a quella classica alpina, da poco nel calendario delle competizioni più importanti. Finalmente la sua squadra aveva deciso di puntare su di lui. Era una grande giornata. Da anni non sentiva il peso della responsabilità, ma, quando la preparazione è attenta e curata, quel peso si alleggerisce e viene sostituito dalla convinzione di poter fare bene. La sua squadra e il suo precedente direttore sportivo non lo avevano ritenuto fino ad allora adatto a gare di quel genere con un dislivello totale così impegnativo, circa 3200 km. Il suo nuovo direttore sportivo, Lorenzo Ferrucci, arrivato quest’anno e alla sua prima esperienza nella categoria più alta, aveva adesso su Marco altre idee rispetto al precedente, che lo aveva ritenuto solo adatto a gare più lunghe e a tracciati caratterizzati più da brevi ma cattivi strappi, che da percorsi con lunghe e selettive salite. Ferrucci era un toscano vecchio stampo, pane al pane, vino al vino. Non pianificava le strategie di gara sulla base di quanto diceva lo staff medico o i preparatori, non dava troppa importanza ai motivatori, di cui altre squadre facevano, secondo lui, eccessivo uso; seguiva i suoi atleti negli allenamenti, li guardava negli occhi, affiancandosi con l’auto quando li vedeva in difficoltà, per capire se non andavano le gambe o la testa. E quando era un problema di gambe, li affidava allo staff dei preparatori; quando era un problema di testa, ci pensava lui di persona. Marco però non era un atleta facile da gestire e Ferrucci lo aveva capito subito; per questo il suo rapporto con la squadra era completamente diverso dall’approccio che riservava a Marco, ragazzo descritto come atleta dalle enormi potenzialità, che però il suo precedente collega non aveva mai sfruttato e aveva sempre confinato in una posizione secondaria. Marco era per Lorenzo Ferrucci l’atleta dei ma: era forte in velocità, ma …; era potente sul piano, ma …; andava come una palla da schioppo a cronometro, ma … C’erano tutti questi ‘ma’ da capire. Lorenzo aveva voluto conoscere la sua storia, aveva provato a instaurare un dialogo personale, oltre il livello professionale e sportivo, ma non ci era ancora riuscito. C’era qualcosa che doveva scattare soltanto nella testa di quel corridore che era veramente forte, perché la gamba era fenomenale. Per anni Marco era stato tenuto come uomo da gare secondarie, non da salite come quelle che caratterizzavano il tracciato di quella gara nuova, salite che hanno fatto e faranno sempre l’epica del ciclismo. Per anni era stato messo come capitano soltanto in gare di riempimento, quelle che servono alle squadre per arricchire la stagione, per prepararsi ad altri più impegnativi appuntamenti e dare la possibilità ad atleti forti, ma non di prima linea, di avere i loro momenti di gloria. Eppure da anni Marco scalpitava per dimostrare di essere forte in salita e su grandi salite aveva fatto recentemente tanti chilometri di preparazione invernale. Conosceva bene quelle strade, conosceva alla perfezione quelle altimetrie, aveva in mente la tabella dei rapporti da usare quasi curva per curva. Incurante della bassa temperatura, andò al pullman dove i meccanici erano già al lavoro e si fece dare la sua bici che era già stata preparata: “Marco, oggi siamo tutti con te! Sarai contento. Da quanto tempo aspettavi quest’occasione …”, gli disse Giovanni, il più anziano dei quattro meccanici che erano venuti su. “Sì, sono molto emozionato e carico. Sarà freddo su in quota. Mi sono preparato molto con il freddo. Mi sento bene oggi,” rispose Marco. “Hai guardato la lista degli iscritti?”, chiese Giovanni, mentre finiva di registrare gli ultimi dettagli. Aveva posto quella domanda in modo apparentemente distratto. Marco non rispose a tono e chiese: “Ce la fai a togliermi un pignone in mezzo, per mettermi un 11 dietro?”, chiese Marco. “Che te ne fai dell’11 oggi con questo dislivello?”. Marco lo guardò negli occhi e i loro sguardi si incontrarono. “Non ti preoccupare, Gio. Ho un’idea.” Giovanni sapeva che quando Marco non voleva parlare, non avrebbe detto nulla e non insistette, tornando alla domanda di partenza, a cui Marco non aveva risposto. “Hai visto la lista degli iscritti? Ci sono delle novità dell’ultimo momento,” disse Giovanni, mentre svolgeva il lavoro richiesto da Marco sul rocchetto posteriore. “Novità? Ho visto sul sito la lista alla chiusura della settimana scorsa.” “Allora credo che sia meglio che la riguardi. Ci sono novità importanti.” Giovanni glielo aveva detto in modo strano, con un insolito tono della voce, ponendogli una mano sulla spalla. Marco seguì il lavoro di Giovanni, che senza discutere aveva già rimontato il rocchetto con la modifica richiesta. L’11 era il rapporto più lungo, adatto alla pianura, fatto per chi deve dare il massimo in volata; alcuni lo montano, se vogliono fare allunghi in discesa, ma Marco non aveva mai amato in modo particolare la discesa. Giovanni fece quanto richiesto, ma perplesso. “Non è giorno da 11. Non è giorno da 11”, ripeteva mentre completava la registrazione del delicato cambio elettronico con un occhio che ogni tanto andava al cielo e alle nubi. Tutti avevano visto le previsioni ed erano preoccupati. “Guarda la lista, Marco. E tieni conto anche del meteo.” “Lo farò dopo. Per il meteo non sono preoccupato: se piove per me, pioverà anche per gli altri. O no? Adesso mi voglio scaldare un po’. Andò sui rulli e fece un po’ di riscaldamento. Poi prese la bici e andò a fare un tratto di una delle tre strade in salita, che dal paese si inerpicavano sui grandi passi, dove si era spesso scritta la storia di quello sport, soprattutto nelle grandi gare a tappe: su quelle strade aveva trascorso settimane in inverno, per affinare la sua preparazione in salita, e aveva curato anche la tecnica in discesa, un particolare che aveva sempre trascurato nella propria preparazione. Conosceva quelle salite e quelle discese curva per curva. Aveva la cartina altimetrica di ogni strada e di ogni valico ormai stampata nella memoria, da ognuno dei versanti che lo raggiungevano. Tornò per fare colazione con i compagni di squadra e nel raggiungere il suo albergo vide, parcheggiato vicino a un altro albergo, il pullman della sua ex squadra, quella che lo aveva costretto dopo anni ad andarsene sbattendo la porta. Sapeva che la sua ex squadra sarebbe stata presente quel giorno. Aveva controllato bene la lista degli iscritti e Lorenzo Ferrucci lo aveva rassicurato. Sapeva che Marco temeva sempre quel confronto, sapeva che per anni, da quando la Robocycling lo aveva praticamente costretto ad andarsene, aveva fatto lo slalom partecipando solo alle gare in cui Demetrio Piras non fosse presente. Marco, come sempre da sei anni a quella parte, per giorni era stato quasi incollato a internet e aveva tirato un sospiro di sollievo, quando aveva visto che le iscrizioni erano chiuse e l’assenza di lui, di Demetrio, era confermata. Ma sapeva, dentro di sé, che neanche lui si sarebbe mai iscritto a una gara sapendo che si sarebbe dovuto confrontare con Marco. Lo conosceva molto bene. Ma là intorno a quel pullman della sua ex squadra aveva visto un’agitazione molto particolare, un clima di festa e gridi di incitamento che non si spiegava, se erano venuti solo per cercare di non fare una brutta figura. Aveva visto Landi agitato e molto impegnato a dare ordini a dritta e a manca. Landi, il suo ex direttore sportivo alla Robocycling, faceva così solo quando partecipava con i suoi a una gara per vincere. Marco lo conosceva da anni; per anni aveva corso con lui. Uno strano rapporto di amore e odio aveva legato lui a Mattia Landi, uomo dal carattere duro e spigoloso, irritabile e scostante, certamente rude nel rapportarsi agli altri, ma imbattibile in due cose: nel pianificare le strategie per vincere le gare e nel valorizzare e motivare i suoi atleti in gara. Mentre faceva colazione con i compagni di squadra, che lo incoraggiavano tutti in un modo diverso, insolito, e mentre ascoltava le ultime raccomandazioni di Ferrucci, che, lanciando spesso occhiate a lui, ricordava la strategia di squadra messa a punto il giorno prima, distrattamente i suoi occhi caddero sulla lista degli iscritti che Giovanni gli aveva detto di controllare. Ebbe un sussulto, quando lesse quel nome in testa alla lista della Robocycling. Le squadre erano in ordine alfabetico, la sua, Alberti Costruzioni, era la prima, con la bandierina tricolore e con il nome del suo capitano, Marco Benini, in grassetto; la sua vecchia squadra, la Robocycling, con la bandierina bianco-azzurra di San Marino, era nell’ultima pagina. In giallo erano indicate le sostituzioni. Dopo la chiusura delle iscrizioni, quando Marco aveva consultato per l’ultima volta la lista, c’erano state solo due sostituzioni, che il regolamento ammetteva, una in una squadra svizzera e una proprio nella Robocycling e il nome in giallo era proprio quello del capitano, in grassetto come il suo, il primo della lista di otto atleti che ogni squadra poteva iscrivere: Demetrio Piras. Ferrucci disse che aveva notato molto motivati i corridori della squadra tedesca BTW-Plastik, una multinazionale con direttore sportivo italiano e atleti quasi tutti sudamericani, dell’est europeo o degli stati dell’Asia centrale.

Ferrucci si alzò e andò a sedersi accanto a lui: “Non me ne sono accorto neanch’io. Se l’avessi saputo, te l’avrei detto.” Marco ebbe un gesto di stizza, che non riuscì a controllare. Lanciò con rabbia un tavagliolo che aveva in mano, sul tavolo, rompendo una tazzina e ro­vesciandone il contenuto sulla tovaglia. Poi si alzò e, correndo, tornò sulla bici. Lorenzo provò a inseguirlo inutilmente. Marco era già partito. Ferrucci si prese il volto tra le mani e lo seguì allontanarsi, giù per la discesa. Alexej e Roger, il kazako e il belga della squadra, raggiunsero il loro direttore sportivo sulla porta dell’albergo e il primo disse: “L’ha presa male.” “Temo di sì. Sarà dura oggi, ragazzi. Dovremo combattere con le gambe, ma soprattutto con la testa. Su, alle 8,30 vi voglio qui fuori per un allenamento come previsto, poi riguardiamo altimetria e planimetria e facciamo un’ultima chiacchierata in pullman. La temperatura è più bassa del previsto. C’è possibilità di pioggia, purtroppo.” Roger disse: “Marco va forte con il freddo.” Lorenzo attese per rispondere; poi disse: “Ma oggi c’è qualcun altro che va molto forte con il freddo, molto forte in salita, e che sa far funzionare molto bene insieme le gambe e la testa.” La partenza era prevista per le 11,30. Giovanni aveva visto sfrecciare Marco in discesa, con colpo di pedale rabbioso. Interruppe il suo lavoro ai cavalletti e raggiunse il suo direttore sportivo: “Non si mette bene, vero?” Lorenzo disse: “Ho sbagliato io. Dovevo dirglielo. Gli ho mentito. Gli ho detto che non lo sapevo.” Giovanni, il più anziano di tutta la squadra, meccanico da anni, non solo aveva seguito Marco nelle vicende che avevano caratterizzato il turbinoso passaggio dalla Robocycling alla Alberti Costruzioni, ma lo aveva visto crescere come sportivo. Era un po’ un secondo babbo. Con lui era passato anche il fisioterapista indiano Chapal, amico e confidente di Marco. Era stata una trattativa nervosa, quasi surreale, non dettata da condizioni economiche, ma da errori umani, commessi da chi non sapeva che gli atleti sono anche uomini, non solo macchine per vincere. Nella sammarinese Robocyling Marco Benini e Demetrio Piras per anni avevano vinto tutto. Era stata addirittura la famiglia di Marco a trovare il denaro nella Repubblica di San Marino, per allestire una squadra nuova, quando quella per cui avevano corso per tanti anni iniziò ad avere serie difficoltà economiche e stava per chiudere la sua attività. Trovare uno sponsor disposto a investire qualche decina di milioni per una stragione in uno sport, seguito da tanti appassionati, ma solo in alcune regioni e che non aveva certamente la visibilità del calcio, non era più facile. Il presidente della società aveva già invitato gli atleti a trovare altre squadre e altri sponsor, quando il babbo di Marco si presentò con un vero cartello di sponsor, che faceva capo a un artigiano che costruiva biciclette a San Marino ed era sostanziato da due banche della piccola repubblica. Nacque così quella Robocycling in cui Demetrio e Marco, aiutati da altri atleti di livello, avrebbero per anni vinto di tutto.

Marco non vedeva il grigio dell’asfalto. Era un altro grigio che vedeva, mentre rab­biosamente pedalava cercando di sfogare quello non sapeva nemmeno lui cosa fosse. Era un grigio che era calato sulla sua vita sei anni prima, quando Demetrio e lui, erano partiti rispettivamente primo e secondo nella classifica generale del Giro dell’Austria il giorno dell’ultima e decisiva tappa: un grande successo si profilava per la Robocycling e per la piccola repubblica che rappresentava. Mai aveva avuto i suoi due uomini più forti primo e secondo in classifica. Tuttavia il destino avverso aveva deciso di farsi sentire con tutta la cattiveria possibile. Sulla discesa che precedeva la salita decisiva, Demetrio forò: il suo primato era in bilico. Dall’ammiraglia il direttore sportivo Mattia Landi gridò a Marco di andare avanti e che ora la squadra doveva puntare tutto su di lui. Ma Marco non era forte come Demetrio in salita e sapeva che senza il suo appoggio Demetrio non avrebbe conservato il primo posto. Nessun altro nella squadra aveva la corporatura e il peso di Demetrio. Solo con la bici di Marco avrebbe potuto continuare e difendere il suo primato in classifica. Marco gli diede la sua bici. Landi urlò di non farlo. Lo minacciò di sanzioni disciplinari. Era furente. Pensava solo ai premi e al denaro. Marco e Demetrio pensavano invece alla loro amicizia. Demetrio era di poche parole: non fece commenti come suo solito. Marco si arrabbiava, lui mai. Ma non seppe prendere una decisione rapida. Marco gli aveva dato la sua bici; il direttore sportivo non era d’accordo e, dando per scontato che Demetrio non ce l’avrebbe fatta a recuperare, voleva che Marco provasse a difendere quello che era in quel momento il primo posto virtuale. Il tempo passava. E fu determinante quell’indecisione. Demetrio ebbe un’altra bici con molto tempo di ritardo, Marco conservò la sua. Ma non riuscirono a riprendere gli avversari agguerriti che, avendo saputo non solo della foratura del primo in classifica, ma addirittura del litigio con il direttore sportivo, ne approfittarono. A dieci chilometri dal traguardo, Marco mise i piedi a terra, scese dalla bici e dichiarò il ritiro, urlando a Landi: “Imbecille, solo lui poteva vincere e con la mia bici, anche senza di me, avrebbe vinto.” Quell’offesa al suo direttore sportivo gli costò l’allontanamento dalla squadra: stagione finita. A fine gara, Demetrio lo cercò, ma non lo trovò. Marco aveva fatto le valigie e si era fatto portare da un taxi alla più vicina stazione da cui, in treno, tornò a casa. Demetrio gli mandò un messaggio: “Grazie, Marco. Sei stato tu il più grande oggi per me.” “Buona fortuna, Met.” Quelle furono le ultime parole tra loro due. Da allora, da quel giorno di sei anni prima, nessuno dei due, per una ragione che aveva a che fare solo con inafferrabili sensi di colpa e con la paura, aveva più avuto il coraggio di contattare l’altro. Da allora sarebbero stati avversari, non più compagni di squadra; il destino, il denaro, la gloria, la perdita di vista dei valori umani avrebbero reso addirittura nemici, che si temevano al punto da evitarsi, due giovani che erano amici da ben ventitré anni, dal primo giorno della scuola dell’infanzia. A tre anni si erano conosciuti. Erano stati amici all’asilo, alle elementari e alle medie, e poi nello sport, crescendo insieme, allenandosi insieme, realizzando un’intesa perfetta e dando vita a un binomio che non solo sulla carta era sempre vincente. Un ingranaggio si era improvvisamente inceppato. E la macchina non andava più avanti. Una banale foratura, un incidente, un contrattempo che in allenamento e in gara capita spesso, avrebbe impresso al destino di due persone un cammino diverso. Demetrio rimase uomo di punta della Robocycling, di cui sarebbe stato capitano nella maggior parte delle gare. Marco dovette ricostruirsi una vita nuova: avrebbe dovuto cercare una squadra nuova, nuovi sponsor. Marco avrebbe dovuto ricominciare tutto da capo. Da sei anni avevano provato a prendere il telefono per mandarsi un messaggio, un saluto, un augurio; ma non era facile, dopo quello che era successo, trovare le parole giuste. Troppo avvolgente e impegnativo era il clima che avevano costruito in tanti anni di vita insieme. Non solo: con il passare dei giorni, il silenzio divenne piano piano paura. E quel silenzio fatto di paura ebbe come conseguenza quel controllare sempre le liste d’iscrizione alle gare, per evitarsi reciprocamente. Landi diceva a Demetrio che era folle e infantile il suo comportamento e che prima o poi si sarebbero incontrati. Ferrucci, invece, aveva cercato di capire, aveva parlato con Marco, anche perché, diversamente da Landi, che adesso odiava con astio e acido rancore Marco, nutriva profondo rispetto per Demetrio Piras. Non solo: era andato anche a trovarlo e aveva anche cercato di strappargli, inutilmente, qualche parola. Demetrio era persona di poche parole, faceva quello che doveva fare, lo faceva in silenzio senza discutere; non era vulcanico ed estroverso come Marco, spesso quasi intrattabile, quando era furioso. Così diversi, eppure così vicini per una vita intera. Era bastato un incidente da nulla, il più banale incidente che può capitare in una gara ciclistica, per azzerare tutto quanto costruito in una vita intera. Giovanni e Chapal sapevano tutto di quei due ragazzi e avevano anche loro sofferto quella separazione, quando Marco li volle con sé nella nuova squadra e dovettero lasciare Demetrio, il cui nome da allora sarebbe aleggiato solo come la figura di un fantasma prima di ogni gara.

Marco, mentre in preda alla furia continuava a pedalare in discesa, senza nemmeno sapere dove stesse andando né cosa stesse facendo, ebbe un ricordo di pochi giorni prima di quella partecipazione al Giro dell’Austria. Francesca aveva detto a Demetrio che era in­cinta. Perché quel ricordo? Marco si arrabbiava quando qualcuno gli ricordava che la vita di Demetrio era stata tutta costruita sulla sua e che anche nella carriera di Demetrio lui aveva sempre avuto un ruolo determinante. Eppure forse era vero, anche se Marco non amava ammetterlo. Per lui, per Marco, Marco Benini e Demetrio Piras erano una cosa sola, stavano uno accanto all’altro, in posizione assolutamente paritaria e nessuno doveva permettersi mai di mettere uno dei due davanti all’altro, nemmeno un direttore sportivo. Francesca era una sua vecchia fiamma dei tempi della scuola superiore. A diciassette anni si erano trovati a una festa in una casa di campagna e si erano messi insieme. Ma a Francesca cominciò a stare stretta la vita da atleta di Marco con tutte le sue lunghe assenze e la loro storia finì. Beffarda ironia avrebbe voluto che, con l’intenzione di dire una battuta durante una cena della squadra, quando due compagni notarono che Demetrio non aveva una ragazza, Marco, appena lasciato da Francesca, disse: “Ce ne sarebbe una libera.” E da quella sera Francesca, che aveva da poco rifiutato un atleta, proprio perché atleta, si sarebbe messa con un altro atleta, lo avrebbe sposato e gli avrebbe dato un figlio. Ma a Demetrio Marco aveva sempre permesso tutto. Erano le 8,30. Sarebbe arrivato tardi all’appuntamento fissato dal direttore sportivo per l’allenamento e il ripasso della strategia di gara. Fece inversione improvvisamente con la bici, incurante di un’auto che suonò a lungo il clacson e si diresse all’albergo, dove arrivò con abbondante ritardo e tutti gli occhi puntati addosso. Salì sui rulli, fece alcuni esercizi, si prestò alle cure del massaggiatore e del suo inseparabile Chapal. Nessuno parlò con lui, ma tutti parlavano con quelli che avevano a che fare con lui. Il clima non era quello consueto del pregara. C’era qualcosa di insolitamente nuovo che aleggiava nell’aria e creava un’inquietudine molto particolare, a cui Marco non era avvezzo. Dopo quell’allenamento ci sarebbe stata la riunione, che, per ragioni di riservatezza, si sarebbe tenuta sul pullman, come di consueto.

Mentre Lorenzo Ferrucci parlava e diceva le cose che Marco già sapeva, che lui era il capitano, che le salite erano quattro, che compito della squadra era fare ritmo con rapporti duri per le prime due, con pendenze medie tra il 6% e il 7%, e che nelle ultime due Alexej e Roger sarebbero subentrati agli altri per assottigliare il gruppo e tirare l’attacco di Marco, previsto sull’ultima salita, con pendenza media dell’8% e massima addirittura del 19%; che dallo scollinamento al traguardo ci sarebbero stati 13 km di discesa e poi tre di piano, fino allo strappo finale, gli ultimi micidiali 400 metri con un tratto addirittura al 22%; insomma, mentre il direttore sportivo ricordava la strategia di squadra, Marco non riusciva a non pensare solo a come si sarebbe comportato lui, Demetrio, e a quale strategia su di lui avrebbe costruito la Robocycling di Mattia Landi. Alla fine, dopo essere stato presente solo fisicamente, ma del tutto assente con la testa, Marco serio alzò la voce, dicendo: “Non dire boiate, Lorenzo. Landi non è venuto per vincere; è qua per farcela pagare. E Demetrio doveva far parte della squadra da sempre; ci ha preso tutti per il naso quel farabutto pieno solo di rancore: lo ha iscritto come sostituto all’ultimo momento apposta. Landi è qua solo perché odia me e oggi imposterà la sua gara solo sull’odio per me.” Tutti tacquero e si voltarono verso il divano posteriore del pullman, dove Marco si era seduto isolato da tutti e da cui si era improvvisamente alzato. Sapevano che aveva ragione da vendere. Roger prese la parola: “Lorenzo, dovevi dirglielo. Perché non l’hai fatto?” Marco si alzò. Era rosso dalla collera. Urlò rivolto a Lorenzo Ferrucci: “Non dirmi che lo sapevate tutti e non me l’avete detto!” Un gelido silenzio avvolse il pullman. Giovanni, il capo meccanico, scuoteva la testa: “Hai sbagliato, Lorenzo. E oggi sarà dura. Marco, calmati. Sono cose che nella vita vanno messe in conto.” Era il più anziano. Quando Giovanni parlava, nessuno lo contraddiceva mai. Nella Alberti Costruzioni non era solo il capo meccanico in quei momenti psicologicamente delicati prima della gara; era una specie di padre spirituale. Ma il gelo nell’aria che si respirava in quel pullman era tanto. Solo Roger si muoveva e lo faceva nervosamente. Gli altri erano immobili. Nessuno osava guardare negli occhi un altro. “Ma come si fa a rovinare in questo modo una gara così importante per tutta la stagione!”, disse sempre Roger nel suo italiano ormai quasi perfetto; era l’unico che riusciva a parlare. Chapal scuoteva la testa, ma neanche lui trovava parole. Ferrucci trovò la forza per parlare: “Ho sbagliato. Va bene. Ho sbagliato. Ho sbagliato. Okay. Ho fatto una cazzata. Ma adesso c’è una gara da vincere e Marco è il nostro capitano. Siamo venuti per farlo vincere. La strategia di gara è questa. Non si cambia.”

Lorenzo – intervenne Alexej, che con i suoi 34 anni era il più anziano dei corridori – con Demetrio in gara Marco in salite dure come queste non ce la farà mai. Marco è venuto per vincere, perché sapeva che Piras non era iscritto, ma la sua preparazione non è al livel­lo di quella di Piras ed è la prima gara della stagione in cui è capitano.” Ci fu un lungo si­lenzio. Tutti erano seduti, tranne Roger, che andava avanti e indietro tra le file dei sedili, e Marco, che era in fondo al pullman.

Attaccherò, se riesco a star con lui. Ma in discesa,” disse Marco, dopo quella lunga pausa.

Cosa! Mai tu sei andato completamente fuori di cervello!” urlò Lorenzo Ferrucci, sa­pendo che la discesa era il punto debole di Marco e avendo studiato il meteo con la stessa acribia dei dati planimetrici e altimetrici.

No, Lorenzo, calmati tu adesso e ragiona, per favore,”, disse di nuovo Alexej, men­tre Chapal continuava a scuotere la testa. “Marco ha detto l’unica cosa sensata di oggi. Non c’è più possibilità di vincere sulla salita. Ascoltami: io e Roger ci risparmiamo più che possiamo nella prima parte di gara, cercando di nasconderci nel gruppo; non tiriamo noi; lasciamo fare agli altri; possiamo provare a fare un buon ritmo nelle ultime due salite, quando io e Roger porteremo davanti Marco; e lì si giocherà tutto; Marco non potrà mai staccare Piras in salita; quest’anno Piras va veramente forte; proveremo noi a tenere alto il ritmo; lui è forte, ma la Robocycling non ha uomini in grado di tenere un alto ritmo in sali­ta; Piras potrebbe rimanere senza squadra e forse anche innervosirsi. Poi in discesa l’attac­co di Marco potrebbe essere la sorpresa anche per lui; nemmeno Piras è forte in discesa, non dimentichiamolo. Per la prima volta intervenne Chapal, il fisioterapista: “Ho seguito molto Marco nella preparazione invernale, come sapete. Marco è migliorato molto in di­scesa.” Aveva detto una bugia, ma una bugia molto utile in quel momento, in cui la testa doveva essere più importante della gamba, in cui l’approccio mentale alla gara diventava più importante di quello fisico, in cui la particolare spiritualità indiana di un fisioterapista avrebbe potuto forse fare la differenza, per risolvere una tensione nervosa assolutamente imprevista alla vigilia. Bisognava fare quadrato attorno al capitano. Marco in quel momento si sentiva più vicino a lui che a Ferrucci. Attraversò tutto il pullman, fino a trovarsi davanti dove erano Lorenzo, Giovanni e Chapal. Lorenzo Ferrucci e Giovanni iniziarono a parlare di dettagli tecnici delle bici. Lo sguardo di Chapal incontrò quello di Marco che, senza il permesso di Lorenzo, stava uscendo dal pullman. Chapal lo seguì fuori. Le foschia del mattino si stava diradando, ma il cielo restava coperto di nubi. Nella riunione Lorenzo aveva detto che la probabilità di pioggia sarebbe stata alta per tutta la durata della gara.

Lo sai che non è così che si fa l’approccio a una gara, Marco, vero?”

Lo so.” Aveva le lacrime agli occhi, segno di quanto alte erano in lui la tensione nervosa e l’ansia. Chapal gli mise una mano sulle spalle e gli fece fare esercizi di respirazione. “Non sarà facile per te oggi, Marco.”

Doveva succedere prima o poi. Il nostro mondo è questo e tutto sommato è anche un piccolo mondo. Evitarsi in eterno era impossibile.”

Non vi siete mai più sentiti da allora? Proprio mai?”

Mai.” Marco si sedette su una panchina. Chapal si sedette accanto a lui. “Dai, parliamo un po’. Come vi siete conosciuti?”

All’asilo. Siamo stati quasi fratelli, più che amici, fino a quel maledetto giorno.”

Se ti va di parlarne, mi fa piacere. Forse ti può far bene parlarne. La polvere non si nasconde sotto il tappeto.”

Questa non è filosofia indiana. Lo diceva anche mia mamma,” ribatté Marco, ritrovando un po’ di serenità. Poi accavallò la destra sulla sinistra, portò le braccia all’indietro, appoggiò sulle mani la nuca, chiuse gli occhi, piegò la testa all’indietro, tirò un profondo sospiro e iniziò a raccontare. C’era ancora un’ora prima della partenza. Due curve più in alto, lungo la strada principale del paese, c’era l’albergo fuori del quale era parcheggiato il pullman della Robocycling. Marco pensò che forse là dentro Mattia Landi stava dando sfogo a tutta la sua vecchia acidità contro di lui nell’illustrare la sua strategia di gara. Landi era veramente bravo nel suo mestiere, aveva la cattiveria giusta che in quel mondo serve per vincere e, se la tirava fuori tutta, lo faceva per una sola ragione: perché sapeva che era venuto solo per vincere. Del fatto che gli atleti hanno un’anima e un passato a lui non era mai interessato nulla e quel fatidico giorno di sei anni prima lo aveva pienamente dimostrato. Ma come direttore sportivo era il più bravo che Marco avesse avuto.

Demetrio era figlio di un portuale. La mamma era alcolista e si era separata dal babbo lasciandolo solo con il figlio e con problemi economici. Sparì nel nulla quella donna, di cui nulla si seppe più. Il babbo di Demetrio fu costretto a mettere il figlio in un costoso asilo privato e poi anche alle elementari, per poterlo riprendere quando usciva dal lavoro, non potendo contare su aiuti e non potendoseli nemmeno permettere. Per noi bambini era una presenza sicuramente diversa quella di Demetrio. Quasi tutti appartenevamo a famiglie benestanti. Rari erano in quell’istituto privato, che aveva scuola dell’infanzia ed elementari, i casi di figli di operai o portuali. Ma la scuola si trovava per il babbo di Demetrio proprio sulla strada che portava al porto e per lui era comoda anche per quella ragione. Ma gli adulti guardano a queste cose, non i bambini. Demetrio veniva spesso a casa mia. Mio babbo aveva saputo del fatto che viveva solo con il suo e lo invitava spesso. Il babbo di Demetrio poté anche accettare un incarico meglio retribuito, che però prevedeva turni di notte. Mio babbo gli disse che Demetrio avrebbe potuto tranquillamente rimanere a dormire a casa nostra e per me, ultimo di quattro figli e con tre sorelle femmine, avere un amico con cui giocare fu bellissimo. Per questo, non a caso, Chapal, ti ho detto che io e Demetrio, più che amici, eravamo quasi fratelli.”

Bella questa storia. Amicizia fraterna. Va’ avanti, Marco,”, disse Chapal, che aveva capito di aver fatto bene a far parlare Marco.

Una storia di amicizia fraterna. Hai detto bene. A casa mia Demetrio vedeva ogni ben di Dio, che a casa sua non avrebbe mai visto. Mio babbo, come tu sai, è titolare di una grande  azienda nel settore agroindustriale. La nostra famiglia era agli antipodi rispetto a quella di Demetrio. Agli antipodi in tutti i sensi.”

Intendi dire anche come visione del mondo?”

Sì, anche come visione del mondo. Il babbo di Demetrio aveva in corpo una rabbia repressa, che si manifestava anche nelle sue idee politiche, sempre espresse in modo radicale ed estremo. Era sindacalista combattivo e militante dell’estrema sinistra. Uomo da battaglia, sempre candidato nelle elezioni amministrative, ma mai eletto; sempre in prima fila in piazza, ma quasi relagato dal destino sempre all’ultimo posto nella scala sociale. Eppure mio babbo prima, io poi, nonostante le enormi differenze abbiamo sempre nutrito rispetto per quella persona per la quale la vita era stata così difficile. Era figlio di immigrati sardi, colpiti dalla chiusura delle miniere, rimasti con un pugno di mosche in mano e costretti a cercare fortuna nel nord. Aveva avuto la sfortuna dell’etilismo della moglie, che, divenuto cronico, l’aveva ridotta a una parvenza di essere umano; dopo la nascita dell’unico figlio, era sparita nel nulla. Nessuno aveva mai più saputo nulla di lei. Si ipotizzò un suicidio, che era ed è tuttora la più probabile tra le ipotesi, ma non è mai stato trovato il corpo. Fatto sta che il bambino non poté che essere affidato al babbo. I miei genitori furono molto bravi. Non ebbero mai atteggiamento paternalistico nei suoi confronti. Mia mamma veniva da una famiglia molto semplice di militari. Mio babbo aveva creato una grande azienda quasi dal nulla, con la voglia di lavorare e rimboccarsi le maniche e anche con quel pizzico di fortuna, che nella vita spesso fa la differenza.”

Fortuna audaces iuvat,” lo interruppe Chapal.

Neanche questo mi sembra faccia parte della filosofia indiana.”

No, infatti,” rise Chapal, contribuendo ad allentare ulteriormente quella tensione che prima nel pullman era salita davvero troppo. Lorenzo Ferrucci, che stava ancora parlando con Giovanni delle biciclette, dei rapporti e di altri aspetti tecnici e con i preparatori della dieta in gara, da dentro il pullman osservava i due che stavano parlando seduti sulla panchina. Aveva da tempo capito che Chapal non era solo un fisioterapista, ma aveva un ascendente sugli atleti e su Marco in particolare, che in certi momenti era importante, talvolta addirittura determinante. Ci sapeva fare quel ragazzo e in quei momenti capiva perché Marco avesse insistito per avere quei due collaboratori con sé, quando fu costretto a cambiare squadra: Giovanni era non solo il meccanico, ma anche l’anziano ex corridore saggio ed esperto; Chapal era non solo il fisioterapista, ma una sorta di motivatore, dotato di una singolare capacità di ascoltare e di creare il clima opportuno nella squadra prima di ogni appuntamento importante della stagione. Il cielo nel frattempo si stava oscurando e la minaccia della pioggia si faceva sempre più concreta.

Fu mio babbo, che era ciclista a livello amatoriale, a capire che il ciclismo sarebbe stato un possibile riscatto per Demetrio. A otto anni eravamo già tutti e due atleti in una squadra. Presto sarebbe iniziato il percorso nelle categorie juniores. Demetrio era sempre il più forte. A me piaceva divertirmi. A lui piaceva vincere. Quando saremmo stati più grandi, avrei capito che era giusto che fosse così.”

Hai detto una cosa bella.”

Non lo dicevo solo io. Lo pensava mio babbo. Voleva veramente molto bene a Demetrio. A diciassette anni eravamo già in quella squadra, la Juke Gelati, che poi sarebbe fallita e che si sarebbe ripresa con il nome di Robocycling grazie proprio al denaro e agli sponsor che in extremis trovò proprio mio babbo a San Marino. Partecipare alle riunioni e sentire i sammarinesi dello staff dirigenziale che parlavano di noi italiani come stranieri faceva una strana impressione. Ma così era. Mio babbo ha sempre sostenuto di aver fatto tutto alla luce del sole. Molti hanno messo in giro invece delle calunnie solo per il fatto che gli sponsor non erano stati trovati in Italia, ma a San Marino. Solo le vittorie avrebbero messo a tacere le malelingue. E così fu. Demetrio era forte in salita e su di lui si puntava per i successi nelle grandi corse a tappe; io invece ero quello più adatto alle lunghe e massacranti gare di un giorno da 250 e passa chilometri; ma, se mi impegnavo e trovavo l’aiuto giusto nella squadra, ero forte anche in volata. Solo dopo, grazie a Demetrio, insieme al quale mi allenavo sempre, avrei acquisito una certa sicurezza e resistenza anche in salite più dure e impegnative di quelle generalmente più brevi delle gare di un giorno. E così diventai piano piano l’ultimo uomo nelle grandi salite. Tra me e Demetrio non c’era bisogno di parole. Quando vedevo che si alzava sui pedali, sapevo che quello era il segnale: ‘vai, Marco; adesso tocca a te, poi parto e li faccio secchi.’ Lo disse una sola volta. Avevamo diciotto anni. Poi non ebbe più bisogno di dirlo.”

Ma quando tu vincesti l’europeo juniores di Zurigo a diciotto anni, andò tutto a rovescio …”, intervenne Chapal.

Faceva parte del gioco. Era una gara lunga di un giorno. Nel finale c’era uno strappo duro. Percorso ideale per me. In sette staccammo il gruppo e partimmo appena la strada iniziò salire. Demetrio a un certo punto salì sui pedali e iniziò a fare un ritmo pazzesco, come solo lui in salita avrebbe potuto fare. Era il segnale. Mi stava preparando. Attaccò la salita a un ritmo infernale. Non fu facile staccare gli altri cinque. Ma in cima arrivammo solo noi due. Lui era stremato. Arrivato in cima, urlò: ‘Vai!’ E si piantò senza fiato. Potevo solo perdere a quel punto.”

Ricordo la giornata e ricordo anche quello che fece Landi.”

Marco non commentò il riferimento di Chapal al fatto che il suo direttore sportivo si era complimentato prima con Demetrio che con lui, il vincitore. A lui non importava se Landi era fatto così. La sua amicizia con Demetrio era qualcosa che Landi mai avrebbe potuto capire, anche se avesse voluto, e per questo ben al di sopra di queste piccolezze.

Della vostra carriera sportiva so tutto. Non c’è bisogno che me ne parli. Mi interessa sapere qualcosa della vostra amicizia in privato.”

Non c’è tanto da dire. La nostra vita privata, da quando siamo passati prima in under 23 poi in élite, è stata sempre molto ristretta. Ti ho già detto di Francesca e del suo matrimonio. L’unica cosa da dire è il dispiacere che mio babbo ha avuto, quando è successo l’episodio del Giro dell’Austria. Per lui era inimmaginabile che io e Demetrio, per lui quasi un quinto figlio, potessimo trovarci non solo separati nella vita, ma addirittura avversari. Del babbo di Demetrio so che pianse addirittura quando seppe dell’accaduto.”

Per Landi forse voi due non eravate diventati solo avversari, ma persino nemici.”

Non si dovrebbe mai usare quella parola, ma forse hai ragione, Chapal.”

Arrivò un’improvvisa folata di vento e le nubi d’un tratto si abbassarono. “Se dovesse piovere, hai sempre intenzione di attaccare in discesa?” chiese Chapal.

Vedremo. Credo sempre fino a un certo punto alle strategie di Lorenzo, ma è lui che deve decidere.”

Ma lui non è di quelli come Landi che le cambiano spesso in gara.”

In questo Landi è sicuramente più flessibile. Posso dire in confidenza con te che è anche più bravo?”

Fa parte della sua cattiveria. La cattiveria può essere una componente agonistica buona nella pratica sportiva.”

Landi non ha intelligenza sufficiente per distinguere. Lui decide in base a premi e compensi. La sua bontà e la sua cattiveria sono sempre strettamente proporzionali all’entità dei premi.”

Del resto è il vostro mestiere. Il dilettante può permettersi di ragionare come dicevi che ragionavi tu nel confronto con Demetrio, quando mi hai detto che lui correva per vincere e tu per divertirti. Adesso correte tutti e due per vincere e non siete più compagni di squadra. Visto che ti sei calmato, mi permetti una domanda impertinente?”

Spara.”

E se dovesse mai succedere che voi due vi trovaste da soli sull’ultima salita?”

Impossibile.”

Invece è possibilissimo, visto il quadro dei concorrenti e la mancanza di altri scalatori, almeno sulla carta, forti come voi due. Assolutamente possibilissimo. E mi rifiuto di credere che tu non ti sia arrabbiato proprio perché sai che è cosa possibilissima.”

Hai detto bene: ‘almeno sulla carta’. Potrà piovere, sarà sicuramente freddo, il fondo stradale sarà a tratti bagnato o addirittura tutto bagnato. Ma lo sarà per tutti. Insomma, si creeranno delle condizioni molto particolari oggi, che metteranno a dura prova i direttori sportivi come Ferrucci poco flessibili e poco propensi a cambiare strategia a gara iniziata. Non credo che succederà.”

Ma se succedesse?”

Credo che ognuno onorerà la maglia che indossa. Siamo professionisti o no?” Chapal si accontentò di quella risposta banale e diplomatica e si limitò a un sorriso ironico. Aveva altre idee in proposito e ben altri erano gli scenari che si prefigurava. Ma preferì tacere. Cadde la prima goccia d’acqua, proprio quando Ferrucci iniziò a chiamare i corridori, che ritirarono dai meccanici le bici. Per ultimo arrivò Marco. Era l’unico che non aveva indossato l’antipioggia. L’unico che non aveva manicotti. E tutta la squadra urlò, come di consueto, quando arrivò insieme a Chapal e lo esortò a gran voce. Alexej e Roger, che avrebbero avuto un ruolo particolare quel giorno, lo abbracciarono con forza. Per ultimo Giovanni, nel consegnargli la bici, gli chiese: “Avevi già deciso prima di attaccare in discesa, quando mi hai chiesto di montare l’11 dietro. Dimmi la verità! Non mi freghi. Ti conosco da troppo tempo, Marco.”

Marco lo guardò fisso negli occhi. “Se ti dicessi di no, non mi crederesti.”

Marco, sta’ attento. Non fare stronzate! Oggi non scherza il meteo.”

Saprò gestirmi, come ho sempre fatto.”

No, oggi non è una giornata come tutte le altre, Marco. Ho paura che tu stia facendo un errore enorme. Pensa a correre e, se possibile, a vincere per te e per la squadra. Siamo venuti per vincere, è vero. Ma una corsa non è una vita. Ce ne saranno tante altre.”

Marco salì in sella e seguito dalla sua squadra aprì la passerella della cerimonia della firma, mentre lo speaker scandiva ad alta voce: “La prima squadra è la Alberti Costruzioni, capitano Marco Benini, Alexej Darumov, Roger Demaire, Pierluigi Emidi, Giammattia Mazzoni, Luigi Montalti, Viktor Stepanenko, Isaias Tekonda”. Marco non vide la Robocycling. Non volle guardare. Si posizionò sulla linea di partenza ed ebbe un sussulto solo quando lo speaker presentò la Robocycling: “Terzultima squadra iscritta è la Robocycling, capitano Demetrio Piras.” Non volle guardare. Non volle nemmeno pensare cosa stesse accadendo nell’animo di Demetrio. Cercò la concentrazione, consapevole di quelle parole che gli aveva appena detto Giovanni, che quella non era ‘una giornata come tutte le altre’. Non era facile trattenersi. La tentazione di voltarsi e di cercare Demetrio era forte. Ma quei silenzi, che con il passare degli anni si erano tramutati in paura, pesavano e con i silenzi e la paura era subentrata in Marco anche la colpa di non aver insistito nel cercare l’amico. Tanto avvolgente era il rapporto che si era creato tra loro due. Eppure, prima o poi i loro sguardi si sarebbero dovuti incrociare. La giornata sarebbe stata lunga. L’ammiraglia della Alberti Costruzioni, guidata da Lorenzo Ferrucci era la prima della lunga fila. Una seconda auto era nella parte terminale dei mezzi al seguito. Marco disse a tutta la squadra di controllare che il collegamento radio con l’ammiraglia funzionasse. Tutti gli diedero l’okay, tranne l’eritreo Tekonda, che poi risolse il problema. Il direttore di gara, prima di salire in auto si complimentò con Marco come vincitore della precedente edizione e gli disse: “Sarà dura oggi. In bocca al lupo! Attenti alla strada se piove, ragazzi. Non fate cazzate.” Per il momento piovigginava a tratti e la strada non era ancora bagnata. Il sindaco del paese volle dare, come da tradizione, la simbolica partenza sventolando la bandierina. L’inizio vero della gara, il km 0, sarebbe stato due chilometri fuori del paese, dopo una passerella in cui i corridori si sarebbero prestati per foto e video dei tifosi. L’organizzazione sapeva quanto le società sportive e soprattutto i loro sponsor tenessero a quei momenti di pubblicità. Oltretutto la località di arrivò non distava molto da quella di partenza e quindi tante di quelle persone che erano presenti alla partenza sarebbero state all’arrivo, sul terribile strappo finale di 400 m, o sull’ultima lunga e difficile salita, resa ancor più impegnativa dal fatto di essere la quarta di una giornata, che prima ne prevedeva una terza non molto diversa come dati e come altimetrie. Al km 0 la strategia di Ferrucci prevedeva di mescolarsi nella ‘pancia’ del gruppo e di non farsi vedere troppo attivi. Così fece anche la Robocycling. Partì subito una fuga in cerca di gloria. Erano quattordici corridori. La Robocycling ne aveva piazzato uno. La Alberti Costruzioni nessuno. Erano stati sorpresi. Primo errore. Prima falla nei piani di Ferrucci. Primo segnale di quanto attenta era stata la preparazione di Mattia Landi. Via radio Marco chiese come comportarsi con la fuga. “Non si cambia quanto deciso,” fu la categorica risposta di Ferrucci. Ora tutti i ruoli erano cambiati. A tavola, in pullman, in allenamento Marco, come capitano, poteva prendersi anche delle libertà con il suo direttore sportivo, ma in gara sapeva che era un piccolo dittatore, che non amava essere contraddetto. Eppure era chiaro che qualcosa non stava andando come previsto, quando dal gruppo partì un secondo gruppetto alla caccia dei fuggitivi. Di questo gruppetto facevano parte due corridori della Robocycling. Landi stava pianificando tutto chilometro per chilometro. Ferrucci restava alla finestra. Demetrio non si faceva vedere, rimanendo sempre attorniato da quattro compagni rimasti con lui. Marco, cui era stato detto di stare in fondo al gruppo con tutti i suoi, lo aveva intravisto da dietro più volte. Parlava spesso alla radio. Landi era molto attivo, evidentemente. Marco si chiedeva il perché dell’attendismo di Ferrucci, ma sapeva che non amava essere chiamato per discutere strategie di gara. Nella prima salita la fuga aveva raggiunto un vantaggio di quasi sei minuti. Il secondo gruppetto di otto non aveva trovato accordo e piano piano era stato ripreso dal gruppo, grazie anche anche alla mancanza di collaborazione dei due della Robocycling. Nella seconda salita non successe nulla e la situazione rimase stazionaria con il gruppo guidato dalla formazione tedesca della BTW-Plastik, che manteneva sempre un ritmo costante, evidentemente con qualche intenzione di scombinare i pronostici, tutti per la coppia Benini-Piras. Aveva buoni scalatori anche la BTW-Plastik, soprattutto il colombiano Anton Felipe Gutierrez, capitano in quell’occasione, che aveva dimostrato di essere in una buona condizione di forma in quel finale di stagione. E da buoni professionisti erano venuti per giocare le loro carte. Per le altre squadre le possibilità erano essenzialmente legate a piazzamenti e buone prestazioni in un tracciato così selettivo. Ma le incognite erano sempre tante e tutti erano lì pronti ad approfittare di qualsiasi situazione, che si rivelasse favorevole.

La gara iniziò all’attacco della terza salita, come Ferrucci aveva previsto. Quelli della BTW-Plastik aumentarono il ritmo e fecero tante vittime. Alla fine della terza salita degli otto della squadra tedesca ne erano rimasti ancora sei. Della Robocycling con Demetrio ne erano rimasti cinque, contro ogni previsione, mentre Marco aveva solo Alexej Darumov; nemmeno Roger Demaire aveva retto a quel ritmo forsennato che avevano fatto i BTW. Marco chiedeva notizie di Roger. Aveva assolutamente bisogno della forza più giovane di Roger sull’ultima salita. Ferrucci diceva di aspettare. Li avrebbe ripresi in discesa. Ma la pioggia, seppure ancora debole, aveva reso la strada bagnata ed era difficile recuperare in quelle condizioni. Landi aveva previsto tutto. Forse la BTW era addirittura stata contattata. Forse addirittura qualcuno aveva fatto delle promesse. Landi ne era capace. Per lui il fine giustifica sempre il mezzo e nessuno lo aveva mai pizzicato con le mani nella marmellata. Comunque fosse, i piani di Ferrucci erano completamente saltati. Marco era nervoso. Riceveva pressanti incoraggiamenti. “Fanculo” gli scappò ad alta voce, ma a microfono spento, pensando al fatto che Demetrio aveva ancora con sé ben quattro uomini di quella squadra che era stata definita scarsa, mentre lui aveva solo il trentaquattrenne Darumov, che era già notevolmente appesantito nella pedalata, a causa del ritmo che i BTW avevano imposto. Nella discesa, come previsto, i Robocycling presero in mano la situazione. Ai fuggitivi, rimasti solo in quattro e molto provati, all’attacco dell’ultima salita restavano poco meno di due minuti di vantaggio. Non avevano speranza alcuna. La Robocycling impose subito il ritmo, perdendo un uomo che era arrivato stremato alla fine della discesa precedente. Demetrio poteva contare ancora su tre compagni ed erano carichi e agguerriti. Landi non era venuto per fare una passeggiata. Ormai era chiaro. E la sua strategia per il momento si stava rivelando perfetta in ogni particolare. Marco, su disposizione di Ferrucci, restava in coda al gruppo dei migliori con Alexej in attesa del promesso ricongiungimento di Roger, che non sarebbe mai avvenuto, perché il suo gruppo era dato da radio corsa a ben quattro minuti dal loro e con un ritmo di pedalata decisamente inferiore. Avrebbero perso ulteriormente. Un secondo “Fanculo” partì ad alta voce, quando Marco ebbe la notizia del distacco di Roger. Questa volta il suo nervosismo non passò inosservato. Accanto aveva Demetrio.

Fu di un attimo l’incrocio di sguardi. Non ci fu espressione nel volto, ma gli occhi era come se avessero parlato senza parole. Quello sguardo di Demetrio fu come una sciabolata per Marco, già nervoso e su cui, praticamente senza più squadra, gravava ormai una responsabilità al di sopra delle sue possibilità. In quello sguardo Marco avvertì una sorta di ammonimento. ‘Attento che adesso attacco. Landi mi ha mandato qua non certo a salutarti, ma solo a punirti.’ Era sicuramente così. Il gruppetto era ridotto a non più di una ventina di atleti e i quattro fuggitivi con quel ritmo imposto dagli uomini della Robocycling furono presto ripresi. Alexej fece segno che era al limite e si staccò. Ferrucci via radio continuava a dire che tutto andava bene. ‘Fanculo’ per la terza volta disse Marco, rimasto solo, senza uomini, a microfono spento. La Alberti Costruzioni era già sconfitta come squadra. Ora tutto era sulle sue spalle, sulle sue gambe appesantite dall’ansia e dal nervoso, sulla sua testa ingombra di un passato che pesava come un macigno. A cinque chilometri dallo scollinamento dell’ultima salita, nel tratto con le pendenze pià cattive, quando l’ultimo uomo della Robocycling finì di fare il suo lavoro e diede il segnale convenuto, Demetrio parlò alla radio e poi con quel suo micidiale scatto secco che Marco bene conosceva partì, staccando tutti. “Vallo a prendere, cazzo!”, urlò Ferrucci via radio. Marco la spense definitivamente. Si portò davanti a ciò che rimaneva del gruppetto dei migliori. La salita era veramente di quelle cattive, ma Gutierrez resisteva bene con due uomini della sua BTW-Plastik. Quei cinque chilometri furono un’odissea di dolore. Marco non fece scatti. Non era il suo stile. Andò su di ritmo regolare. Gutierrez perse i due uomini, gli altri corridori uno alla volta persero contatto e restarono in due all’inseguimento di Demetrio. Radio corsa lo dava con un minuto di vantaggio a quattro chilometri dalla fine della salita. Marco chiese l’ammiraglia. La direzione corsa autorizzò l’intervento e Ferrucci si accostò a Marco, ma fu dal finestrino posteriore che Giovanni disse: “Marco, non fare idiozie. Le cose non sono andate come previsto. Non insistere. Vai del tuo passo.” Era cambiato il direttore sportivo? Ferrucci taceva, ma diede una borraccia a Marco. Proprio in quel momento arrivò la pioggia vera, quella battente, che avrebbe reso una follia l’attacco in discesa, che Marco aveva pianificato. “Fanculo!”, questa volta sentirono tutti molto bene e la tensione nervosa di Marco era palese. Avrebbe voluto avere Chapal, ma era sulla seconda auto in fondo. Avrebbe voluto raccontargli tante di quelle cose che in quei quattro chilometri rivisse.

L’ammiraglia della Alberti Costruzioni si avvicinò di nuovo a Marco. Lorenzo Ferrucci continuava inutilmente a incitare e gli diede da mangiare; gli gridava che si liberasse di Gutierrez e andasse a prendere Demetrio. Dietro di lui Giovanni ora taceva. Aveva già detto quello che doveva dire. Marco non ascoltava più. Andava su di regolarità. La sua mente era precipitata indietro. Vedeva due bambini che correvano felici, con la stessa divisa della società che li aveva visti crescere e farsi uomini. Vedeva le serate insieme con gli amici. Vedeva le ragazze che lui, Marco, puntava sempre spavaldo, mentre il più timido Demetrio se ne restava sempre in disparte. Vedeva la gioia di quando il babbo li veniva a prendere insieme e li portava a casa sua tutti e due in attesa che il babbo di Demetrio arrivasse a prenderlo. Vedeva le cene con i tre genitori e quelle interminabili discussioni di politica, che partivano sempre dalla tensione appassionata dell’opposta visione di fondo e arrivavano sempre a una risolutiva partita a carte e a un abbraccio nel momento del saluto sulla porta di casa. Non riusciva a pensare di avere un avversario là davanti da prendere. Aveva un amico che aveva abbandonato. Aveva una grande persona a cui per anni aveva voluto un bene dell’anima. Aveva un fratello che un terribile senso di colpa dopo anni di colpevole silenzio avvolgevano in un alone di colpevole paura. Con quell’ansia non poteva prenderlo. Il distacco, infatti, stava aumentando. Tre chilometri allo scollinamento: un minuto e mezzo. Gutierrez era un’inespressiva maschera di ghiaccio. Ogni tanto gli si affiancava, per far sentire la sua presenza, ma, non appena Marco allungava, perdeva subito qualche metro: segno che era forte, ma non aveva la gamba per attaccare, o pretattica? L’ammiraglia della BTW-Plastik si portava al suo fianco e lo nutriva con insistenza, incoraggiandolo a provare l’attacco. Ma Marco era convinto che non ne avesse più e che presto si sarebbe staccato anche lui. Eppure restava lì. E quella presenza gelida dava fastidio, aumentava il sentimento di ansia e rendeva meno fluida la pedalata, quando le pendenze diventavano di quelle serie e avrebbero richiesto più concentrazione. Dentro l’ammiraglia si viveva un’altra storia, si faceva il bilancio di una stagione partita con pochi successi mancati sempre per un soffio e con quell’ultima possibilità di raddrizzare una situazione ben diversa da quella prevista all’inizio. La decisione di puntare su Roger Demaire in alcune gare all’estero era stata un fallimento; avrebbero dovuto puntare di più su Marco, costretto spesso a far da gregario in gare in cui avrebbe potuto essere protagonista. Poi sono arrivate le grandi corse a tappe. Marco avrebbe potuto dare grandi soddisfazioni, ma decise di partecipare solo a quella in cui Demetrio sicuramente non avrebbe mai partecipato. Aveva ottenuto delle vittorie di tappa, era stato il primo della generale per tanti giorni, ma nel finale, non adatto a quel genere di gara, non aveva retto alla maggiore resistenza degli avversari e aveva perso in un giorno ben dieci posizioni. Ferrucci aveva puntato tutto su quella gara di fine stagione, ma nulla era andato secondo le previsioni. L’iscrizione a sorpresa di Demetrio, reduce da una serie di successi importanti in quella stagione e assolutamente imbattibile in salita, aveva scombinato tutti i piani della squadra. Lo sponsor era molto alterato. Il presidente della società sportiva ancora di più, perché la mancanza di introiti e di premi rischiava di provocare la non conferma dello sponsor. Tutti erano tesi, perché sapevano di essere all’ultima possibilità. Tutti avevano una pressione che provocava ansia, chi per questioni finanziarie e societarie, chi per questioni sportive, chi per questioni personali. Marco era là davanti, il primo degli inseguitori, ed era l’unico su cui tutte queste pressioni in quel momento si accumulavano e pesavano davvero tantissimo.

Quante volte avrebbe voluto chiamare Demetrio! Lo aveva ringraziato dopo quell’episodio del Giro dell’Austria, che era costato a Marco l’allontanamento dalla Robocycling. Non si era comportato come Landi. Non meritava di essere allontanato così brutalmente da una vita in cui fino a quel momento non era stato solo un amico, ma spesso proprio il protagonista. Marco pensava a tante cose, tranne che a quella maledetta e cattiva salita. Poi a un tratto apparve Francesca, la ragazza amata, l’unica ragazza che avesse avuto un ruolo non occasionale nella vita di Marco, che aveva amato di vera passione. Erano loro tre seduti al tavolo di un ristorante. Erano all’aperto in campagna. Francesca e Demetrio si erano da poco sposati e Francesca pronunciò una frase che rimase impressa in Marco: “La vostra vita è fatta di traguardi e conquiste di premi. Mi sento per voi come il premio cui ambiva uno, ma che, per uno di quei beffardi imprevisti della vita, ha vinto l’altro. Vi auguro di conservare questa bellissima amicizia che vi lega e di non essere mai avversari nella vita.” Marco e Demetrio si erano guardati negli occhi dopo quelle parole inattese. E tutti e due si chiesero che significato potessero avere e a cosa pensasse veramente Francesca in quel momento e con quel riferimento al premio. Adesso Marco aveva tutto chiaro. Erano avversari. Ma a fine stagione, in tempo di bilanci, di riscatti e di rivalse, non si è più solo avversari: si rischia di essere nemici. Da una parte una squadra che ha vinto tutto, che arriva con il vento in poppa dei pronostici e che vuole giocare l’arrogante ruolo del pigliatutto con lo stratagemma dell’iscrizione all’ultimo momento dell’uomo più forte in salita, dall’altra una squadra che è in chiara crisi di risultati, dopo aver vissuto tre stagioni rosee e gratificanti. Da una parte Demetrio con la mentalità del vincente e sul terreno più adatto alle sue caratteristiche; dall’altra Marco con quella del costretto a vincere e su un terreno non adatto e non propriamente ideale per le sue caratteristiche.

Due chilometri. Il distacco era di 1,35. In un chilometro aveva perso solo cinque secondi: o anche lui inizia a sentire la fatica, o fa pretattica, o rende bene la regolarità che mi sono imposto, pensava Marco. Proprio in quel momento Gutierrez tentò lo scatto che Marco mai avrebbe ritenuto possibile. Non trovò la forza di reagire, la bici rimase come inchiodata all’asfalto dopo quella fucilata del colombiano di tre pedalate secche. Aveva sentito lo scatto del cambio nella bici di Gutierrez dietro la sua: due pignoni in su o in giù? Montava un classicissimo 53-39 davanti e, approfittando di un tratto piano dopo due strappi durissimi, era sceso di due pignoni dietro e aveva montato il deragliatore sul 53 davanti. Non importava dove avesse la catena dietro: era la forza che riusciva a imprimere su quel 53 davanti che scoraggiava. In tre pedalate gli aveva dato quasi 50 m. “Vai di regolarità e riprendilo con calma. Regolarità, Marco. Regolarità,” era Giovanni questa volta che parlava dal finestrino dell’ammiraglia tornata per l’ennesima volta al suo fianco. Ferrucci gli diede un gel da mangiare. Marco ne mangiò nervosamente solo una metà. Il resto lo gettò con stizza sul cofano dell’auto. Non andava. Le spalle andavano a destra e a sinistra. Le pedalata era scomposta. Marco di solito era sempre bellissimo da vedere in sella; il suo stile era sempre impeccabile nella posizione, anche sotto sforzo. Così Ferrucci non lo aveva mai visto. Così avrebbe perso solo altri minuti. L’attacco di Gutierrez, la sfinge che sembrava in crisi e che faceva invece solo pretattica, era stato un colpo troppo duro. “Vai, vai, Marco.” Era sempre la voce di Giovanni.

Marco pensava a Francesca e alle sue parole. Il premio. Marco sapeva che quella vita era tutta un premio e finalizzata al premio. Marco aveva Demetrio davanti a sé sulla strada, dentro di sé nell’anima, attorno a sé nella vita. Demetrio era ovunque in quel momento e non era un avversario. No. Non poteva mai essere un avversario. Questo era il senso delle parole di Francesca. Ma bisognava dirglielo. Marco sentiva di doverglielo assolutamente dire. La pioggia continuava, meno battente, ma sempre incessante. Ecco il significato di quello sguardo di Demetrio, quando, prima di attaccare, gli si era messo a fianco. Non lo aveva fatto per tutta la gara. Si erano tenuti rigorosamente l’uno distante dall’altro dalla partenza e per tutta la durata delle prime salite. Ultimo chilometro: le pendenze più dure erano alle spalle; da lì allo scollinamento non si superava il 5%. Marco iniziò a spingere. Ritrovò in fondo al barile una scorta di forza e riprese subito Gutierrez. Arrivarono in vista di quello che in una corsa a tappe sarebbe stato un gran premio della montagna e lì era solo un traguardo a premi. Gutierrez volle la volata per il secondo posto. Marco gliela concesse. Ma appena iniziato lo scollinamento, montò l’11 dietro e avvertì tutta la forza di quella parte buona della cattiveria e incurante della pioggia, incurante del pericolo, incurante della strada bagnata partì a tutta, sorprendendo Gutierrez, che perse subito terreno e, innervosito, da quell’inatteso attacco in discesa, sbagliava le traiettorie e perdeva secondi preziosi a ogni curva. Marco andava fortissimo. Aveva il perfetto controllo del mezzo. Nell’ammiraglia che lo seguiva erano preoccupati. Nessuno parlava. Ferrucci era bianco in viso. Giovanni cercava di tranquillizzarlo dicendogli che Marco sapeva quello che faceva. Ma la velocità con cui aveva preso quella discesa era da folli. Marco era folle. Folle, completamente folle. Doveva chiarire anni di silenzio, doveva riprendere Demetrio. Doveva dare un significato alla parola premio che solo loro due avrebbero capito. Demetrio era il premio della sua vita. Da sempre. Non lo avrebbe capito Ferrucci, non lo avrebbe capito Giovanni, non lo avrebbe capito Landi che era nell’auto che seguiva Demetrio e che separava i due in quel momento. La moto del servizio radio corsa tramite lavagna comunicò a Marco a metà della lunga discesa di ben 13 km che il distacco era sceso a 1,05; aveva guadagnato trenta secondi. Demetrio non amava le discese. Era sul bagnato. Sapeva che aveva un discreto margine per vincere e non rischiava. Marco giocava solo di testa e di tattica. Lui, là davanti, sa che con la strada bagnata nessuno attaccherebbe in discesa, perciò la mia unica possibilità e fare quello che lui non pensa e non prevede. Demetrio scenderà con la bici sicuramente frenata, per gestire il vantaggio, pensava Marco che rischiava il tutto per tutto. Alla fine della discesa Marco aveva guadagnato addirittura altri 40 secondi: 25 secondi di vantaggio vennero comunicati dalle moto di servizio ai due. Gutierrez aveva sbagliato due curve ed era caduto due volte. Era fuori dai giochi ed era stato ripreso dal resto del gruppetto che aveva attaccato l’ultima salita. Marco era nel tratto di fondovalle, quasi pianeggiante, un falsopiano in cui aveva trovato il suo terreno migliore. Lì era lui quello imbattibile. Aveva fatto montare un rapporto durissimo. Demetrio non era capace di spingere con quella potenza e non aveva l’11 dietro, con cui si sarebbe potuto difendere da quell’attacco. Marco non pensava a niente. Pensava solo al premio che lo aspettava. E aveva trovato una forza incredibile. Non pioveva più. 53/11 e spingere, spingere, spingere! Ogni tanto le nubi addirittura si aprivano. 15 secondi venne scritto con il gesso sulla lavagna. Se non fosse per le curve lo avrebbe visto. E infatti, appena la strada ebbe un rettilineo vide il rosso fiammante dell’ammiraglia della Robocycling, che era stata fatta fermare. Il finestrino era aperto. Landi mise in moto prima che arrivasse Marco, contro le norme del regolamento. Marco si avvicinò all’auto che procedeva lentamente, si abbassò il finestrino e Marco sentì la gracchiante voce del suo ex direttivo sportivo: “Chi non muore si rivede.” “Noto con immenso piacere che sei sempre in lista per avere il guinness dei migliori complimenti, ma non riesci a vincere neanche quello,” rispose sarcasticamente Marco, proseguendo il suo inseguimento e stando al gioco degli sfottò. Demetrio era ormai chiaramente visibile. E Marco lo raggiunse poco prima dello strappo finale, quasi all’altezza dello striscione dell’ultimo chilometro. Rimase dietro per un po’, per riprendere fiato, dopo lo sforzo compiuto per riprenderlo. Anche Demetrio era molto provato. Landi gli aveva chiesto il massimo e a fine stagione anche lui evidentemente aveva dato quello che poteva. Ma anche lui aveva un’anima e sicuramente anche in quell’anima durante la gara qualcosa era successo. Dietro di loro l’auto del direttore di gara. E dietro ancora l’ammiraglia rossa della Robocycling guidata da Landi e quella gialla e blu della Alberti Costruzioni guidata da Ferrucci. L’ultimo tratto del falsopiano prima dello strappo finale fu percorso al rallentatore. Sembrava una gara di velocità su pista. Demetrio rallentava, Marco gli si affiancava, ma non lo superava. Così per quattro o cinque volte. Quando Marco si trovava accanto a Demetrio, cercava il suo sguardo, ma non lo trovava. Demetrio era molto diverso da quello che conosceva da una vita. I suoi occhi non erano dritti puntati sulla strada che si apriva davanti, ma erano insolitamente bassi. Il suo colpo di pedale non era quello veloce e scattante, che Marco gli invidiava da una vita. Marco sapeva che, se avesse attaccato in quel momento, lo avrebbe staccato, per la prima volta nella vita, e sarebbe stato contro ogni pronostico per la gara, per la cronaca, per la stampa, per la tv, per i loro direttori sportivi, per le loro squadre e i loro compagni che erano rimasti staccati là dietro, ma sarebbe stato contro ogni legge di natura per la vita, per la loro vita. Cosa contava di più? Demetrio non guardava. Non aveva coraggio. Marco lo capiva. Arrivarono allo strappo. Marco dovette tenere la bici quasi frenata, per stare dietro a Demetrio le cui gambe non giravano improvvisamente più. Furono 400m eterni. Non finiva mai quella tortura dell’anima. Demetrio scosse la testa. Stava tentando di dire qualcosa. Ma Marco aveva pianificato tutto, fino all’ultimo dettaglio. Fanculo a tutti: aveva fatto lui la strategia. Aveva lui tutti i piani in testa. Tutto stava andando esattamente come era previsto che andasse. Duecento metri. Centocinquanta metri. Demetrio era quasi piantato. Testa bassa, gambe che tremavano. E allora Marco, in vista del traguardo, incurante del pubblico assiepato, attuò l’ultimo stralcio del suo piano e in modo che solo l’amico sentisse, affiancandoglisi, disse: “Vai, Demetrio, vai!”. Demetrio aveva già capito tutto da quando era stato ripreso. Tra loro due non c’era mai stato bisogno di parole, quando Demetrio aveva chiaramente inteso che Marco aveva più gamba di lui su quello strappo finale e che l’averlo raggiunto dopo un attacco in discesa, e su quella discesa!, gli aveva dato una carica che lui aveva ormai smarrito nella fatica. Sapeva che Marco ne aveva di più e aveva più voglia di vincere e che la sua squadra aveva più bisogno di vincere. Marco per parte sua non aveva un pubblico intorno, non aveva le telecamere, non aveva le ammiraglie: aveva nella testa solo tanti anni di vita insieme, la vita sua e la vita di Demetrio, la famiglia sua e quella di Demetrio, i genitori suoi e il babbo di Demetrio; aveva nella testa le parole di Francesca, soprattutto. Questo Demetrio non lo sapeva. Forse un giorno glielo avrebbe detto. Demetrio era incerto. Marco era quasi fermo sui pedali. Demetrio non osava. E a quel punto Marco gli tornò vicino e disse nuovamente: “Vai!” Marco lo vide ripartire e lo seguì a pochi metri di distanza, finché non tagliò il traguardo. Nessuno dei due alzò le mani al cielo. Marco era frastornato. Non pensava. Non guardava. Non ascoltava nessuno. Vide due bambini che giocavano insieme, che correvano in allenamento insieme, che andavano a scuola insieme e che iniziarono a fare quello sport insieme. Non doveva essere quello a dividerli. Mai. Marco non pensava a nulla in quella calca di fotografi e giornalisti che si assiepava attorno a tutti, che inseguiva anche lui, il secondo arrrivato. Giovanni era stato scelto per essere il primo della squadra a raggiungerlo dopo il traguardo: lo abbracciò, gli mise un asciugamani sulle spalle ancora fradice, ma non disse una parola. Marco intravvide solo una persona che si faceva strada tra la folla che festeggiava il vincitore Demetrio Piras. Era Landi. Si fermò. Giovanni si allontanò stupito. Landi non si occupò di Demetrio, cercava Marco e, quando lo poté riconoscere nella folla, gli corse incontro e gli disse: “Ciao, Marco. Oggi, scusami, non è facile trovare parole … solo oggi credo di aver capito capito per la prima volta quale grande campione ho perso”. Marco gli strinse la mano. Quello ero il suo premio.

Mentre Marco si lasciava portare fuori dalla calca da Giovanni, Demetrio si fece strada con la bici a mano in mezzo alle tante persone e andò a cercarlo, passando in mezzo alle maglie della Alberti Costruzioni. Rimasero sotto un gazebo, montato lontano dall’impalcatura della premiazione, uno di fronte all’altro, lontano da occhi curiosi. Poi Demetrio ruppe il silenzio: “Avremo tante cose da dirci dopo la premiazione. Ma non me ne andrò di qui senza che tu mi abbia detto perché l’hai fatto.” Marco gli mise tutte e due le mani sulle spalle, dicendogli: “Tu lo dovresti sapere e non me lo dovresti chiedere. Ci sono dei premi nella vita. Ce ne sono di tanti tipi. Si può avere un premio per aver vinto una gara. Si può avere un premio per aver ritrovato un amico. Non credo di essere meno professionista per aver fatto qualcosa che tra di noi, nella nostra amicizia, è stato da sempre nell’ordine naturale delle cose.” In quel momento arrivò Ferrucci. Era furibondo. Quando vide Demetrio e Marco abbracciati, si fermò sulla porta, scuotendo la testa. Demetrio allora lo chiamò e gli disse: “Lorenzo, voglio che Marco salga sul podio con me.” Ferrucci era stordito da quella giornata incredibile e rispose: “Ne parlo con il direttore di gara e con gli sponsor.”

Non dirmi che hai attaccato in discesa!” disse Demetrio.

Non avevo scelta. In salita ti ho mai battuto?”

Hai pensato a Zurigo?”

Neanche una volta.”

Bugiardo!”

Ti assicuro, Met. Non ho mai pensato a Zurigo.”

Non capisco allora. Non capirò mai.”

Francesca te lo spiegherà. A lei ho pensato. Solo a lei.”

Adesso capisco ancora meno.”

Capirai. Ne sono sicuro.”

© 2018. Stefano Tramonti

Le ali del gipeto

Testis, qui niveum quondam percussit Adonem
    venantem Idalio vertice durus aper,
illis formosum iacuisse paludibus; illuc
    diceris effusa tu, Venus, isse coma.
Il feroce cinghiale, che un giorno Adone bianco come la neve trafisse, mentre gli dava la caccia in cima all’Ida, testimonia che tra quelle paludi giacque il bel ragazzo; si dice che tu, Venere, sei andata là con la chioma sciolta. (Properzio)

L’ascesa

Mentre Paolo saliva, il suo sguardo era come catalizzato da Anna, che lo precedeva con il suo solito passo corto, lento e sicuro. I loro due zaini erano grandi, come due piccole case portatili. Lì dentro c’era tutto quanto occorreva per arrivare a destinazione, senza patire fame o sete, freddo o caldo. Le ultime case del paese lasciavano il posto ai prati. Dopo iniziava subito la prima parte della salita e in poco tempo da quota 1400 si sarebbe arrivati a quota 1800, poi un breve tratto in falsopiano e infine l’ultima rampa, che avrebbe coperto un dislivello di altri 400 m e li avrebbe portati a quota 2200. Una serpentina nel bosco con frequenti tornanti era la forma che nella carta assumeva il sentiero, mentre lui respirava forte, come per assaporare gli odori del fieno appena raccolto in quei maestosi prati che collegavano la serie dei paesi nel fondovalle e che costituivano una valida alternativa a piedi per raggiungerli, una gradita passeggiata per persone anziane e famiglie con bambini piccoli. Stavano entrando nel bosco e per almeno due ore avrebbero visto spicchi di luce tra i rami fitti della selva che reggeva l’impervio pendio: due ore di marcia in una dura salita, che, dalle ultime case del paese, dove attaccava il sentiero, a quota 1380, li avrebbe portati a quota 2200, dove altri prati, un grande pianoro e il primo rifugio li avrebbero attesi, ristorati e rifocillati. Passare dalla luce del verde dei prati, dominio assoluto di un sole in un azzurro completamente sgombro di nuvole, all’ombra del bosco sarebbe stata una di quelle esperienze che sarebbe riuscita a far sentire quanto mai vivo quel paesaggio, nei suoi poderosi e vivaci contrasti di colori, tonalità, ombre e luci, odori, suoni. Voleva che Anna imparasse ad apprezzare tutto quello, come una tradizione che doveva passare attraverso le generazioni, un dialogo con il paesaggio che non può, non deve assolutamente morire. Suo nonno lo ha insegnato e fatto amare a suo babbo, che lo ha insegnato e fatto amare a lui. Adesso si sentiva nel dovere di continuare quella catena, anche se mai avrebbe voluto che Anna lo avvertisse come un impegno legato semplicemente a una tradizione di famiglia. Paolo temeva anche l’effetto opposto: non avrebbe desiderato nemmeno che quel modo di vivere la montagna diventasse per Anna la pretesa che era diventata per lui, sempre alla ricerca di soluzioni a dubbi e risposte a domande troppo grandi per un essere umano. Non aveva mai parlato di questo. Era solo una forma di comunicazione con la terra, con la vita, nei suoi aspetti più genuini; era soltanto un pretesto per comprendere che quel senso di libertà che una cima consente di apprezzare non è mai scontato, richiede una conquista, un sacrificio. Suo babbo considerava le vette di quelle montagne come punte che spiccavano il volo verso l’altro, come trampolini di lancio per l’anima, e il suo istinto, associato all’educazione ricevuta, aveva potuto conferire all’atto del conquistarle un significato del tutto speciale, qualche volta forse addirittura spirituale, benché a modo suo. Alcuni così descrivevano Paolo. Il suo approccio, in verità, era molto diverso. Paolo non aveva mai negato il significato spirituale dell’ascesa, che aveva sempre apprezzato anche nelle sue letture, tra cui spiccavano i diari delle tante imprese himalayane. Era veramente affascinato dai tanti che avevano saputo dare in forme diverse un identico valore di rinascita spirituale a un’ascesa. E disprezzava chiunque lo negasse e pretendesse di dire che dopo la salita non c’è altro che la discesa. Era convinto che amare quel paesaggio fosse soprattutto un modo per ritornare a chi per secoli lo aveva vissuto tra stenti, difficoltà, miseria, inverni lunghi e freddi, ma anche a chi in esso aveva dato la vita sotto una slavina in inverno o cadendo da una via ferrata in estate. Ma soprattutto un legame della memoria lo teneva avvinto a quelle rocce: la guerra che suo nonno lassù aveva combattuto come artigliere di montagna e gli scritti che aveva lasciato sotto forma di lettere dal fronte, tutte meticolosamente visionate e passate attraverso le lenti della censura militare, che aveva lasciato il proprio bollo ovunque. Era sangue che scorreva nelle sue vene e ora scorreva anche in quelle di Anna. Non voleva ripetere la retorica stucchevole dei resoconti di suo babbo, che facevano del nonno un eroe. Lo era sicuramente stato, come dimostrava il petto di medaglie con cui si esibiva nei raduni degli ex combattenti. E se lo era stato, meritava la memoria. Ma senza retorica. Non la sopportava. Quanto al babbo, la memoria lavorava in modo assai diverso: il babbo era l’antieroe che massacrava di ironia ogni azione, che spegnava in una risata sarcastica ogni tentativo di elevazione dell’anima. Per lui, grande lavoratore nella vita di tutti i giorni, la montagna era lo specchio di un vita dura e spesso anche beffarda. Per Paolo, invece, a tutto questo gravame di tradizioni di famiglia si aggiungeva qualcos’altro che avrebbe reso la montagna il correlato del carattere beffardo della vita: la montagna lo attraeva, ma lo faceva con uno spirito che Anna da anni ormai desiderava capire e non aveva ancora compreso. C’era qualcosa che non le era stato detto. E la montagna lo sapeva. Paolo procedeva, seguendo la figlia, orma su orma, seguendo una bella tradizione che era arrivata alla quarta generazione, orma su orma. Lassù ai piedi di quel bosco dove l’erta si faceva cattiva, la retorica appariva del tutto ridicola. Anna aveva detto che lo zaino era molto pesante. Quanto era tentato dal dirle che il cannone che avranno portato su gli artiglieri, oltretutto in pieno inverno e sulla neve, sarà stato sicuramente molto più pesante del suo zaino! Ma si trattenne. Lasciò che quell’immagine, tutt’altro che retorica, ma causa di dolore nel rivangare all’indietro della mente, restasse lì dentro. Il dolore era parte della sua vita ormai da anni. Ne avrebbe parlato ad Anna, forse, ma non lì, non nel bosco. Quella era la novità che Paolo aggiungeva alla tradizione di famiglia: dopo la guerra e le medaglie del nonno, dopo il senso di abnegazione del babbo, veniva lui con la sua esperienza di vita, che lassù, su una di quelle ferrate, durante una di quelle escursioni, aveva subìto un repentino cambiamento di rotta, facendo di amore e dolore una poltiglia informe che marciva da anni nel fondo dell’anima.

Anna saliva cantando sottovoce. Era un canto scelto non a caso. Dava ritmo al passo. Bisbigliava, procedendo a passo corto e lento, cadenzato e pesante, sicuro e regolare, una volta entrata nell’ombra del bosco dagli odori nuovi e dai colori da reinventare. All’improvviso quella vegetazione, in cui il dominio, dapprima incontrastato, dell’abete rosso avrebbe piano piano ceduto spazi sempre maggiori al pino silvestre, al larice e al pino cembro, nascose ogni traccia di presenza umana, in quello spazio dove non si sciava, non si saliva con impianti, non si andava al rifugio con fuoristrada. Lì si camminava e passo dopo passo ci si confondeva con tutto quanto ci dominava e ci guidava fiduciosi, da sopra e da sotto, da destra e da sinistra, respirando quegli odori, così diversi da quelli del fieno nei primi passi; e ci si lasciava pervadere da quei colori, così diversi da quelli dei coltivi di fondovalle, da cuiPaolo e Anna erano partiti. Lì si camminava e quel canto bisbigliato piano piano da Anna, con il suo ritmo regolare e cadenzato, prese anche Paolo, cosicché, appena Anna cessò di cantare, attaccò Paolo, anche lui sottovoce. Del resto, chi glielo aveva insegnato? Non era forse anche il canto frutto di quel sangue che li univa? Anna si voltò per un attimo. Gli sorrise senza fermare il passo, solo rallentando un po’, e poi riprese il ritmo, associandosi a lui nel cantare camminando. E fu la prima delle tante esperienze, che fortemente e con la solita passione stava cercando lassù; una delle prime forti esperienze che quell’ascesa gli avrebbe riservato. Non era facile dare una risposta a quella domanda e soprattutto non sarebbe stato facile liberarsi dall’effetto che aveva appena avuto quel voltarsi di lei sorridendo e poi quel riprendere a cantare insieme a lui: sua mamma lo faceva. Ma come poteva Anna sapere che quel gesto era lo stesso della mamma, lei che la mamma neanche poteva ricordare? Aveva tre anni e mezzo, quando la mamma era partita per la sua ultima ascesa. Quel cantare ora era diventato per Paolo un modo per stornare il dolore, la colpa, l’ansia che montava da lontano. Ricordi, visioni, ammalianti icone che risalivano da lontano iniziarono pericolosamente a prendere forma. Il passo si fece improvvisamente più faticoso e pesante. Anna si allontanava là davanti a lui. Qualcosa ora pesava dentro. Paolo sapeva bene che tutto ciò era inevitabilmente connesso a ogni esperienza di escursione in montagna: un’attrazione che affascinava e torturava al contempo. Anna per tanti anni lo aveva seguito, senza porre le domande che ancora non poteva porsi; ma ora era finita l’era dei giochi, delle stelline in cielo che ti danno la buonanotte, della passeggiata alla ricerca dei cervo amico della favola della sera prima; era finita l’era delle favole, delle tante, tantissime favole che lui le aveva raccontato ogni sera; ora Anna poteva sapere e poteva capire quello che fino ad allora non aveva mai saputo e non poteva ovviamente aver mai compreso. Lì su quelle erte impervie: lì, dove passione e sacrificio, allettanti paesaggi e infidi passaggi si confondono, dove amore e dolore avevano avuto inizio e fine, tutto sarebbe stato più facile, in una narrazione che avrebbe trovato il contesto ideale per svolgersi chiara nei dettagli e lucida nei suoi profondi significati, che ora potevano essere disvelati. Dietro al velo di quella affascinante bellezza che con i suoi colori, i suoi odori, i suoi rumori attraeva Paolo e Anna da sempre, c’era qualcosa che avrebbe fatto male riconoscere. Era questo il peso nell’anima, che aveva reso d’un tratto stanca e lenta l’orma sui sassi. Eppure, Paolo la ammirava procedere, con i suoi capelli docili al vento, castani come quelli di lei, con le sue gambe lunghe, forti come quelle di lei, con quel canto che aveva innescato uno di quegli ingranaggi fermi da tempo e che riteneva arrugginiti e non più funzionanti. Era veramente bello vedere quanto le somigliava nella postura. E a quel punto Paolo cedette: dovette fermarsi. Bevve un lungo sorso di acqua fresca dalla borraccia. Poi un secondo. Poi un terzo a garganella. Poi la vuotò tutta, rovesciandone il contenuto sui capelli sudati. Ne sentì un forte bisogno. Anna si accorse che il canto da lei intonato non era fatto più di due voci, ma solo della sua. Si fermò, si volto e lo vide seduto su un grande ramo d’abete caduto, tutt’uno con lui: due caduti, l’albero con i rami secchi e inerti puntati al suolo, lui con le gambe stese inerti davanti a sé, i gomiti sulle cosce e la testa tra le mani. Anna immaginava, ma non osava. Per la prima volta avvertiva la sensazione che in quel cammino sarebbe successo qualcosa di nuovo. Immaginava, ma mancava l’ardire di indagare. Il silenzio della natura era stato rispettato; andava ora rispettato anche quello dell’uomo. Come sempre doveva essere stato, anche quella volta ad Anna era chiaro che quelli erano stati per suo babbo viaggi nel tempo, prima che nello spazio. Ora poteva capire. Ma indagare, fare domande, sarebbe stata un’inutile tortura. Tornò indietro. Di quante foto scattate in posti come quelli era tappezzata la casa! Foto di quella mamma che solo lì, in foto, lei poteva vedere! Quasi tutte in montagna erano state scattate. Anna si andò a sedere accanto a lui. Bevve anche lei. E anche lei si buttò l’acqua sul collo, sui polsi, sui muscoli delle gambe bollenti per la lunga salita ormai al termine. La giornata era calda, ma dal fondovalle saliva ancora tanta umidità. Il passare delle ore l’avrebbe piano piano asciugata, ma non certo là dentro quella folta abetina. Quell’umidità pesava tantissimo, ostruiva il respiro della pelle delle braccia, che erano lasciate nude dalle maglie termiche che indossavano, e delle gambe, che erano lasciate nude dai calzoncini corti che entrambi avevano scelto. In realtà erano lunghi, ma, come tanti pantaloni da escursione, potevano essere resi corti. Il babbo li aveva cercati e trovati su internet: addirittura avevano due possibilità, quella di essere accorciati con una zip sotto il ginocchio o con una seconda a metà coscia. Fu proprio Serena, la mamma, a vederli un giorno addosso ad una coppia di escursionisti e a chiedergli dove si potessero trovare. Nemmeno i pantaloni che avevano addosso erano stati scelti a caso. Anna iniziava a capire, a mettere insieme i tanti frammenti sparsi di una memoria che le era stata somministrata a brani, edulcorata nelle immagini, ridotta a rasserenante favola della buonanotte. Quando Anna si sedette accanto a lui, l’immagine della mamma trionfò definitivamente e a lui ormai sembrava di essere tornato indietro di vent’anni. Era la voce di Serena quella che sentiva, non di Anna: “Forse è meglio farla in cima al rifugio la sosta, babbo. Si preannuncia una giornata calda oggi.” Si rialzò e insieme ripartirono. Anna, iniziando la sua marcia con passo ancor più lento a cadenzato, ancor più corto di quello tenuto precedentemente, portando uno scarpone appena davanti all’altro, intonò di nuovo il suo canto a bassa voce e Paolo si aggiunse con la sua voce. Era solo il primo attacco del tempo; se non voleva subire così passivamente anche gli altri, Paolo avrebbe dovuto giocare d’attacco e liberarsi del peso e della colpa, che incombeva da anni sull’anima. Senza l’espiazione di un’ascesa e di una fatica, nulla di ciò sarebbe stato possibile nella sua visione che qualche amico chiamava fondamentalista del suo rapporto con la montagna. Forse avevano ragione, un pochino almeno. Fondamentalista o no che fosse, era convinto che solo lassù avrebbe trovato una soluzione. E su questo aveva ragione. Anna, per parte sua, era convinta che anche lei avrebbe dovuto fare la sua parte. Era un dialogo di anime, che non aveva bisogno di parole. Anzi, la parole avrebbero fatto male. Paolo doveva tanto a quella ragazza straordinaria che era sua figlia. In quel momento lo aveva capito forse per la prima volta: aveva capito quando Anna si era seduta su quel ramo caduto, in silenzio accanto a lui. Per tutto questo, per il dialogo tutto interiore che si svolgeva nella fatica e nel sorriso, nel sacrificio e nel canto, solo di lei ormai si fidava, quando le pendenze dell’escursione si facevano importanti. Il cammino era lungo. A Paolo non sfuggiva che quel viaggio sarebbe ormai stato caratterizzato, nel rapporto tra loro due, da un complesso e complice gioco tattico di allusioni, di gesti studiati, di frasi frante e incomplete, di canti, di rievocazioni di odori, di suoni, di colori, che, come lassù erano riusciti a fare vent’anni prima, avrebbero dovuto anche allora sortire lo stesso effetto, prima sui sensi, poi su qualcos’altro di più profondo e ancora difficile, per il momento, da interpretare.

Un macchia gialla di botton d’oro, che spiccavano tra il verde delle loro stesse lunghe foglie, segnò la fine del bosco e l’inizio del pianoro. In un attimo il paesaggio cambiò. La salita finì. L’ombra della foresta, che proteggeva il ripido pendio, cedette il posto al sole di metà mattinata. E quest’ultimo riprese possesso dei grandi spazi del pianoro su cui dall’altro versante salivano e scendevano le mandrie, che alimentavano l’attività di due grandi malghe. In fondo, sulla loro sinistra, si vedeva il tetto del rifugio dove avrebbero sostato per riprendersi da quel primo intenso sforzo. Non poco era il dislivello coperto in quella prima tratta del loro viaggio. Erano veramente passati da un mondo a un altro. Entrambi lo avvertivano. In quel mondo libero e aereo, tenuto pulito da un vento che non aveva ostacoli, sarebbe stato più facile spiccare quel volo che nell’altro, depresso laggiù, era invece inevitabilmente assai più arduo compiere. Paolo ricordava una frase di lei, di Serena, che, nata su montagne del Centro, forse meno note e meno blasonate di quelle, un giorno lei pronunciò, dopo un lungo cammino di sei ore, che li aveva portati a un rifugio in cui avrebbero pernottato: dopo esser partiti dal paese di fondovalle, da un paesaggio che per Paolo era stato comunque fino ad allora montagna, arrivati al rifugio, Serena disse: “Sono felice di essere finalmente in montagna.” Paolo, dopo la fatica di quell’impegnativo percorso nel bosco, nell’aria pesante e umida del primo mattino, ora si sentiva finalmente ‘in montagna’. Se non c’era libertà nello spazio intorno a lui, non era montagna. Se non avvertiva certe sensazioni che erano il portato di qualcosa che colpiva i sensi in modo speciale, non era montagna. Se non riusciva a sentirsi parte di un viaggio in uno spazio che era anche tempo, memoria, rievocazione, non era montagna. Lo avrebbe prima o poi capito anche Anna. Occorreva il segno. Paolo fece una domanda all’anima e la montagna rispose subito, come lei sapeva meravigliosamente fare. Il volo di un grande gipeto fece capire meglio di qualsiasi altra cosa il significato di quel cammino. Quel gipeto sembrava aspettasse lui. Sembrava che lo guidasse lassù, scomparendo dietro le rocce della ferrata che li aspettava. Anna avrebbe capito. Quella, finalmente, era montagna, perché loro due, così fragilmente in movimento sul terreno, erano per lui che volava lassù, per quei meravigliosi tre metri di ali che volteggiavano liberi e sicuri lassù, prede possibili, come ogni forma che lì vivesse. Le marmotte correvano al fischio della loro sentinella, che le aveva avvisate, e sparivano inghiottite dalle tane nascoste tra i mughi. Quella, adesso, era montagna: sentirsi preda. E lì tutto, necessariamente, sarebbe stato diverso, finalmente diverso. Su un pianoro come quello, infatti, mentre un grande gipeto voleva sopra le loro teste, tanti anni prima due giovani, entrambi di natura riservata, silenziosa e riflessiva, si erano baciati per la prima volta: si erano conosciuti a un compleanno di un’amica comune, erano diventati amici scoprendo la comune passione per la bicicletta e le escursioni a piedi in montagna, che iniziarono a fare in gruppo con altri amici, poi da soli, avventurandosi presto anche in ferrate e tentando qualche timida arrampicata. Durante una di quelle uscite, nella sosta per il pranzo, in un alveo glaciale disseminato di grandi massi, ricordo di antiche frane, mentre Paolo indicava il grande rapace sopra le loro teste, Serena pose la testa sulla sua spalla. Da quel momento nulla, se non la montagna stessa che li aveva uniti, li avrebbe più potuti dividere. E così effettivamente fu. Anna ora poteva capire.

La pausa in quel primo rifugio servì solo per andare in bagno, sciacquare e riempire le borracce, bere un caffè, rinfrescarsi e riposarsi un po’. Si stesero un po’ fuori sui prati, sempre in silenzio, in quel dialogo segreto senza parole, un dialogo ricco di amore, ma costruito dal dolore, che stava diventando, grazie alla montagna e a quel gipeto che lei aveva donato, una bellissima esperienza. Verso le dieci e trenta ripartirono per il successivo rifugio, dove avrebbero trascorso la serata e la prima notte. Li avrebbe attesi un sentiero, prima in discesa, poi in risalita, con modesto dislivello e con un breve e semplice tratto ferrato nella parte finale. Al giallo dei botton d’oro si sostituì il blu altrettanto vivace delle genziane delle nevi e i legnosi cespugli di brugo dai piccoli fiori rosa. Era un tripudio di colori vivaci l’inizio del sentiero che bordeggiava la parte estrema del pianoro, prima che fosse lasciato per la discesa nella nuda pietraia, ombreggiata dal grande massiccio roccioso con le alte creste dentate in fila, che richiamavano i denti di una sega: mille metri di pietra pura li separava da quel gipeto che aveva salutato il loro ingresso nel regno delle nevi, delle pietre vive, delle acque che sciogliendosi si raccolgono in piccole, appartate conche lacustri e che poi zampillano altrove dal terreno. Era la stagione in cui quel tripudio di vita che rinasce non era ancora invaso da frotte di escursionisti e alpinisti. Le distese di pino mugo lo conservano gelose al margine delle rocce, persino tra le rocce. Quando le scuole sarebbero finite e iniziate le vacanze, anche quel mondo si sarebbe come chiuso in se stesso, lesinando le fioriture, lesinando gli zampilli d’acqua solo ai pochi che li meritavano. La meraviglia andava goduta in silenzio, mentre le marmotte sentinella avvisavano solerti le altre del loro arrivo: procedevano con passo corto e lento, passo alpino, ritmato e cadenzato sempre dalle medesime strofe, sempre intonate da Anna, sempre saltuariamente accompagnate da Paolo, che si associava nei ritornelli. Come sua mamma. Paolo pensava a che gamba avesse quella ragazza che procedeva sicura della traccia, che aveva studiato ogni dettaglio della tratta di marcia appena intrapresa, dalle altimetrie alle planimetrie, studiando le curve di livello una per una e memorizzando le quote passo dopo passo, sasso dopo sasso. Anna raramente alzava la testa. Non aveva bisogno della carta. La sua carta era stampata nella memoria. Come sua mamma. Contava sassi e passi. Era Serena. Uguale. Anche lei era andata avanti così per tanti anni, ritmando il passo con il canto sottovoce. Dallo zaino ora pendevano casco e imbrago, corda e moschettoni, pronti all’uso: anche Serena lo faceva, prima della ferrata. Meticolosa nella preparazione, svolta sempre in silenzio, nell’ascolto del vento, per capire cosa potesse cambiare lassù, pronta sempre alla rinuncia, come è proprio di ogni montanaro esperto. Perché quelle visioni? Paolo si chiedeva se la montagna lo facesse perché gli voleva bene o perché lo voleva torturare. Ora quel vento si era alzato. Aveva pulito l’aria, ma non portava nube alcuna. La protezione nevosa aveva a lungo favorito le macchie dei rododendri, i fiori del tuono, i Donnerblumen: la voce popolare, tramandata di generazione in generazione, vuole che si chiamino così, perché il loro chiudersi prima del temporale annuncerebbe l’arrivo della tempesta. Là sotto, ai piedi della cengia su cui sarebbero saliti in cordata, tre cespugli indicavano che erano sulla strada giusta: e i loro fiori erano aperti. Niente tempesta. Puntarono allora entrambi le macchie di rododendro alpino. Il dialogo funzionava. Il sentiero riprendeva a salire. Lì vicino si fermarono, si misero l’imbrago, indossarono guanti e caschetto, controllarono bene apertura e chiusura dei moschettoni e partirono per il breve tratto ferrato. Tante furono le soste, rare le parole. Serena lo faceva: passo veloce per uscire da coltivi e boschi e arrivare su, “in montagna”; poi passo corto e lento, come se Anna entrasse in comunicazione con qualcosa di nuovo che dalle rocce e dagli alpeggi avrebbe dovuto dare forma a quello che non spettava a lei capire, apprendere, ma solo ascoltare, accogliere e rispettare, senza porsi domande, senza trasformare l’esperienza del viaggio in quella pretesa, da cui il babbo spesso l’aveva messa in guardia. Quando arrivava sulla cima e sotto di loro si squadernava un mondo di cui loro stessi facevano parte, di cui erano elemento vivo, attivo e integrante, Serena si appoggiava alla croce e non parlava mai. Lo faceva al rifugio, qualche volta in marcia, mai in cima. Quella grande croce di ferro, spesso arrugginita, per lei non era una conquista dello spirito nell’anelito di vincere chissà quale premio in chissà quale mondo; quella croce era lei, era la sua vita, era il suo lavoro, era il correlato di una ricarica che prima cercava e puntava da lontano, poi, una volta che l’avesse raggiunta, vi si teneva abbarbicata, oppure, come avrebbe fatto Anna in quel momento, ci ci sarebbe seduta sotto. Anna fece la stessa cosa, arrivata in cima: si sedette appoggiandosi alla croce, prese una barretta, la mangiò, fece ogni gesto in silenzio, con gli occhi rivolti alle altre cime, la schiena incollata al ferro, la mente lontana in uno spazio molto più infido e pericoloso, dove però sapeva che non era sola. Il vento giocava con i suoi capelli che aveva liberato, toltasi il caschetto protettivo. Quel silenzio era il comportamento più loquace e consapevole che si potesse tenere in quei momenti con suo babbo. Quando camminava con lui, la sensazione che costantemente avvertiva era quella che ogni parola fosse inutile spreco di fiato. Lo sapeva bene. E per questo lo rispettava. Come la mamma. Sotto si vedeva il rifugio. Paolo prese il binocolo. Scrutò tutt’intorno a lungo, girando su se stesso. Lo cercava lassù, lo cercava laggiù. Sapeva che da quel gipeto era iniziato un capitolo nuovo. Poi passò il binocolo alla figlia, che lo prese e fece lo stesso gesto, girando anche lei su se stessa. Anna guardò il rifugio. Dalla parte alta del comignolo usciva fumo. Anna fece alcune foto con la sua macchina fotografica. Altre le fece suo babbo. Esercizi di memoria che passavano di generazione in generazione: niente cellulare, solo e rigorosamente macchina fotografica. Ripartirono. Il sentiero era ferrato solo per un breve tratto iniziale nella discesa che li attentedeva. Finite le scalette della breve ferrata sulla roccia, tornarono sui prati. Una breve salita si avrebbe portati al nuovo rifugio, mentre il sole si era già abbassato molto sulla linea di un orizzonte che in montagna era sempre, inevitabilmente, immaginario e proprio per questo più bello. Al rifugio, dove tutto era nuovo, segno di recente ristrutturazione, e dove nulla sembrava ancora essere stato toccato, segno di recente riapertura, non c’era nessun altro, oltre a loro e alla coppia che lo gestiva: un uomo e una donna che nell’aspetto e nel comportamento tradivano una certa inesperienza nel lavoro. Anche in quello i tempi stavano cambiando: Paolo si sentiva come spaesato, quando si trovava, lassù, sulle sue montagne, di fronte a persone come quelle, che un tempo mai si sarebbe aspettato di incontrare. Adesso i proprietari di quelle strutture erano chissà dove, la gestione era spesso solo stagionale e veniva rilevata da gruppi di giovani, che in tanti facevano quello che una volta era il lavoro di una famiglia, talvolta addirittura di una sola persona, oppure veniva rilevata da stranieri, perché il lavoro era di quelli duri e una civiltà che vive nel benessere urbano non sa più cosa significa la fatica e la schiva come abietta, sbagliando. Serena veniva da una di quelle famiglie di montagna, che avevano conosciuto il principio della fatica e del duro sacrificio come prezzo della sopravvivenza, non del benessere. Paolo veniva da una famiglia diversa, di città, di quelle che  amava la montagna ma dall’esterno e che si lasciava pervadere dall’affetto del turista che la preferisce ad altre vacanze. Almeno si salvavano le strutture in questo modo, pensava Paolo riflettendo su quella coppia di gestori e cercando di cogliere l’aspetto positivo della situazione; altrove non avveniva neppure questo. L’uomo in particolare non fu molto benevolo nell’accoglierli. Solo successivamente si sarebbe capito perché: era alla sua prima esperienza stagionale come gestore di rifugio estivo e aveva seguito un’idea venuta in modo estemporaneo alla donna che aveva sposato e che insieme ai suoi genitori aveva avuto un bar. Fu troppo rigido nell’elencare le regole di comportamento, cosa che si faceva solitamente con escursionisti inesperti, che i gestori dei rifugi avrebbero dovuto saper riconoscere. Loro due non solo non erano inesperti, ma Paolo forse poteva dare consigli su quelle montagne meglio di lui e aveva tanto da insegnare che lui non sapeva. Il vino, tuttavia, rese l’uomo piano piano, con il passare delle ore, più loquace; la grappa riuscì a renderlo anche un pochino simpatico, sempre a modo suo, però. Alle regole teneva sempre in modo particolarmente rigido: ben tre volte indicò lo scaffale, che odorava ancora di copale, dove andavano riposti gli scarponi, prima di salire con le ciabatte su in mansarda, dove disse che non occorreva sacco a pelo, perché aveva messo la biancheria e le coperte sui letti. Andavano solo fatti. Peccato, pensarono entrambi, vittime di una seconda delusione: non ci sono più i rifugi veri di un un tempo. La temperatura su in quota precipita presto appena il sole si congeda; e la stufa crepitava, mangiando legna ceppo dopo ceppo. Loro due invece non mangiarono molto. E il gestore, che era lì con loro due, unici ospiti, insieme a una moglie, che non avrebbe mai messo la testa fuori dalla cucina, prima della fine della cena, quando lei stessa arrivò per mangiare, non si arrabbiò nemmeno. Paolo ricordava quel rifugio come gestito da una famiglia che si arrabbiava, eccome!, se uno non mangiava come e quanto volevano loro, perché chi non mangia non ha fame, e chi non ha fame non è stanco e non ha camminato abbastanza. Legge della montagna. Un po’ stupida, forse, come tante regole tramandate più per tradizione che per necessità o spirito di giustizia, ma pur sempre legge. Quello era stato per anni il rifugio delle discussioni inutili. Paolo ricordò la discussione avuta con il precedente gestore sulla pratica antica dello zuccherino bagnato o, come alcuni dicono, incendiato nella grappa; si dava all’escursionista stanco con la convinzione che così si riprendesse, senza sapere che quella grappa aveva su di lui lo stesso effetto delle foglie di eroina mangiate crude dai contadini indocinesi, che così non dovevano sentire la fatica, come facevano quelli delle Ande con le foglie di coca, per non sentire il dolore delle ripide salite su cui devono lavorare per ore avanti e indietro nell’arco della giornata. Non fa sentire la fatica, ma la fatica c’è lo stesso; annebbia la mente e il corpo finge di star bene. Ma quando arrivi e finisce il suo effetto, allora capisci l’errore commesso. Paolo ne parlava animatamente con il vecchio gestore, che altrettanto animatamente sosteneva la funzione di quella zolletta con la grappa: accanto a lui Serena, che lo sosteneva con cenni del capo; accanto al suo avversario sua moglie, che lo sosteneva con eloquente gestualità in quel dibattere tanto appassionato quanto accademico. Dà più soddisfazione parlare con i sassi che stanno là fuori, pensava Paolo in quel momento, accorgendosi di essere rimasto solo, avvolto dalle sue memorie, sempre dominate dalla figura monumentale, una grande icona del tutto ideale, di quel valore immenso che lassù aveva lasciato. Anna era uscita. Era in mezze maniche. Aveva lasciato la felpa sulla panca. Paolo si alzò con la felpa della figlia in mano e il gestore disse: “A quell’età non hanno paura di niente.” Cosa ne sai tu delle paure?, gli sarebbe piaciuto rispondere, ma saggiamente si trattenne e uscì, liberandosi del peso di quell’ingombrante e poco socievole compagnia. Che delusione aspettarsi una persona e trovarne un’altra con cui non si può nemmeno discutere, per di più nel ‘rifugio delle discussioni’. Paolo uscì, richiudendosi la porta alle spalle, ovviamente su solerte raccomandazione. Anna non era lì fuori. L’aria era fresca, ma non fredda. Da fondovalle risalivano ancora le ultime ventate tiepide dal sapore di terra; il cielo, rigido, si faceva ammirare. Paolo allora capì che cosa poteva attrarre Anna. Andò nell’unico punto da cui si aveva visuale libera verso sud e la trovò, sul retro del rifugio. Aveva aperto una poltrona sdraio e stava seduta, senza avere la schiena appoggiata. Aveva la testa appoggiata sui palmi delle mani e i gomiti puntati sulle ginocchia. Paolo le mise la felpa sulle spalle. Anna disse: “Il Toro e i Gemelli. Eccolì là.” E indicò su nel cielo. Sin da piccola era stata affascinata dalle costellazioni. Il nonno materno, quando la mamma decise di partire, la portava spesso in cima alla diga foranea in tarda serata, lontani da ogni inquinamento ottico, protesi nel mare per oltre 2 km. E le insegnava la lettura del cielo. “Ricordi quella serie di libri che mi hai regalato da piccola e che mi leggevi di sera? Quelli della stellina, intendo.” Paolo non credette che Anna sarebbe arrivata lì. Faceva paura quel ricordo. “Sì”, rispose con un filo di voce. Il libri raccontavano storie di stelle e narravano che ognuna di quelle che finivano in cielo era una persona che ci vuole bene; e il nonno, il babbo della mamma, aggiungeva che, se noi la sappiamo riconoscere e chiamare per nome, quella stellina che abbiamo ammirato più di tutte scende, accarezza il viso del bimbo, lo illumina di amore e lo fa dormire. Fiabe per la buona notte per il babbo. Momenti di immenso dolore per chi ha compiuto l’innaturale gesto di seppellire una figlia. Anna allora non sapeva, capiva a modo suo. Ma Paolo non voleva che fosse data quella lettura. Anna allora non poteva sapere. Era naturalmente convinta che la mamma fosse diventata una di quelle stelline lassù in alto. E quando chiedeva al nonno di andare a vederle, lo faceva perché voleva cercare la sua stella. Anna per fortuna non andò oltre. Paolo, in quella speciale comunicazione interiore, più ricca quando priva di parole, la ringraziò di essersi fermata e si sedette aprendo una seconda poltrona a sdraio. Aveva i pantaloni corti e sentiva freddo adesso. Ma Anna che aveva le maniche corte non lo sentiva. Come sua mamma. Rimasero in silenzio per oltre un’ora. Paolo forse si era anche un po’ assopito. Anna no. Fu lei a decidere di entrare e di andarsi a coricare. “Domani albeggia alle 5,30. Farò piano. Voglio vedere l’alba,” disse Anna. “Vengo con te.” Come sua mamma. Paolo sentiva che qualcosa stava succedendo, qualcosa di nuovo. Sentiva che un velo si stava aprendo nella sua anima, che la memoria aveva troppo a lungo tenuto protetta. Era una bella sensazione, la stessa sensazione di libertà che aveva avvertito quando era apparso sulle loro teste il grande gipeto. E anche lui trascorse quella notte nell’attesa dell’alba.

La mamma

Era tutto completamente rosso. La roccia aveva preso fuoco la sera prima. E riprese fuoco all’alba. Spettacolo unico delle Dolomiti, quando il sole, al tramonto, si abbassa o, all’alba, si eleva. Paolo trovò Anna già seduta sulla stessa poltrona a sdraio della sera prima, con la macchina fotografica in mano e il binocolo a tracolla. Anna aveva visto qualcosa su una parete di fronte, su una frangia particolarmente scoscesa. Senza parlare, indicò nella direzione in cui aveva notato qualcosa muoversi e passò il binocolo al babbo. Paolo lo prese e li vide tutti in fila: sei camosci, che procedevano a piccoli balzi, alternando tratti lenti ad altri velocissimi, con una sicurezza e un senso dell’equilibrio su pendenze estreme come quelle, che non potevano non indurre a farsi domande sulla meraviglia di quegli spettacoli. Domande che si fecero entrambi, che su quelle rocce anche loro, svalicavano creste e gioghi, aggredivano frange e conquistavano cengie, ma aiutati da corde e moschettoni, cavi e imbraghi. Ma Paolo alzò il binocolo più in alto e vide chi sperava di approfittare di quell’uscita dei camosci, di cui sicuramente aveva già adocchiato il covile: due maestose aquile reali, che disegnavano curve perfette, modellate dal vento, docili solo in apparenza a quello stesso vento, ma pronte a cambiare repentinamente direzione per la loro picchiata, letale per un cucciolo di camoscio, da cui nessuna preda riuscirebbe mai a difendersi. Quando l’aquila reale combatte, lo fa solo per vincere e combatte quando è sicura di vincere. Snerva l’avversario senza mai nascondersi, rendendosi sempre visibile là dove solo lei può arrivare e facendo il proprio nido là dove solo lei riuscirebbe a realizzarlo e raggiungerlo, sempre impune e immune da qualsivoglia ingiuria altrui, tranne quella umana. Paolo indicò in alto e pose il binocolo ad Anna. La vita e la gioia, giù in basso sulla roccia; la morte per la vita, in agguato lassù in cielo: un ciclo forse cinico e beffardo, ma sempre educativo, quando attira l’attenzione. Anna smise di guardare. Sapeva che quel volo avrebbe ottenuto quello che desiderava. Lo sguardò ritornò sulla roccia rossa. Paolo non si sedette. Camminava nervoso avanti e indietro, preso da pensieri che Anna non immaginava. Che avessero a che fare con quelle due aquile? Era molto verosimile. Non faceva mai domande. Né lui le aveva mai fatte a lei, quando la vedeva pervasa da riflessioni, in un mondo di meditazione, che solo quelle quote, solo quei paesaggi, solo quelle rocce apparentemente senza vita, conciliavano. La vita, lì c’era. Oltretutto, una vita alacre sin dalle prime luci. Ne aveva avuto appena dimostrazione. Era una vita inserita in un ciclo continuo di cui faceva parte anche la morte. Ma una cosa differenziava chi osservava quel ciclo attraverso il filtro delle lenti di un binocolo da chi lo viveva sulla frangia rocciosa di fronte: là quel ciclo non provocava riflessione sul dolore, di qua invece richiamava solo quell’assillante presenza, quell’ineludibile pilastro della vita, quel fondamento della vita stessa, senza la quale nemmeno il suo contrario, l’amore, sarebbe compreso per quello che effettivamente è. Questa era la differenza tra quanto andava in scena di là, di fronte a loro, e quanto invece si stava rappresentando altrove, in un abisso senza confini di spazio, senza demarcazioni temporali, senza un paesaggio che facesse da quinta, senza un sole che sale e scende in un ciclo continuo. Eppure di quel contesto facevano parte anche loro. Gli alberi erano finiti duecento metri più sotto; i prati e gli alpeggi cento metri più sotto. Restava roccia, nuda roccia, che tradiva presenze di vita, le nascondeva a chi non le meritava, le lesinava a piccoli bocconi all’alba, o al tramonto. Nessuno doveva ubriacarsi di vita in un paesaggio di roccia. Eppure Anna e Paolo avevano assistito a un trionfo di vita, minacciato forse inconsapevolmente dalla morte. E dentro di lui scattò il meccanismo della memoria e si mise in moto quell’ingranaggio tanto allettante quanto perverso, che cercava e stornava allo stesso tempo da anni.

“Era una splendida giornata di inizio giugno. Eravamo venuti su nella casa dei nonni, quella in cui loro trascorrevano tutta l’estate e venivano spesso anche in inverno. Era questo stesso periodo dell’anno, tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. Venimmo su in due. Tu rimanesti giù in paese, in casa, con i nonni. Partimmo all’alba, a quest’ora. Dovevamo fare un ferrata lunga. Le ultime nevi si stavano sciogliendo e i percorsi erano praticabili. Le previsioni meteo erano perfette. Sarebbe stata la ferrata della vita, la conquista della cima della vita per tutti e due, a cui mancava solo l’esperienza dell’arrampicata e della via. Poi, invece, verso le undici del mattino, il cambiamento improvviso del tempo, contro ogni previsione. Fenomeni convettivi, li chiamano. Non è facile prevederli e non è facile prevederne nemmeno l’intensità, soprattutto nelle giornate più calde. Solo la durata si sa che non è mai lunga. Nubi minacciose ci colsero. Il breve temporale si scatenò a tradimento. Un fulmine colpì subito il cavo su cui eravamo attaccati. E tutto finì. Chiamai subito il soccorso alpino. Fu velocissimo ma inutile l’intervento. La morte era avvenuta sul colpo. La cosa più triste non fu l’estremo addio, ma non fu nemmeno il funerale; impossibile da rendere fu il sentimento durante il viaggio di ritorno a casa, giù in città, con quel posto vuoto in auto e la colpa che rodeva, maledetta. Avevo deciso io di fidarmi del meteo. Mia era stata la decisione. Solo mia.” Poche parole, ma chiare, fatti nudi e crudi. Aveva parlato con lo sguardo fisso alle rocce di fronte, da cui erano scomparsi i camosci. Poi tacque. Anna mise insieme in un attimo frammenti di memoria, che nella sua mente di bambina e poi di ragazzina aveva spesso cercato invano di assemblare, senza mai riuscirsi. “Era molto bella la mamma!”. “Sì, Anna. Era molto bella.” Tra un babbo e una figlia non c’era bisogno di ulteriori dettagli per descrivere un dolore che Paolo già scontava abbastanza giorno per giorno in quella consapevolezza così maligna di una responsabilità che solo lui si era attribuito; quei dettagli scorrevano tutti nelle loro vene da anni, attraversavano il corpo nello stesso modo, infondevano loro un identico sentire, creavano una complicità e un modo di condividere i viaggi e le escursioni in quota in certo senso naturali.

Anna in realtà non aveva mai conosciuto i dettagli. Li aveva immaginati in tanti modi. Sapeva di un incidente in montagna. Solo quello le era stato detto anni prima dai nonni, quando iniziava a fare domande e quando la sua età non era più quella in cui la mancanza della mamma poteva essere spiegata con la trasformazione in una di quelle stelle del cielo, che lei amava così tanto guardare. Paolo aveva parlato in silenzio, rivolto alla montagna con o senza binocolo, a quella frangia da cui i camosci erano velocemente scomparsi, svalicando una sella tra due torri. Loro non avevano bisogno di imbrago e corda, di casco, guanti e moschettoni. “Ogni tanto mi chiedo se sia o meno lecito che noi stiamo quassù; se sia giusto che la nostra presenza ottenga l’assenso in queste quote. Perché osare? Dov’è l’errore che compie l’escursionista o l’alpinista che conquista una vetta? Perché la natura lo punisce? E perché, quando lo punisce, lo fa in modo così orrendamente violento e crudele? Qual è la sua colpa? Quale la sua responsabilità?” Fece una pausa. Anna ascoltava. Non erano più fatti nudi e crudi. Si aspettava che prima o poi in una di quelle occasioni sarebbe successo quello che attendeva. Quella prima occasione era stata da lei preparata molto bene. “Se fossimo stati in tanti in cordata e ci fossero state altre vittime ridotte come lei, la tua mamma sarebbe stata riconoscibile solo per gli orecchini, che le avevo regalato e che portava sempre, anche in escursione e anche in ferrata.” Anna, che nei suoi silenzi aveva imparato da lui l’arte della dissimulazione, questa volta non resse e scoppiò a piangere. Cercava di trattenersi, ma non ci riusciva. Paolo si pose dietro a lei. “Fai bene a sfogarti adesso che sai. Ho pianto tanto anch’io, Anna. Ora sei cresciuta e non vedo nulla di ingiusto o innaturale, se tocca un po’ a te.” Fece un’altra pausa, continuando ad accarezzare i capelli della figlia, che piangeva a dirotto, con singhiozzi quasi infantili. “Su quegli orecchini era disegnato a sbalzo un grande rapace. La mamma diceva che era un’aquila. A me piaceva che fosse qualcos’altro. Prima pensai al falco. Poi mi ricordai del progetto di reinserimento del gipeto su queste montagne, che in quegli anni era in atto, e allora dissi che erano le ali del gipeto quelle raffigurate come aperte sui due orecchini. Di lei solo quello mi restò, due orecchini. Feci io il disegno dei due rapaci ad ali spiegate e cercai un orafo che facesse il lavoro. Non fu facile trovarlo. Ma alla fine il risultato premiò l’impegno.”

Alle loro spalle si chiuse una finestra. Qualcuno aveva origliato e ascoltato la conversazione. Non se ne curarono. Rimasero lì ancora a lungo e in silenzio. Anna non riusciva a trattenere le lacrime, pensando a quel cielo stellato ammirato la sera prima. Paolo pensava alla spensieratezza di quei camosci, scomparsi su un crinale ora non più visibile. Un piccolo masso era rotolato in una conca sottostante, forse spostato dal salto di uno di loro. Nell’anima non avvertiva più il peso sopportato per troppi anni e quelle lacrime di Anna avrebbero fatto la loro parte forse anche nell’anima di lei. Come un tabù che viene infranto, con la forza di una volontà non dettata da se stessi. La montagna aveva creato le condizioni, aveva invitato a godere dei suoi spettacoli, aveva pervaso con il suo vento, i suoi odori e colori il loro spirito, li aveva preparati alla rivelazione, ammaliandoli. Era tutto scritto da qualche parte. Lì sarebbe avvenuta la rivelazione. Non altrove. E lì infatti era avvenuta, almeno la parte più cruda, quella dei fatti. I fatti, che restano nella memoria, avevano però scavato trincee negli anni. In quel trincee, in quel senso di colpa, si era svolta una lunga battaglia. Forse ne stava arrivando l’epilogo. Erano già le sette e mezzo, per loro molto tardi, quando entrarono nel rifugio dove la colazione era già pronta. Sembrava quella di un albergo, da quanto cibo e da quante bevande erano state disposte solo per loro, per due persone. La signora, che era apparsa poco la sera prima quando era stata quasi sempre in cucina, apparve invece molto gentile quando disse: “Mi scuso per prima. Non volevo ascoltare. Ma era impossibile in questo silenzio non sentire quello che vi siete detti lì fuori poco fa. Non ho parole. E, come si dice sempre, le parole rischiano di essere la cosa più stupida in questi momenti. Sono molto dispiaciuta. Chi fa questo lavoro quassù non può, anzi, non dovrebbe mai restare insensibile di fronte a queste cose. Sono dispiaciuta e addolorata sinceramente.” Era una commozione di quelle non facili da nascondere la sua. Suo marito era al bancone con la testa bassa. Aveva sentito anche lui. Si alzò. Disse loro di non preoccuparsi di rifare i letti e che, se pensavano di tornare, sarebbero stati i benvenuti. Paolo ringraziò. Con Anna risalì su in mansarda. Rifecero lo zaino. Raccolsero i panni che avevano lavato e che erano già asciutti. Si prepararono e partirono. Erano vestiti in modo identico: berretto con visiera, maglietta tecnica bianca a maniche corte, pantaloni corti, calzettoni rossi, pedule nere. Non c’erano tratti ferrati da percorrere quel giorno, solo un lungo giro di salite su forcelle e discese per valloni, durante il quale avrebbero visto diversi di quei laghetti glaciali di quota, che Anna aveva sempre amato sin da piccola, quando desiderava essere portata da suo babbo a vedere solo quelli, i laghi. I gestori del rifugio li salutarono con animo molto diverso da quello del giorno prima, quando Anna e Paolo s’incamminarono in direzione nord. Era entrata una storia nuova nella loro vita, una storia di montagna, non certo una delle tante. Nessuno dei due avrebbe mai saputo come definirla, se bella o brutta, ma il legame forte, che quei due ospiti appena partiti riusciva a comunicare loro, lasciava credere che ci fosse qualcosa di molto bello al fondamento di quello che di loro avevano saputo e a cui avevano appena assistito. Non avendo altre persone ospiti nella piccola struttura e avendo tutto il tempo per preparare il rifugio per l’arrivo dei primi escursionisti, li seguirono, mentre di spalle le due figure si allontanavano con quel loro singolare passo lento, corto e pesante – un passo meditato, aveva un giorno detto Serena – con cui erano arrivati, che aveva destato interesse il giorno prima, ma che ora forse aveva una sua spiegazione. Li seguirono finché le loro piccole figure non si confusero infine con il grigio della roccia, lentamente scomparendo dietro uno sperone e dirigendosi verso nord, nelle conche dei laghi.

La fioritura di anemoni e acetoselle splendeva là dove la roccia opponeva minore resistenza. In Anna, che aspettava i suoi laghi, infondevano allegria. Sempre lei procedeva davanti, con le sue robuste e abbronzatissime leve da esperta e sicura camminatrice. Era sufficiente che si abbassasse un po’ la calza termica, che arrivava a metà polpaccio, perché si notasse il contrasto tra la parte che aveva preso sole e quella che era rimasta coperta. L’altro segno, sulla coscia, era più sfumato, per via della diversa lunghezza dei pantaloni che indossava in escursione. La stessa cosa capitava a Paolo sul viso e sulle mani, dal momento che usciva abbastanza spesso anche in bicicletta: aveva il segno, davvero molto evidente, degli occhiali e dei guanti. Lui si cosparse di crema. Marchi di natura. Quelle prime ore erano le più infide, bastarde le aveva chiamate Serena un giorno: il sole non si sentiva ancora, ma bruciava ugualmente, come quello che invece avrebbero sentito nelle ore centrali della giornata. Avevano un altro rifugio come punto di riferimento. Vi si arrivava anche da sentieri più turistici e più frequentati di quello, decisamente meno noto, molto più lungo e dalle altimetrie più nervose, su cui si erano incamminati loro. Non incontrarono nessuno per tutta la mattina, finché non raggiunsero il rifugio, che trovarono invece molto affollato. Dovettero attendere per mangiare. Anna si accontentò di un piatto di insalata, su cui fece mettere del tonno, quando ebbe saputo che era disponibile. Altra delusione, soprattutto per Paolo e per quello che gli veniva rinfacciato come il suo ‘fondamentalismo nell’era sbagliata’. Non propriamente un piatto montanaro era quello di Anna, come quello di salsiccia e polenta, che invece aveva ordinato lui, il fondamentalista duro e puro, per cui la tradizione non era cosa su cui si poteva scherzare. Ma Anna non amava fare la montanara nei posti aggrediti dal turismo di massa. Per lei non era abbastanza montagna un posto in cui tutti facilmente potevano arrivare, come quel rifugio, che presto avrebbero lasciato per tornare in quello che era stato il regno della mamma e che per questo adesso Anna comprendeva anche come suo. Potevano starci anche la patitine con il ketchup in quel menu. Come sua mamma: più passavano le ore, più chilometri macinavano sotto i loro scarponi, più Anna assomigliava a Serena. Le assomigliava nella postura a tavola, nel modo di rispondere sorridendo, senza profferire parola; le assomigliava incredibilmente nel modo di procedere, con quell’andatura lenta e sempre regolarmente cadenzata, con quell’abitudine di pestare con forza il sentiero, come per aver la certezza di essere sulla strada giusta, o forse per aver la sensazione di farla propria. Era cresciuta e si era fatta lei pure donna. E ricordava la mamma soprattutto nel modo di interpretare l’esperienza del viaggio in alta quota: testa bassa, poche parole, passo lento e cadenzato, di giorno riflessiva, di sera più loquace, di giorno accoglieva e recepiva, apprendeva e comprendeva, di sera rispondeva ed esprimeva, interpretava e tentava di dare una forma a quanto udito, annusato, visto, percepito. Tutto sempre a stretto contatto con la realtà di quella montagna che, quando ci camminava sopra, avvertiva come firmamento e sostegno della sua vita, benché non ci vivesse. Lì cercava quelle risposte alle domande. Il babbo aveva anticipato la domanda quella mattina all’alba, dandole una prima risposta. Ma mancava la risposta alla domanda più importante, più impegnativa e, sicuramente, anche più dolorosa: perché solo adesso? perché aspettare che arrivassi ai diciotto anni? Creare le condizioni per quella prima rivelazione non era stata impresa così difficile. Procedere diventava un cimento più arduo. Ma era necessario? Non era forse tutto già abbastanza chiaro? Non aveva suo babbo già patito abbastanza dolore nel sentimento di colpa? Nel pomeriggio avrebbe visto finalmente i suoi amati laghi. E forse da lì qualche ispirazione sarebbe venuta. Quanto le piacevano i laghetti alpini, che si nascondevano in conche appartate, visibili spesso solo all’ultimo momento! I più belli avevano un’aria discreta, si facevano conquistare e si concedevano a pochi abili e forti camminatori. Forse per quello li amava. Paolo, invece, sembrava rimasto fermo a quel pianoro, quando le energie erano scemate e un grande gipeto gli aveva ridato il carburante necessario per arrivare alla prima destinazione: pensava ancora al volo di quel gipeto, che era apparso all’improvviso all’uscita del bosco la mattina del giorno precedente. C’era qualcosa che lo collegava a quelle ali e a quell’animale, che esprimeva troppa grazia nel suo volo lassù in alto, per non avere un significato importante; qualcosa che era in attesa. Ma occorreva tanta forza. Ancora non c’era quella sufficiente. Occorreva che quelle gambe lavorassero e faticassero ancora. Dovevano trovare l’agilità di quelle di Anna, dei camosci che con i loro balzi sulla roccia avevano consentito il balzo nel tempo e la rivelazione. Allora forse avrebbe trovato l’occasione per cui aveva ideato quel viaggio: occorreva assolutamente un’altra occasione. Il suo solito fondamentalismo lo induceva a pensare che essa fosse da ricercare necessariamente nella natura; aveva pretestuosamente escluso le persone da questa funzione. Ma la montagna gli stava riservando una sorpresa. E ancora una volta l’avrebbe dovuta ringraziare.

I laghi più belli, quelli che Anna desiderava raggiungere, erano quelli che si trovano più in alto, quelli detti laghi di circo, che anche nelle loro forme arrotondate ricordano la formazione dai circhi glaciali. Sono laghetti situati nelle conche, che con lo sciogliersi delle nevi assumono dimensioni maggiori, poi vanno riducendosi con l’avanzare dei mesi più caldi. Quella era senza dubbio la stagione più bella per ammirarli. Infatti proprio sulle sponde di uno di quelli incontrarono l’unica presenza umana della seconda parte della tappa, dopo la folla del rifugio: un giovane fotografo tedesco, che aveva scelto proprio quell’ultimo scorcio di primavera per fare foto sui laghetti alpini. Si misero subito a chiacchierare. Paolo parlava un po’ in tedesco, poi scelsero l’inglese per rendere anche Anna partecipe della conversazione. Il giovane avrà avuto al massimo venticinque anni. Quando Paolo vide che Anna si era messa a fare tante domande e il giovane aveva iniziato a farle vedere tante sue foto sullo schermo della sua macchina fotografica e sul suo cellulare, allora decise di lasciarli un po’ soli. Non avrebbe saputo dire quanto voluto o istintivo fosse stato  quel gesto di andarsene e di lasciarli lì da soli, con i piedi nudi a mollo nell’acqua, con le loro macchine fotografiche, di cui lui spiegava segreti e trucchi, con le foto già fatte e con altre in progetto. Erano belli da vedere quei due ragazzi che si erano appena conosciuti, pensò lui voltandosi indietro per un attimo e rischiando anche di cadere per la breve deconcentrazione. Paolo si arrampicò su una cengia ampia e comoda non distante dai due ragazzi, più alta di circa trenta metri, una specie di balcone naturale che si protendeva sul laghetto; quando fu in posizione buona e con la luce giusta, scattò una prima foto e poi altre. Ne riguardò alcune. Anna in una di esse era stata immortalata nella posizione tipica delle sue pause durante le escursioni: seduta per terra, braccia che abbracciano le ginocchia, sguardo rivolto in alto, ma con gli occhi chiusi. Come sua mamma. Si era tolta scarponi e calze e aveva immerso i piedi nell’acqua gelida del laghetto. Il giovane fotografo invece le girava attorno facendo foto adesso anche a lei. I due si stavano divertendo. Paolo scese, mentre il giovane stava preparando lo zaino per riporvi la sua attrezzatura di obiettivi, filtri e cavalletto. In tedesco, non in inglese questa volta, gli disse: “Sua figlia è veramente una brava ragazza! Complimenti!” Paolo gli rispose in inglese, in modo inavveduto: “Non è solo colpa mia. Di solito si è in due a ottenere questi risultati.” Il ragazzo sorrise: “Complimenti anche alla mamma, naturalmente.” Non c’era bisogno di dare spiegazioni: fu questo il senso dell’occhiata che si incontrò tra Paolo e Anna. Ripresero la marcia salutandosi. Paolo disse: “Non mi sembra il tipo da non aver approfittato del mio allontanamento per chiederti il numero di telefono.” Anna non disse nulla. “Chi tace acconsente,” commentò Paolo. “Mi ha chiesto se sono su Instagram per mandarmi le foto,” rispose Anna. “Ah già, adesso il telefono non è più di moda,” disse Paolo, dovendo amaramente accettare il divario generazionale. “Si chiama Henrik. Sua mamma è danese, suo babbo bavarese. Ha venticinque anni. È in vacanza in Italia con un gruppo di amici appassionati di ciclismo. Lui oggi ha preferito camminare e fare foto. La sera si ritrovano in albergo, vicino ai campeggi.” Paolo disse: “Secondo il mio punto di vista, a una ragazza potrebbe anche piacere uno così.” Anna sorrise dicendo: “Sono le mamme che di solito fanno queste osservazioni. Ma qui evidentemente …” “… qualcuno ha dovuto per forza prenderne il posto.” Anna si rimise velocemente calze e scarpe, gli saltò a fianco, lo prese per braccio allegra e disse: “Mi piaci di più quando racconti storie di montagna, storie di gnomi e streghe, storie di comunità dimenticate. Andiamo! Abbiamo ancora tre ore di marcia e altri due laghi da vedere, che non mi voglio assolutamente perdere. Henrik ci è già passato. Ha detto che le ore in cui li vedremo noi saranno le più belle. Mi ha detto di fare tante foto e di mandargliele.” Paolo questa volta rimase serio commentando: “Ci sa fare il tipo, eh. Vede una bella ragazza mora, alta; vorrebbe provarci, ma, c’è un ma: è con suo padre. Bisogna giocare d’astuzia. Approfitta di un attimo in cui il padre si allontana e parte all’attacco con l’artiglieria pesante …” “No, no. Fermo. Per prima cosa non è stata usata nessuna artiglieria, tanto meno pesante; in secondo luogo nutro il fondato sospetto che tu ti sia allontanato apposta. Quando mai ti sei messo a farmi foto da lontano su un laghetto alpino? Dimmi! Quando mai, babbo?” Paolo non disse nulla. Non avrebbe più parlato di artiglieria. “Andiamo, babbo! Su. Ne abbiamo ancora tanta di strada da fare.” Quanto le somigliava! Anche quell’episodio aveva contribuito ad aumentare la sensazione che, crescendo e facendosi donna, Anna prendesse da quella mamma, ormai presente solo in foto, ogni movenza, ogni modo di rispondere, di alludere, ma soprattutto di scherzare. Anna giocava con la vita. Amava giocare con tutte le situazioni che la vita le proponeva, anche quelle più delicate. Riservata e non certo estroversa, riusciva a irradiare comunque una positività che faceva invidia anche al babbo, ai suoi parenti e ai suoi amici e amiche, pochi ma ben scelti. Nessuno aveva avuto naturalmente il coraggio di farle mancare nulla nell’infanzia, così come poi anche nell’adolescenza. Essere figlia unica l’aveva inoltre investita di una responsabilità ancor più grave e seria in quella casa di città in cui vivevano in due, ma in cui frequenti erano sempre state le visite di nonni e zii. La donna di casa ormai era lei, e non certamente da oggi. Paolo la lasciò andare avanti anche questa volta. Anna tacque e si lasciò pervadere di nuovo dalla forza segreta di quel vento che veniva freddo sul suo volto. Paolo la seguì. Fecero tante foto e, quando si trattò di fare quelle per Henrik, sorprese Anna dicendole: “Se vuoi, te ne faccio qualcuna anche con te.” Era una strana sensazione quella che come padre stava vivendo. Quando mai un padre non è sospettoso delle mire di un ragazzo sulla figlia? Unica figlia, per di più. Non vengono chiamati mosconi dai padri quelli che girano come ronzando attorno alle figlie? Eppure, Paolo si sentiva parte di una situazione nuova. Anna aveva già avuto proposte da un ragazzo proprio quell’anno, ma a lei non piaceva. E non piaceva nemmeno a lui. “A te piace, babbo, Eugenio?” Così si chiamava il ragazzo, compagno di scuola, ma non di classe, e coetaneo di Anna. Paolo, che conosceva il ragazzo e anche la sua famiglia, senza esitazione alcuna, rispose: “No, non mi piace.” E Anna, sempre senza esitazione alcuna, aveva risposto decisa: “Allora non piace nemmeno a me.” E tutto finì così. Tale era l’affiatamento tra i due. E grazie a quell’affiatamento, quando passarono accanto alla parte terminale di un piccolo ghiacciaio, sotto il quale era la conca dell’ennesimo laghetto, e Paolo volle fare una foto ad Anna con il ghiacciaio alle spalle, volendola sorridente le disse: “Prova a sorridere.” “Ho il sole basso in faccia, babbo. Non ci riesco.” “Pensa a Henrik!” “Ecco, adesso ci riesco.” Affiatamento tanto, reticenze nessuna. Ma quando si trattava della mamma tutto era maledettamente diverso e tutto maledettamente si complicava, si contorceva e si aggrovigliava nell’anima, prima ancora che in gola. Le parole uscitegli quella mattina all’alba, potevano essere l’inizio di un cambiamento, di una fase nuova. Non forziamo la realtà, pensò Paolo. Arriverà il momento, ne sono sicuro. La montagna ci offrirà sicuramente l’occasione prima o poi, forse in questo viaggio, forse in un altro. Non si può dire. Ci sono in quell’abisso, che è ancora una melmosa cloaca di dolore, cose che fanno ancora molto male, che hanno avuto il potere terribile di provocare anni di dure difficoltà nel relazionarsi con gli altri, spesso anche di autentica depressione. La presenza di Anna è stata come una specie di carburante, che gli ha sempre consentito di andare avanti e di superare quei momenti di abbattimento, di uscire da un tunnel che sembrava non aver fine. Fu un giorno di cinque anni prima che il viaggio della vita vissuta, e non più solo subita, poté ripartire. Anna aveva tredici anni, ma viveva, ragionava e si atteggiava già da donna di casa. Era naturale che fosse così. Ha sempre avuto per forza di cose una maturità superiore alle sue coetanee, un modo di interiorizzare gli episodi della vita diverso da quello delle sue amiche e coetanee. Gli altri, parenti e amici, glielo dicevano; gli insegnanti glielo ricordavano. Ma Paolo era restio ad ascoltare quei riferimenti. Gli sembrava una specie di profanazione di un monumento e di uno spazio che non poteva e non doveva essere condiviso. Avrebbe cambiato idea con il passare degli anni e con il crescere di Anna. Ebbene, quel giorno di giugno, appena dato l’esame di terza media, Anna chiese di andare in montagna. Paolo parlò in banca con il suo direttore, il quale fu ben felice che un impiegato gli chiedesse di avere ferie a metà giugno, quando nessuno le chiedeva, e non a Ferragosto. Partirono per quindici giorni con le bici e da quelle due settimane con Anna in alta quota, tra rocce e laghi, cenge e rifugi, ferrate ed escursioni per scattare anche solo fotografie, pedalate su sentieri più o meno ripidi, ritornarono cambiati. Soprattutto lui ritornò diverso, perché comprese che l’artefice vera della sua ripresa sarebbe stata proprio Anna. E da allora si affidarono l’uno all’altro, in un rapporto di fiducia nuovo, ora alla pari, che trasformò radicalmente Paolo. Il monumento e lo spazio sacro potevano adesso essere anche condivisi. Ancora una volta il suo fondamentalismo sarebbe stato messo duramente alla prova dei fatti. Quando mai avrebbe finito di avere pretese dalla sua vita? Quando mai sarebbe riuscito ad avere della vita un’idea meno esclusiva, meno rigida, meno ingessata? Al fondamentalismo vero di suo babbo, che vedeva riferimenti spirituali in ogni aspetto della natura, Paolo aveva sostituito una nuova forma di integralismo, in un certo qual modo, naturalistico, comunque troppo rigido per essere gradito da chi non lo conosceva bene. Quella montagna, su cui con più energia aveva trovato espressione la sua visione rigida della vita, sarebbe stata, proprio lei, l’artefice di una rivelazione inattesa; insomma, una scoperta vera e propria, come quella di una nuova via per un alpinista.

Arrivarono al rifugio con notevole ritardo, quasi alle sette di sera. Trovarono posto facilmente. Anche lì, per la stagione appena all’inizio, non c’era alcun altro ospite. I gestori erano stranieri però. Venivano dall’Europa orientale e la comunicazione fu più difficile, non per ragioni linguistiche, ma perché mancava quell’afflato con la montagna che quelle persone, sradicate dalle loro terre e dalle loro identità, avrebbero dovuto invece avere. Altro segno di cambiamento. Altra piccola delusione. Ma anche altro insegnamento che i cambiamenti, ogni tanto, sarebbe bene accettarli. E ancora una volta, la terza, in un rifugio: prima il comportamento rigido dell’accoglienza, poi la folla da turismo di massa, ora la presenza di persone brave e gentili, ma fredde e dall’apparenza inadeguata in quel contesto. Il tempo per fare la doccia e poi sarebbero scesi decisamente più affamati della sera prima. Essendo unici ospiti, mangiarono insieme ai gestori, di cui ammirarono la capacità di reggere alla quantità di vodka che bevvero e che ripetutamente fu loro offerta e sempre rifiutata. Era fatta sicuramente in casa, quasi imbevibile per la gradazione molto alta, che rendeva impossibile distinguere addirittura che liquore fosse, se non fosse stato detto loro che si trattava di vodka. Il tramonto fu uno spettacolo di quelli che non annoiano mai, tanto meno loro due. Le pareti del massiccio di fronte a loro terminavano in una serie di denti che si alzavano appuntiti come piccole torri. Il sole scendeva, passando tra l’uno e l’altro di quei pinnacoli rocciosi, illuminando le rocce di fronte, quelle su cui era appoggiato il rifugio e che, così battute dall’ultima luce, assumevano quella caratteristica colorazione rossa, che Anna immortalò in tantissime foto. “Belle, davvero!” Commentò Paolo, quando Anna gliele fece rivedere sullo schermo della macchina fotografica. “Le hai mandate a Henrik? Forse gli piacerebbe vederle.” Anna lo guardò in modo strano. Non era da lui fare così. “Pensi che debba mandargliele, anche se non sono laghi?” Paolo rifletté serio: “Io lo farei.” Parole autentiche, senza nulla di svenevole. Anna era sempre più frastornata dal comportamento di suo babbo. Le avevano tante volte ricordato che il cambiamento della percentuale di ozono nell’atmosfera al di sopra dei 2000 metri poteva modificare il comportamento umano, ma non credette che potesse arrivare a tanto. Suo padre era stato sempre molto geloso di lei e molto attento alle sue amicizie e frequentazioni. Questa volta la lasciava comunicare con un giovane fotografo tedesco appena conosciuto poche ore prima sulle sponde di un laghetto alpino. Non solo: la esortava a farlo, quando lei non ci pensava, nei davvero pochi momenti in cui il pensiero di Anna non andava a Henrik. Stava veramente succedendo qualcosa. Tutto, in quel viaggio, aveva cominciato ad avere un sapore non più sinistro, ambiguo, indecifrabile, ma almeno singolare, da quando quel gipeto era apparso sul grande pianoro all’uscita dal bosco, alla fine della dura salita iniziata in paese. Paolo ne era assolutamente convinto. Tutto era iniziato a cambiare in quel momento. Trascorsero la sera sulle carte. L’indomani era la giornata più attesa da Paolo: avrebbero affrontato la grande ferrata che li avrebbe riportati ai piedi del pianoro del primo giorno. Da lì infine sarebbero ridiscesi in paese. Paolo sapeva che quella appena trascorsa era stata la giornata dei laghi, la più attesa invece da Anna. La ragazza ebbe un atteggiamento insolitamente poco partecipe ed evasivo, quando lui le descriveva a cena e dopo cena l’itinerario del giorno dopo. Paolo rimase convinto che pensasse a quel giovane fotografo tedesco, a Henrik. E invece, quando furono saliti nella mansarda e si furono messi dentro al sacco a pelo, Anna, che aveva preso posto su una branda in un angolo lontano, disse: “Non ti lascerò mai, babbo.” Paolo non se lo aspettava. Fu colpito da quella sciabolata veramente a tradimento. Parole puerili in apparenza. Eppure dietro quelle sembianze tradivano qualcosa di profondamente vissuto, soprattutto temuto. Così non doveva finire il viaggio. “Buona notte, Anna. Non pensare a me. Tu avrai la tua vita, io avrò la mia, come è giusto che sia, arrivati a un certo punto delle nostre vicende.” Anna si alzò a sedere e disse: “Non riesco a immaginare come noi due possiamo avere vite separate.” Paolo non trovava le parole, avvertendo sempre di più la sensazione di essere stato colpito sul lato scoperto. Le cercava, ma non le trovava. E non arrivarono. Anna si distese di nuovo: “Notte, babbo. Voglio rivedere l’alba domani mattina.”

Paolo iniziò a raccontare una storia, una di quelle che Anna amava sentire raccontare la sera come favole della buonanotte. “C’era una volta una bellissima ragazza che viveva ai bordi di un lago. Tutti la ammiravano, ma lei, non appena uno si avvicinava al lago, si immergeva in acqua e scompariva. I contadini erano convinti che fosse una ninfa e iniziarono a venerarla come una dea. Era molto timida. Un giorno la montagna franò sul villaggio. Tanti morirono. Quelli che sopravvissero rimasero isolati dal resto del mondo. I contadini allora mandarono il loro più anziano, una specie di stregone, a parlare con la ninfa, perché li aiutasse. Lo stregone salì fino al lago. Sapeva che la ragazza non si faceva avvicinare da nessuno. La vide e, senza farsi vedere, la chiamò e le disse: ‘Sono venuto a chiederti di aiutarci, tu che sei sicuramente una dea delle acque. Una frana ha ucciso tanti di noi nel villaggio e chi è rimasto ora è isolato.’ La ragazza ascoltò e rispose: ‘No. Non posso aiutarti. Sono troppo timida e ho paura a lasciare il mio laghetto. Mi dispiace.’ Lo stregone allora disegnò un grande arcobaleno che univa le montagne intorno al lago e ci passava sopra. ‘Ecco, vedi. Ho grandi poteri anch’io. Se uniamo le forze, probabilmente riusciamo a salvare le persone del villaggio.’ La ragazza fu ammaliata dal grande arcobaleno e disse allo stregone: ‘Sono triste, perché sono timida. Se mi mandi un bellissimo giovane, il più bello del villaggio, mi farai felice e allora vi salverete tutti.’ Lo stregone scese nel villaggio e riferì la risposta. Tutti i giovani sopravvissuti vennero convocati e fu scelto il più bello, che accompagnò lo stregone su fino al lago. Si chiamava Antelao. La ragazza non c’era. Lo stregone fece avvicinare il giovane ai bordi del lago, rimanendo nascosto e disegnando di nuovo un grande arcobaleno, come quello che aveva ammaliato la bella ragazza. La ragazza allora uscì. Vide il giovane. Lo prese con sé e insieme si immersero nel lago. Quando lo stregone fu sceso in villaggio, iniziò a piovere a dirotto. Piovve per giorni e giorni, tanto che il lago tracimò e l’acqua, scendendo scavò un passaggio dove la frana aveva chiuso la valle. Lo stregone disegnò il suo arcobaleno sui monti per ringraziare la bella ninfa. Di Antelao e della ninfa del lago non si seppe più nulla. Nessuno li vide più. Da quel giorno il lago si sarebbe chiamato per sempre lago della Ninfa e il monte dietro di lui Antelao.”

“Non me la ricordavo questa,” disse Anna. Paolo non amava dire che se l’era inventata sul momento. Lo avrebbe potuto fare alla bambina che Anna non era più. Ma adesso era meglio tacere. Si raschiò la gola e tirò su con il naso, nel modo nervoso che Anna ben conosceva. Si girò dall’altra parte verso il muro: “Buona notte, piccola.” Sentì solo un sospiro venire dalla branda di lei. Forse anche un singhiozzo trattenuto. Forse.

La grande ferrata

Si alzò da sola, Anna, per vedere l’alba questa volta. Non c’erano poltrone né panche su cui sedersi. I gestori avevano raccolto tutto dentro un ripostiglio adiacente all’edificio. Anna si sedette per terra. Davanti a lei si apriva un canalone buio, che scendeva ripido in direzione sud; alla sua destra la ripida frangia rocciosa su cui era adagiato il rifugio e su cui avrebbero presto attaccato la ferrata, con la quale avrebbero raggiunto una delle tante aguzze cime del massiccio, sarebbero ridiscesi sull’altro versante e, dopo aver valicato un’ultima forcella, si sarebbero ritrovati al pianoro di partenza; alle sue spalle il sentiero dei laghi da cui erano arrivati; alla sua sinistra, risalendo il pendio del canalone, si trovava al buio l’altro massiccio roccioso, da cui Anna attendeva la salita del sole. Era stata una notte rigida, ma dentro al sacco a pelo non aveva sentito il freddo. Ora il vento si stava alzando. Le previsioni meteo non erano così belle per quell’ultima giornata, come lo erano state per le prime due. Ma fino alle prime ore del pomeriggio non avrebbero corso pericolo, aveva detto con un filo di voce suo babbo ieri sera, mentre lei lo ascoltava, apparentemente assente. Aveva capito di aver dato l’impressione di essere assente; e invece pensava a lui, al babbo, in quel momento in cui invece Paolo credeva che lei vagasse chissà dove con la mente; pensava alle loro montagne, pensava a quanti chilometri e a quante giornate avessero passato insieme; pensava a quanta fatica era stata espiata lassù. Perché? A che fine? Con quale risultato? Il sole iniziava ad apparire dietro le creste turrite alla sua sinistra. Perché erano ancora lì a giocare con la memoria? Che cosa li richiamava con tanta forza lassù? Erano tutti e due vittime dello stesso maligno destino, pensò Anna, riflettendo su quelle previsioni meteo. Anche quel passaggio il tempo richiedeva come necessaria espiazione. La ragazza era abbastanza intelligente da aver capito che, crescendo, per lui, per il babbo, era di giorno in giorno sempre più naturale che pensasse alla persona che aveva perso e che in lei ne rivedesse movenze a fattezze. Era la cosa più naturale. Ed era una cosa bella. Ma non era comunque comprensibile un attaccamento a quelle montagne, che assumeva quasi la forma di quello a un feticcio in certi momenti. Doveva esserci una spiegazione. Le sfuggiva. Da tempo, da quando, crescendo, aveva iniziato a porsi quelle domande, Anna cercava di cogliere in lui ogni gesto, ogni parola, ogni velato sintomo che lo tradisse. Ma Paolo sapeva dissimulare troppo bene. Anche quando l’aveva lasciata sola con Henrik aveva dissimulato. Non era pensabile che lui fosse felice, al pensiero che lei potesse essere portata via da quel fotografo straniero. Non era pensabile che lui fosse felice all’idea che loro due, Anna ed Henrik, comunicassero scambiandosi foto di montagna su internet. Dissimulava, con grande accortezza e sagacia; ma dissimulava. Non poteva essere diversamente. E ieri sera lei lo aveva addirittura colpito a tradimento. Che errore aver pronunciato quella frase, senza aver contatto fino a dieci prima! Anna non si dava pace all’idea di aver commesso un errore così grave. Il sole si alzava velocemente. Aveva già superato le creste dentate e il canalone aveva subito cambiato tonalità di grigio. Presto sarebbe diventato la grande pietraia bianca su cui la sera prima avevano accompagnato il tramonto del sole. Ritornò dentro. Risalì in mansarda. Il babbo si stava preparando per la ferrata. Era già pronto, addirittura con l’imbrago. Pagarono velocemente il gestore, dopo aver preso un caffè e diviso una tavoletta di cioccolato. E partirono, sapendo che la ferrata era lunga e che il meteo prometteva pioggia per il pomeriggio. Paolo era serio.  Davvero molto preoccupato era il suo sguardo. Lo denotava chiaramente il modo inusuale in cui nervosamente finiva i preparativi. Anna aveva capito tutto. Era evidente la ragione. Era stata la lettura di quelle previsioni che aveva scavato nell’abisso della sua anima quello che lui non riusciva oggi più a dissimulare: paura. Sul cellulare di Anna arrivò una notifica da Henrik. Le aveva chiesto il numero di telefono. Se lo erano scambiato. Il babbo non lo sapeva. Paolo era talmente nervoso e agitato, che non prestò attenzione ai movimenti di Anna che, prima di partire, aveva mandato un messaggio a Henrik. Ora era arrivata la risposta. Anna gli aveva detto che stava partendo e che lo salutava. Henrik ora le rispondeva che voleva rivederla assolutamente prima di tornare in Germania. Anna guardò il babbo. Non rispose a quell’ultimo messaggio. Partirono velocemente, attaccandosi subito al cavo con i moschettoni. La salita era ripida sin da subito. In cordata Paolo stava sempre davanti. Era diverso. Incrociava i moschettoni, sbagliava l’aggancio al cavo al primo colpo. Compiva gesti distratti e insicuri. Arrivarono in cresta e videro sull’altro versante le nubi in arrivo, ancora a distanza di sicurezza. Ma l’agitazione di Paolo crebbe. In discesa perse l’equilibrio più volte. Mai successo. Anna a un certo punto gli chiese se tutto andava bene. Lui disse di sì. Mentiva. Anna non ribatté, non voleva indagare. Per diciotto anni non lo aveva mai fatto. Non lo avrebbe mai fatto nemmeno quel giorno. Ci sarebbe stata una seconda cresta da valicare, prima di iniziare la seconda e definitiva discesa sul pianoro. Quando l’erta si fece dura sulla roccia e ricominciò il cavo, Paolo, per la prima volta da quando andavano insieme in montagna, lasciò Anna andare davanti in una ferrata. Salirono anche su quell’ultima cresta, agganciando e sganciando i moschettoni dal cavo con gesto rapido e nervoso, benché le nubi non mandassero ancora segni preoccupanti. In cima Anna si sedette. Raramente c’è posto per due su una cima. Lì c’era e Paolo si sedette accanto a lei. Mangiarono una barretta. Altro messaggio. Lassù il segnale era perfetto. “Sono arrivato. Quando sarai arrivata in paese anche tu, vorrei salutarti.” Anna guardò il babbo. Paolo aveva capito da chi venivano quei messaggi. Non riusciva più a dissimulare. Era nervoso. Aveva paura. Come avrebbe reagito a una seconda partenza? Se aveva nuovamente saputo dare un senso alla sua vita, tutto era dovuto a quella ragazza meravigliosa che aveva sempre saputo illuminare le sue giornate. Sentiva che la stava perdendo, si chiamasse o no Henrik la causa, fosse italiano o no, fotografo in vacanza o malgaro al lavoro con le giovenche; sapeva che era giusto così, ma non era pronto. Anna gli mise un braccio attorno al collo: “So a cosa stai pensando.”

Paolo non disse nulla, slacciò le cinghie superiori dello zaino, poi quelle inferiori, lo poggiò davanti per terra, aprì la piccola tasca superiore, ne estrasse una piccola scatola bianca. “Adesso sono tuoi. A me non servono più. Sei tu che li devi tenere. Li ho conservati solo per te.” Anna aprì la scatola. Erano gli orecchini della mamma. “Mettili.” Anna li mise. “Ti stanno proprio bene.” Anna era commossa. Non sapeva cosa dire. Era stato tutto calcolato. Su quella cresta sarebbe stato dato il dono del gipeto. “Adesso mi sento veramente libero. E quando rivedrò dal vero quel gipeto che ora porti addosso, ne avrò la conferma. Lo cercherò senza sosta. Prima o poi lo vedrò.” Anna si alzò. Il vento rinforzava. Paolo si alzò dicendo: “Credo sia opportuno scendere: restare qua non è prudente.” Anna sapeva bene cosa intendeva e a cosa pensava. In discesa Paolo tenne la corda più lunga, in modo che Anna potesse stare più lontana. La discesa era meno ripida della salita. Arrivarono al pianoro. Lo attraversarono e iniziarono subito a scendere per lo stesso ripido sentiero, che attraverso il bosco li portava giù in paese. La discesa fu molto veloce per il timore di essere colti dal temporale, che si stava minacciosamente preparando. Arrivati sui prati da cui si vedevano le prime case, mentre i primi radi goccioloni pesanti, ma ormai per loro innocui, iniziavano a scendere, Anna mandò un messaggio a Henrik: “Ci vediamo alle 18 al pub sotto la chiesa.” “Ti aspetto lì,” fu la risposta immediata. Un fulmine si vide in lontananza, lo seguì un forte fragore: “Appena in tempo,” disse Paolo. Anna pensò ad un altro colpo di fulmine. “Henrik mi chiede di andare con lui al pub a bere qualcosa. Abbiamo tante foto da vedere.” Paolo sorrise: “Anna, non mentire a me. Non lo hai mai fatto. Tu hai chiesto a lui di andare a bere qualcosa. E lui ha detto di sì.” Anna non mentiva mai con il babbo. Arrossì. Si vergognava di quello che aveva detto. “Scusa. Hai ragione. Credo che stia … non so come dire.” “Non c’è nulla da dire. Penso soltanto che sia successa la cosa più naturale che possa verificarsi quando una ragazzo e una ragazza si sono conosciuti in un bel posto, hanno capito di avere qualcosa che li può unire e, come dire?, credono di potersi piacere. E, aggiungerei, se questa cosa che vi può unire è la montagna, tu sai che non ti ostacolerò mai. Conoscetevi. Mi sembra un bravo ragazzo.” Anna adesso ebbe il forte impulso di procedere con la sua missione: avrebbe voluto chiedere, ma ormai era inutile. Ormai era chiara la risposta alla domanda che lui teneva segreta da anni: un senso di colpa lo aveva sempre portato lassù, a soffrire, a camminare fino a logorare piedi e scarpe. Il babbo doveva espiare. E l’aveva trascinata come compagna in quel cammino sempre arduo, sempre più impegnativo, con traguardi anno dopo anno, uscita dopo uscita, sempre più elevati. Avevano camminato per ben venticinque ore in tre giorni. In quell’ultima giornata erano state dieci le ore di cammino. I piedi erano pieni di vesciche, avevano sfondato due paia di calze a testa e la ferrata aveva lasciato i suoi segni con vari graffi su braccia e gambe. I capelli erano appiccicati dal sudore; le maglie termiche fradicie sulla schiena. Se dovevano espiare, quella volta avevano espiato abbastanza, pensò Paolo. Basta. È finita. Il cammino è terminato.

Gli amici gli mandarono un messaggio: “Vieni stasera con noi al bar del campeggio! C’è una festa. Ottimo vino, buona musica e tanta bella gente.” Il gipeto ora può finalmente volare libero. Andò alla festa. Anna uscì con gli orecchini della mamma. L’avrebbe rivisto. Doveva rivederlo. Sì: sarebbe tornato lassù solo per quello, solo per ringraziarlo. 

E senza più alcuna pretesa.

 

 

© 2018. Stefano Tramonti

Occhi neri

Il viaggio doveva finire così come era iniziato. Ma non poteva finire senza che ne fosse spiegata la ragione. Quella spiegazione, a lungo cercata, fu resa impossibile dalla paura. Paura reciproca, paura della domanda sul perché, ma soprattutto della risposta a quella domanda, una volta che essa fosse stata formulata. Tutto quanto, la domanda e la risposta, la modalità di formularle, l’occasione in cui poterle esprimere, tutto diventò terribilmente impegnativo a un certo punto; tanto che bastò un sorriso eloquente per capire, reciprocamente, che ormai tutto era chiaro ugualmente, anche senza le parole. Eppure quelle parole, che l’ansia, il dolore, la pioggia, il vento, i fulmini, la fatica avevano sempre frenato in quel memorabile viaggio, erano ancora lì, sospese intorno a lui, unico testimone rimasto di quella meravigliosa e straordinaria esperienza giunta al suo traguardo. L’esperienza di un semplice dono, ideato, pensato, progettato e realizzato senza alcuna pretesa, senza la minima intenzione di conferirgli significati particolarmente importanti o impegnativi. Riccardo la seguì fino alla sua fine, di lei e del viaggio. Tutto era in quel foglio che teneva piegato in tasca. Doveva essere un ricordo lungo. Quelle che rimasero furono invece poche parole. Non c’era bisogno di tante parole, dopo la gioia di quei silenzi, di quelle montagne, di quei laghi e di quei sontuosi paesaggi, che avevano fatto da scenario alla parte senza dubbio più bella della loro storia d’amore, proprio nel momento in cui il corso di quella medesima storia sembrava destinato a spezzarsi, giunto a un bivio e costretto a dividersi. Non ascoltò nulla di ciò che veniva detto, dava la mano e ricambiava baci senza pensare. La sua mente ripercorse tutte le tappe del viaggio. Otto tappe, per l’esattezza. Le ripercorse come si ricostruisce un sogno, affidandosi a quella parte dell’anima che si era sempre lasciata ammaliare dall’ineffabile potenza dei suoi dolci occhi neri, che laggiù per lui non si sarebbero, invece, mai chiusi. L’unica voce che sentiva era quella di Sonia; l’unico soffio che sentiva era il respiro di Sonia; l’unico luce che vedeva erano gli occhi neri di Sonia. Non c’era più nessuno attorno a lui in quella folla di parenti di lei, parenti di lui, amici, colleghi e conoscenti. C’era solo l’allegria di due bici e la gioia, insperabilmente ritrovata, di due persone in viaggio, alla ricerca di tutto ciò che le aveva tenute unite.

Prima tappa

Per la partenza fu scelto il ponte degli Alpini di Belluno. Avevano lasciato l’auto in un parcheggio abbastanza frequentato. Lì avevano scaricato le bici. L’abbigliamento era già quello tecnico sin dalla partenza da casa. Erano partiti alle 6 del mattino. Alle 9,30 avevano già scaricato le bici, caricato le borse da viaggio ed erano sul ponte che avevano scelto per la partenza. Il Piave scorreva davvero molto lento sotto di loro, mentre si fermarono. Entrambi risalirono con lo sguardo dal parapetto a monte del fiume in direzione nord. Un orizzonte pallido li chiamava attraverso i bagliori di un sole indeciso, che appariva e scompariva tra grandi nuvole bianche. I contrafforti delle Dolomiti bellunesi proteggevano un percorso a cui Riccardo aveva attribuito un grande significato. Sonia lo aveva ascoltato e aveva accettato. La divisa che indossavano era identica: era quella gialloblu del loro gruppo amatoriale. Nelle borse ne avevano altre due come ricambio. Non avevano fissato tappe. Non avevano fissato mete. Avevano fissato solo un obiettivo: sfruttare un viaggio e un’esperienza di fatica e di sacrificio come cartina di tornasole di una parte della loro vita, che era stata recentemente segnata da tanti, troppi errori. Riccardo si era chiesto se avesse forse sovraccaricato di valore quel viaggio che stava iniziando. Sonia non si chiedeva niente. Avrebbe soltanto desiderato un giorno chiedere perché lui lo avesse fatto, ma temeva che quella domanda lo potesse spaventare. E lì su quel ponte la domanda era quella. Un grande masso luccicava nel letto del blando fiume: un merlo acquaiolo era appollaiato su di esso, un simpatico uccello che è in grado di nuotare e camminare sul fondo dei torrenti, senza nessuna difficoltà. Vederlo lì a due passi dalla città, con il suo petto bianco orgogliosamente rivolto al sole, non era una sorpresa per lei, che estrasse subito la sua macchina fotografica e colse la sua prima occasione.

“Lui sa camminare e nuotare sui torrenti di montagna e lo fa con incredibile naturalezza, senza alcuna difficoltà,” disse Sonia, rallentando la pronuncia e abbassando il tono della voce quando pronunciò le ultime tre parole: ‘senza alcuna difficoltà’.

“… già, senza alcuna difficoltà”, ripeté Riccardo che cercò di capire il riferimento delle parole della sua compagna di viaggio. Avevano fatto chilometri in auto senza parlare. Sonia aveva dormito. O meglio: era stata con gli occhi chiusi. Erano le prime parole che si scambiavano dalla partenza. Era il primo di una serie di lunghi silenzi che sarebbero stati costretti a subire e ascoltare. Silenzi che non sarebbe stato certamente facile colmare, dopo quanto accaduto negli ultimi tempi. Quel riferimento non piacque affatto a Riccardo: ‘senza alcuna difficoltà’.

Riccardo ripartì lentamente, quasi per conservare meglio nella memoria quella prima tappa, la partenza, il bianco del moderno ponte degli Alpini di Belluno che con il suo traffico di auto, la sua mole invadente e la sua pista ciclabile, contrastava in modo notevole con il più noto ponte degli Alpini di Bassano sul Brenta, ligneo, pedonale, storico, antico. Ma a Bassano non c’era in fondo al ponte il monumento dell’alpino che guarda rivolto ai monti, come lì a Belluno. Riccardo si fermò accanto al monumento e, quasi seguendo la direzione indicata dal drappeggio della mantella dell’alpino ritratto, i suoi occhi si proiettarono su verso le cime ancora abbondantemente innevate in direzione dell’Agordino. Sonia sapeva che con quelle cime lui aveva un dialogo continuo e sapeva che quel viaggio era un’ennesima ricerca di risposte a quel dialogo che proseguiva da anni. Lo sapeva perché anche lei era accomunata da un passato identico, da un dialogo con altre cime, in Appennino, dove una famiglia l’aveva accolta bambina e fatta crescere nel rispetto di quel paesaggio. Confrontarsi con la montagna per loro era confrontarsi con se stessi, non solo con i propri limiti nel corpo, ma anche con il proprio passato nell’anima. Ebbene, quel dialogo da un po’ di tempo si era interrotto. Era mancata una motivazione per cercarlo, non si erano più create le occasioni per ritrovarlo. Il tempo era stato lasciato scorrere con la stessa lentezza apparentemente apatica e placida, ma inesorabile, di quel fiume che avevano appena attraversato. Il progetto di Riccardo prevedeva tanti fiumi da vivere. Da loro forse avrebbero imparato come riprendere quel colloquio che si era interrotto.

“Quella cima è un punto di partenza per un secondo viaggio doppiamente importante, che inizia proprio quando ci sei arrivato dopo quello che avevi creduto che fosse il cammino principale. Lì parte tutto.”

“Qualcuno ha scritto che dopo l’arrivo in cima c’è solo la discesa.”

“Quel qualcuno non sa ascoltare,” chiuse il discorso lui, ripartendo in direzione della piazza dei Martiri, dove avrebbero mangiato qualcosa prima di partire lungo il Piave. Lasciarono le bici fuori da un bar ed entrarono a sedersi. Non c’era nessuno. Presero due paste e un caffè. Vedendoli silenziosi il barista commentò: “I ciclisti fanno sempre una gran confusione quando si fermano qui!”

Non ebbe risposta. I due restarono silenziosi. Lui controllò il navigatore, che aveva tenuto in carica in macchina, e cercò la strada su cui correva una specie di ciclabile. Si trattava in realtà una stradina a basso traffico, su cui avrebbero evitato il pericolo delle auto, per arrivare a Ponte nelle Alpi. Lei si fidava di lui. “Oggi siete tutti tecnologici,” provò ad attaccare discorso per una seconda volta il barista. Questa volta Riccardo disse: “È solo per evitare di tenere carte ingombranti. Ma le carte non si scaricavano mai. Quanto erano più belle!”

“Allora sei tecnologico per necessità, non per scelta.”

“Per una necessità scelta”, rispose Riccardo con il suo solito scostante tono, quello tipico di chi non vuole replica. Sonia conosceva quel suo modo di fare, quando non voleva partecipare alle discussioni, e non lo sopportava. Lei avrebbe cercato di dare soddisfazione a quel barista, che non aveva clienti nel bar e che cercava solo di rompere il silenzio e la monotonia, forse anche la noia. Usciti dal bar e risaliti sulle bici, Sonia inspirò la fresca aria che scendeva dalle montagne nello scenario di quella bella piazza. Riccardo consultava il navigatore. Lei sapeva che solo gli occhi erano puntati su quell’aggeggio elettronico; lei sapeva che la sua anima era altrove. Lo aveva capito dal silenzio in auto, dal silenzio con cui cui aveva scaricato e preparato le bici nel piazzale, dal modo con cui aveva evitato di dialogare con il barista. E sapeva le ragioni di quei silenzi. La innervosivano. La inquietavano. Lei sapeva anche dove stava vagando l’anima di lui in quel momento, perché la sentiva prossima, vicinissima alla sua. Ma era troppa la paura di infrangere il segreto di quel volto serio che non sapeva sorridere. Stavano prendendo quel viaggio come una pretesa? Stavano conferendo a quel viaggio un significato eccessivo, troppo serio? Cosa stava succedendo? Sonia non lo capiva. Lo immaginava. Ma sapeva che Riccardo stava facendo qualcosa per lei. Perché lui lo avesse deciso, perché lei avesse accettato quella sfida importante, perché insieme avessero preparato tutto a casa, sempre in silenzio, sempre seri, sempre aggiungendo particolare dopo particolare, con estrema acribia, come dei generali su un piano di guerra, perché in quel momento fosse lì per l’ennesimo viaggio in bicicletta, Sonia non riusciva a capirlo, ma forse non voleva neanche saperlo; aveva assecondato il piano, condiviso le decisioni, accettato il tragitto. Aveva accettato tutto. Aveva sempre detto sì, senza permettersi la minima obiezione. Eppure un potere contrattuale per imporsi lo avrebbe avuto. Eppure, se avesse voluto, avrebbe potuto dire di no. Non lo aveva fatto. E ora era lì, in sella a una bici, con due grandi borse da viaggio dietro e una piccola davanti sul manubrio, in procinto di partire per un viaggio che dentro pesava, per la prima volta pesava per davvero. Per un attimo i loro sguardi si incontrarono, prima di agganciare le tacchette degli scarpini sui pedali. In quell’incontro silenzioso la potenza dei due occhi neri di Sonia si espresse pienamente. E quando non sorrideva, per una strana serie di circostanze indefinibili, riusciva ad attivare nel dialogo con lui un linguaggio puramente corporeo, che si intrideva di mistero e di cui lui era sempre più ammaliato. Con la forza degli occhi di lei, lui prese energicamente in mano la situazione per uscire dalla città e dare inizio al loro viaggio.

Partirono con l’energia del caffè e della cioccolata che cercava di dare una parvenza di forza a due anime in cerca di una risposta a domande che forse non avevano ancora neanche capito come si sarebbero dovute formulare, nessuno dei due. Mentre procedevano uscendo dalla città e percorrevano le stradine secondarie che conducevano a Ponte nelle Alpi, Sonia soppesò a lungo quella decisione che aveva preso, quel sì che aveva dato a quella proposta di viaggio. Non ricordava di aver mai detto sì. Forse aveva solo dato un tacito assenso? Forse aveva fatto un gesto con il capo, mentre lui consultava percorsi su internet? Se lo chiedeva in quel momento: aveva detto di sì? Comunque fossero andate le cose, la realtà era che la sua bici procedeva seguendo quella di Riccardo a una distanza di circa 6-7 m. Il cielo si copriva e riapriva repentinamente. Tratti in ombra tra gli alberi, rassicuranti nella pace che infondevano, si succedevano ad altri in cui veniva loro offerta la visione del retro di anonimi capannoni. Sopra di loro alti dirupi si alzavano verso le nuvole. Sotto di loro le ruote vibravano sul fondo di un asfalto brusco, degradato, affidato solo all’incuria e al disinteresse. Quell’asfalto copriva qualcosa, pensava Sonia. Sotto quell’asfalto rovinato, pieno di avvallamenti e buche, le cui diverse tonalità di grigio disegnavano una macchia di dolore nel paesaggio che tra le nuvole vedeva ridere squarci di sole, viveva una terra, ci poteva essere una vita, un’anima. Sonia a questo pensava: a tutto quanto dissimula la bellezza e a come lei avesse sempre supinamente dissimulato tutto quanto avrebbe potuto essere esperienza di bellezza. Lei aveva rovinato tutto. E questi contrasti del paesaggio, delle strada, delle villette alternate ai capannoni disordinati e mal tenuti, non contribuivano a risolvere i dubbi nell’anima. Perché aveva accettato? Quale dovere le aveva imposto di non imporsi? Sonia sentiva un peso, un forte peso nel cuore. Avvertiva una responsabilità, una forte responsabilità nel caso l’obiettivo fosse stato raggiunto. Ma sapeva anche quale era il prezzo da pagare per arrivarci. E questo non le dava pace. Quei primi 9 km le apparvero un’eternità.

La ciclabile proseguì tra i non-luoghi anonimi delle zone artigianali tra Ponte nelle Alpi e Longarone. I due pedalarono procedendo. Rimase sempre lui davanti, e lei dietro, senza parlare. Perché erano lì? La domanda era un mantra, da cui lei non riusciva a liberarsi. Sonia continuava a chiedersi con insistenza perché avesse accettato quel viaggio. “Abbiamo bisogno di tornare in noi stessi, se vogliamo apparire di nuovo come eravamo prima”, le aveva detto lui un giorno, durante una delle brevi uscite insieme agli altri compagni del gruppo sportivo. ‘Apparire’ era la parola che in quel momento le ingombrava la mente. Ma che bisogno c’è di apparire? Cosa abbiamo da dimostrare? Io non ho niente da dimostrare.

Sonia, mentre pedalava in quel paesaggio laborioso ma amorfo, fatto di bar, capannoni, strade piene di camion e furgoni, riannodava la matassa del tempo e si ritrovò stesa sul letto da sola una domenica mattina. Lui si era alzato ed era già in divisa pronto per partire in bici in attesa che lei, come tutte le domeniche, facesse la stessa cosa. Ma non si sentiva bene e gli disse che non sarebbe uscita. Lui non obiettò. Le diede un bacio con una dolce carezza e uscì dicendole: “Ogni pedalata sarà un pensiero a te, cucciolo mio!” Sonia da un po’ non apprezzava più quei gesti e non reagì. Rimase a letto, attese che lui fosse uscito e poi si alzò. Andò al computer e trovò il progetto del viaggio, di cui lui non le aveva ancora parlato. Si trattava di quel viaggio che ora stavano facendo insieme. La cosa che la stupì fu la forma di quel progetto. Era un presentazione multimediale, con tanti collegamenti esterni. Cliccò su quei collegamenti, che credeva fossero illustrazioni turistiche. E invece no! Erano foto. Erano collegamenti a brani musicali, a opere d’arte, a testi letterari. Non indagò, intenzionata a chiedere direttamente a lui spiegazioni, non appena fosse tornato. Cosa che forse non avrebbe fatto. Ricordò che mentre Riccardo era fuori le aveva mandato tanti messaggi in cui le chiedeva come stesse e se avesse bisogno che tornasse a casa. Lei lo aveva rassicurato, scrivendogli che era solo un malessere passeggero. Si era seduta nella poltrona dello studio. E si era lasciata andare. L’ansia era risalita. Le lacrime uscirono a dirotto. Non riusciva più a fermarsi. Riccardo chiedeva continuamente come stesse. Lui sapeva. Lei non glielo aveva ancora detto. Ma lui sapeva. Ne era convinta.

Passata Ponte nelle Alpi presero la ciclabile che da Farra d’Alpago poi arrivava a Longarone con la minacciosa mole del monte Toc sulla destra e dei ricordi della tragedia della frana che da lì si staccò cadendo nel 1963 sul lago del Vajont. Mentre pedalavano Riccardo si accorse che Sonia era rimasta un po’ indietro. Rallentò, la lasciò andare avanti. Lei lo superò senza guardarlo. Lui le si accodò. Era l’ordine giusto. Lo sarebbe stato per diversi giorni. Ci sarebbe stata anche un ragione precisa, ma Riccardo sapeva che dichiararla sarebbe stato pericoloso: sarebbe potuto venir fuori un tema spinoso, quello della ragione del viaggio. Proseguirono perciò il loro viaggio diretti a Longarone, dove si ritrovarono di nuovo in mezzo a capannoni e aree industriali, le ultime. “Da Castellavazzo il paesaggio cambierà, Sonia” la rassicurò lui, come cercando un’interpretazione a quel rallentamento di lei. Vide il casco di lei fare una specie di cenno di sì. E mentre pedalavano nell’area industriale di Longarone, anche Riccardo si ritrovò con i pensieri a quella domenica mattina in cui lei non volle uscire in bici con lui, in particolare alle tante domande degli amici sull’assenza di Sonia. Alcuni sapevano che non stava bene da tempo. Ma nessuno osava domandare. Alcuni videro che anche Riccardo era preoccupato, incerto se aggregarsi per l’uscita o tornare a casa da lei. Uno gli si avvicinò. Era un medico. Conosceva bene Sonia. “Se non ti senti di uscire oggi, fa lo stesso. Stalle vicino. Ha bisogno più lei di te che noi.” Riccardo mandò un messaggio a Sonia e lei gli rispose solo con un “Sta’ attento!” E lui decise di partire ugualmente con gli amici per la sgambata domenicale. Ma lui era preoccupato quel giorno. Non avrebbe mai saputo che quell’invito a stare attento era stato inviato da lei in piena crisi d’ansia. “Da Castellavazzo il paesaggio cambierà, Sonia” si era sentita dire alle spalle da lui. E Sonia andava avanti a testa bassa. Non guardava né a destra, né a sinistra. Guardava sul manubrio, sul computer su cui i numeri avanzavano, lentamente; sul nabigatore, su cui i chilometri aumentavano, lentamente; sul cardiofrequenzimetro, su cui i battiti aumentavano, lentamente. E lentamente Sonia rialzò la testa che avvertì improvvisamente pesantissima. E mise mano ai freni. Improvvisamente. Lui capì subito e le si portò a fianco. Riuscì ad afferrarla con prontezza e a trattenerla con energia, prima che cadesse, perché non aveva sganciato gli scarpini. E la trovò in lacrime in preda a una crisi. La abbracciò a sé forte. Vide una panchina e la fece sedere. Passarono tre ciclisti che chiesero se avessero bisogno. Riccardo ringraziò e li lasciò andare. Sonia aveva singulti nervosi a scatti. Non rispondeva alle domande. Le sganciò il casco lasciando ricadere la chioma dei suoi capelli biondi sulle spalle. Le abbassò anche un po’ la zip al collo per farla respirare di più. Ma soprattutto le rimase accanto a lungo in silenzio, finché il suo respiro non tornò regolare. “Tante persone innocenti sono morte qui, Ricky. Andiamo via, per favore.” Davanti a loro si vedeva in lontananza il muro di cemento della diga del Vajont. Di là da quella diga si scendeva su Pordenone. Tante volte lui, che aveva insegnato per due anni in quella città, era salito dall’altra parte fino a quella diga, lungo la val Cellina.

“Quanto è brutta vista di qua, quasi minacciosa. Quanto è bella e dolce la salita arrivandoci su di là da Barcis,” commentò lui. Nel progetto c’era un’idea sul ritorno, una possibile variante che sarebbe stata da valutare e che prevedeva di ritornare a Belluno proprio scendendo dal Vajont, dopo aver percorso la val val Cellina. Non gliene aveva mai parlato. Sonia sapeva che da Udine sarebbero tornati in treno a Belluno. Sarebbe tutto stato da valutare sul momento in base al tempo, alla fatica, al meteo, ma anche in base a circostante interiori che in quei giorni sicuramente sarebbero potute cambiare. Riccardo non aveva idea di quanto sarebbero cambiate. Sonia nemmeno.

“La montagna è fatta di queste antinomie. Lo stesso monte può avere storie diverse a seconda dei valligiani che lo vivono su suoi diversi versanti”, disse lei, dimostrando che si era ripresa. Quando parlava della montagna, la ‘sua’ montagna, Riccardo sapeva che Sonia si era ripresa. Lei era cresciuta ed era vissuta su una strada che portava a un valico con nomi diversi secondo chi vi saliva, persone che avevano dietro di loro una storia che motivava quel toponimo diverso. La montagna aveva questo potere in lei. Anche a questo doveva servire quel viaggio: accettare queste antinomie, nel corpo e nell’anima, che per lei erano una ragione di vita. Lui lo sapeva. Lei anche. Ma nessuno aveva il coraggio di ammettere che quello che stavano facendo aveva quell’obiettivo tra i tanti. “La montagna è fatta di queste antinomie.” Riccardo, seduto accanto a lei, sulla panchina in mezzo a un centro sportivo, due capannoni industriali e il retro del magazzino di un centro commerciale, ricordava molto bene il momento in cui fu pronunciata quella frase. Stavano salendo con degli amici in alta Valsenio, nelle terre della Romagna toscana, e da Palazzuolo avevano deciso di salire al valico del Paretajo. “La Faggiola”, si chiama. Così furono corretti da altri ciclisti che venivano dall’altro versante, quello della Val Santerno. E così apprese della storica diatriba sul nome di quel valico, chiamato in un modo dagli abitanti di una valle, in un altro da quelli di quella limitrofa. Sonia, che da quel mondo speciale veniva, mentre i due assistevano al bisticcio verbale tra sostenitori del Paretajo e sostenitori della Faggiola, disse in disparte a lui: “Ricky. Noi siamo fatti così. La montagna è fatta di queste antinomie”. Le antinomie non erano solo quelle della montagna. Sonia lo sapeva e lo aveva capito prima, uscendo da Belluno. Riccardo lo sapeva e lo aveva capito da tempo, ma non ne aveva mai parlato. Non si parla facilmente di ciò che fa male. Si ha paura di parlare delle antinomie. Le differenze non comprese e non risolte possono fare tanto male, come ha fatto quella diga. Possono acuire le distanze. E lì l’obiettivo era proprio il contrario: Riccardo stava mettendo il massimo dell’impegno proprio nel tentativo di ridurre quelle distanze, che il tempo aveva scavato nel loro dialogo.

“Ma non solo la montagna …”, iniziò a dire Sonia, senza finire il discorso, rimettendosi il casco e sciogliendo la coda di cavallo, che aveva fatto per tenere legati i capelli. Li lasciò liberi, preda del vento.

“Abbiamo una piccola salita adesso, poi un bel tratto di ciclabile lungo il fiume. Andiamo. Mi prometti che non abbasserai più la testa su quel manubrio. Guardati attorno. Sono le tue queste montagne. Questa è la parte più bella della tua anima. Non lo dici sempre anche tu?” Temette di essere stato patetico e scontato, ma sapeva che per Sonia quelle non erano parole né patetiche, né scontate. In montagna lei cambiava; era come se si rianimasse. E alla montagna per l’ennesima volta lui si era affidato. In quei paesaggi lei era cresciuta. Quella era terra amica.

Sonia sospirò. Fece un sorriso. Appoggiò la testa sulla spalla di lui. “Scusami.”

Riccardo ormai aveva sentito talmente tante di quelle scuse, che non le ascoltava nemmeno più. Si alzò. La sollevò. La prese in braccio di forza e gridò: “E adesso … Via!” Le strappò un bellissimo sorriso, quello che lui voleva. L’unica cosa che in quel momento a lui avrebbe fatto piacere. Anzi, tutto sommato, l’unico vero obiettivo che si sarebbe prefisso di raggiungere con quel viaggio, complesso ma senza pretese, era vederla sorridere. Rimontarono in sella e partirono. La ciclabile era ben segnalata. Non occorreva tecnologia. Lasciò lei davanti. Risalirono fino a Castellavazzo e poi scesero nel tratto nuovo lungo il fiume. Ci fu prima un tratto in salita da affrontare. Sonia non ebbe problemi. Le borse, per quanto molto ridotte nel contenuto, appesantivano non poco la bici. Una nuvola passeggera scaricò qualche rada grossa goccia d’acqua. Avevano affrontato bufere e attraversato temporali insieme in bicicletta. Riccardo sapeva che non erano certamente quelle due gocce a spaventare la tempra di Sonia, che nel fisico era d’acciaio. Non era il fisico di Sonia a preoccuparlo. Per questo la voleva davanti. Lasciare lei davanti per lui era come dare ragione di una gerarchia sancita dai numeri, dai risultati, dalle tabelle d’allenamento. Il tratto lungo il fiume fu molto bello. L’ampio letto del Piave fu come accarezzato dalle loro bici, fino a quando la ciclabile non iniziò a coincidere con il tracciato della vecchia statale dismessa. Sopra di loro i viadotti e le gallerie della nuova strada. Quella che le loro bici stavano percorrendo era tutt’altra cosa. Ogni tanto passava qualche ciclista con la bici da corsa che li salutava. Sonia che era davanti rispondeva sempre al saluto. Riccardo pensava a Sonia, non agli altri ciclisti. Le si affiancò continuando a pedalare. Non le parlò. Il silenzio era spesso dovuto proprio alla paura delle parole. Fu lei ad aprire bocca: “Ho avuto molta paura prima, Ricky. Ho pensato a quella diga. Morirono tutti di notte travolti da una marea di fango. Deve essere stato terribile.”

“Sì. Terribile. Ma abbiamo un bel viaggio da fare insieme. Attraverseremo dei posti molto belli Non pensiamo a cose tristi.”

“Non ce l’ho fatta, Ricky. Al pensiero del dolore altrui non reggo.” Riccardo non pensava al dolore altrui. Interpretò diversamente quelle parole, perché conosceva Sonia e sapeva che dissimulava bene, quando faceva quelle affermazioni. Il dolore non era quello altrui, non era quello di mezzo secolo fa. Era molto più vicino nel tempo e soprattutto era assai vicino nello spazio.

Riccardo si riposizionò dietro di lei. Lasciò lei davanti. La voleva vedere bene. Era preoccupato. Eppure era convinto che dovessero andare avanti. Proseguirono fino a Ospitale, dove decisero di fermarsi un po’. Entrarono nel piccolo paese e salirono fino alla chiesetta che lo dominava dall’alto, vicino all’antico ospizio per pellegrini da che dava il nome all’abitato. Lasciarono le bici fuori dalla chiesa, entrarono e si sedettero sulle panche.

“Non so se sarò in grado di procedere per molto, Ricky.”

“Perché? Hai la forza di un leone in queste gambe,” le disse lui dandole una pacca sulla coscia destra.

“Sai che non sono le gambe il problema,” disse lei prendendogli la mano. Da tempo non lo faceva. Era da quei piccoli gesti che lui avrebbe dovuto capire qualcosa. Forse dovere anche dire qualcosa. Forse quel prendergli la mano era un tentativo di comunicazione di qualcosa di importante. Forse doveva trasmettere qualcosa in risposta a quella richiesta di comunicazione, forse di aiuto.

“Sono qui per aiutarti. E la decisione di fare questo viaggio è stata comune, come lo fu quella di tutti i viaggi fatti prima, Sonia.” Non erano le parole che lei si aspettava. Erano parole comuni, pensò lui. E se ne pentì. Quella viaggio non era come tutti gli altri fatti prima. Ma ormai aggiungerne altre avrebbe solo completato una frittata nata male e forse anche peggiorato la situazione che si era creata con quel contatto imprevisto.

Riccardo cercava di evitare che il discorso finisse dove la mente di lei aveva sicuramente piacere che finisse in quel momento. Era così dopo ogni crisi. Il dolore alimenta un perverso compiacimento di se stesso. Lui lo sapeva. Quella parte dell’anima, che tanto male le faceva, allo stesso la attraeva irresistibilmente. Perciò dopo ogni crisi suo compito era quello di distoglierla, di tenerla attenta ad altro, di farla parlare, cercando possibilmente di non scadere nel banale. Non era facile, perché l’impressione che Sonia gli dava in quei momenti era quella del classico palloncino che, se non lo tieni ben stretto, può volare via in un attimo. Uscirono dalla chiesetta. Ripartirono. La lasciò andare avanti. Ogni tanto le si portava a fianco. Non le lesinava sorrisi e incoraggiamenti, battute di spirito oppure descrizioni di quelle montagne sotto le quali stavano viaggiando, nonostante lui fosse ben consapevole del fatto che lei le conosceva, se non quanto lui, più di lui. Sonia lo ascoltava. La sua mente andava e veniva, in un viaggio incessante su e giù dall’anima e dal passato. Le parole di Riccardo avevano una strana eco in lei. Quando erano percepite dalle orecchie, sembrava che non fossero elaborate dal cervello in un discorso logico, ma l’impressione era che fossero rapite in un abisso che le trasformava in tutt’altro, che le separava l’una dall’altra, le scombinava. “Fessura” … Parlando del paesaggio, forse di una forra che si intravvedeva in lontananza, Riccardo deve avere usato quella parola. Sonia non era in grado di dire in quale contesto lui l’avesse usata. Eppure le era rimasta impressa. Lui, che ora era al suo fianco, continuava a parlare, ma lei vedeva solo fessure, fessure dappertutto, scissioni, laceranti devastazioni che facevano male. Riccardo parlava, le case passavano a destra e a sinistra ammonticchiandosi le une sulle altre, il guardrail della strada si svolgeva attorcigliandosi in un groviglio di orribili sensazioni, un campanile in lontananza sembrava spaccarsi in due. La diga si spezzava. Sonia per la seconda volta frenò improvvisamente, restando a bocca spalancata. Non riuscì a sganciare i piedi dai pedali questa volta e lui non fu pronto come prima a tenerla: Sonia cadde. Riccardo la aiutò a risollevarsi. Si era sbucciata il gomito destro, cadendo su quel fianco, e aveva escoriazioni superficiali che dal polpaccio risalivano fino alla coscia destra. Ma soprattutto ora piangeva a dirotto, non certo per il gomito sbucciato, né per le escoriazioni alla gamba. Lui non sapeva a cosa dare la precedenza, se al corpo ferito o all’anima sofferente. Era in preda all’agitazione anche lui. Cercava di parlare e nello stesso tempo la medicava con il materiale di primo soccorso che aveva con sé. Erano in prossimità di un gruppo di case. Una signora vide la scena e li invitò a entrare in casa, perché la medicazione della superficiale abrasione potesse essere effettuata in calma. Non ci fu bisogno di altro se non di un po’ di disinfettante per le escoriazioni sulla gamba e di una benda sul gomito. Sonia non aveva detto una parola. La signora offrì loro da bere e una fetta di torta, che Sonia nervosamente e avidamente divorò, stupendo Riccardo per quel suo comportamento non consueto. Riccardo ringraziò la signora e senza parlare prese a braccetto Sonia, che aveva ancora il volto basso e l’espressione che tutti chiamano assente, solo perché attenta a quello che i sensi non possono percepire; e la riportò in strada. “Arriviamo a Perarolo. Faremo la salita della Cavallera domani. Oggi hai bisogno di riposare.”

“No. Voglio arrivare a Pieve di Cadore. Lì ci fermeremo e li riposeremo,” disse convinta Sonia. Lui non si oppose. In quel momento non poteva che essere giudicato positivo il fatto che la decisione fosse passata a lei e che in lei soprattutto fosse scattata una reazione a quanto appena accaduto.

“Va bene. Andiamo.” Era lei che voleva decidere e quindi era giusto che a lei fosse lasciata la decisione. Riccardo si impose di adottare quella strategia: lasciarla arbitra della situazione, affidarle delle responsabilità, farla sentire soggetto attivo dell’esperienza che stavano facendo, che lui aveva ideato, progettato per lei. Ma quella seconda crisi era stata peggiore della precedente. Era preoccupato, ma non doveva trapelare assolutamente nulla della sua trepidazione. Sonia era persona molto perspicace. Ingannarla in quelle cose non era mai stato facile. Lei sapeva interpretare i suoi pensieri spesso meglio di lui stesso. A lei nulla sfuggiva.

Arrivati a Perarolo, senza la minima esitazione Sonia iniziò la salita della Cavalleria che conduceva a Tai di Cadore. La forza che aveva nelle gambe era quasi superiore a quella di Riccardo, che non era affatto stupito. Sonia si era preparata e allenata ben più di lui per quel viaggio, la sua struttura fisica era perfetta, la sua posizione in sella non denunciava la minima fatica. Insomma, Riccardo fu solo in parte sollevato nel vederla procedere così sicura in salita: una salita forse non particolarmente impegnativa, ma che, con le borse e il loro peso aggiuntivo, poteva comunque creare qualche problema. Quella ragazza lo spaventava: ha appena avuto due crisi d’ansia, di cui una, la seconda, anche forte; ma adesso va in salita sotto il sole a picco, senza più una nuvola in cielo, nelle ore più calde della giornata, con la sicurezza di un camoscio, con la forza di uno stambecco. L’asfalto passava sotto le sue ruote, il letto del Piave, prima assiduo compagno di viaggio, ora si abbassava e si allontanava piano piano dalla vista, assumendo indefinite forme dai contorni sfumati e sfuocati nel caldo di un meriggio non prevedibile dopo le rade e pesanti gocce di pioggia e dopo le minacciose nubi, che avevano benedetto e battezzato la partenza da Belluno. In quella vista sfuocata di un paesaggio, che in altre occasioni sarebbe potuto essere latore di più lieti messaggi, Riccardo vide prendere forma altre figure, mentre la seguiva con la sua bicicletta. Il suo medico gli parlava nel suo studio; erano amici sin dall’infanzia. Non aveva motivo di mettergli paura. “Riccardo, stalle vicino. L’ha presa male. Credo molto male.” Quella frase rimbombava ormai da mesi nella sua testa. Appena le immagini si sfuocavano e l’anima prendeva il sopravvento sulla mente, sulla ragione, su tutte le possibili rassicuranti elaborazioni del cervello, erano quelle le forme che si imponevano. Malefiche e distruttive, ma drammaticamente veritiere. “L’ha presa male.” Riccardo guardava Sonia procedere davanti a lui, ammirato della forza nel fisico, terribilmente preoccupato per la fragilità dell’anima. Non vedeva Sonia procedere. Vedeva un leone che attaccava la preda. O meglio: avrebbe voluto vedere un leone che attaccava la preda. Vedeva un’aquila che senza esitazione piombava nella tana della preda. No. La preda è fuggita. Il covile è vuoto. L’aquila è vinta dalla delusione e dallo sconforto. Sonia attaccava le curve con la forza di quell’aquila. Ma le curve si succedevano senza sosta le une alle altre. Ognuna era l’ultima. Ognuna era aggredita con la convinzione che, dopo di quella, la strada avrebbe ritrovato requie. E invece all’orizzonte se ne profilava sempre un’altra. Ogni curva era una prova, un esame e un referto. Ogni curva la riportava alla sua vita di dolore, alle sue illusioni. Alla forza con cui tali illusioni a lungo erano state nutrite. Fino a quel giorno. “L’ha presa male.” Riccardo dovette rallentare. Lasciò che Sonia prendesse qualche metro davanti a lui. Era lui a corto d’ossigeno adesso. Le gambe non obbedivano più agli ordini. Dove l’aquila? Il suo sguardo alto, rivolto al cielo, si bagnò tra le lacrime in cerca dell’aquila. L’aquila non si vedeva. Con questo stato d’animo arrivò lentamente e faticosamente alla fine della salita. Una brusca curva a sinistra passava dietro un costone di roccia: alla tortuosa salita appena terminata, tutta esposta e resa di fuoco dal sole di mezzogiorno, subentrò un ombreggiato rettilineo pianeggiante, fresco, quasi freddo per lui che era arrivato. Le antinomie di Sonia: e il paesaggio dell’anima cambiò. Una curva in montagna ha questo potere di introdurre in un mondo nuovo, spesso anche radicalmente diverso. Sonia si fermò ad aspettare lui, che nelle ultime curve aveva perso un po’ di terreno. Riccardo aveva anche maggior peso nelle borse, ma la ricerca dell’aquila aveva appesantito soprattutto l’animo. Era lì il peso che toglieva forza al colpo di pedale. I due procedettero fino a Pieve di Cadore. Tratti di ciclabile si alternavano a tratti di stradine a basso traffico. La ferrovia, che passava appena più in basso e che finiva poco più avanti a Calalzo, e la statale, che passava appena più in alto, erano i due elementi che davano forza a quell’impressione di restare come sospesi in un limbo, che avevano avuto sin dalla partenza da Belluno.

Erano le quattro del pomeriggio quando, dopo quella prima tappa rivelatasi più impegnativa del previsto per ragioni che nulla aveva a che vedere con altimetrie e planimetrie, allenamento e condizioni meteo, a Pieve di Cadore trovarono una sistemazione per la notte presso una signora che affittava camere a persone di passaggio. Non avevano prenotato niente per passare le notti. Riccardo aveva nelle sue borse anche due canadesi, che occupavano pochissimo spazio e che pesavano davvero poco. Per dormire bastava mettere due maglie su una borsa da viaggio e quello era il cuscino più comodo. I due erano stanchi. Una stanchezza dovuta più che alla fatica allo stress, che si era generato in quei silenzi complici e più rumorosi di mille parole., in quei due occhi neri, di ineffabile potenza che lo puntavano e che chiedevano ascolto, che cercavano di chiedere senza trovarne mai la forza. Avevano viaggiato in auto e durante il viaggio Riccardo aveva avvertito una forte tensione. Sonia era stata a occhi chiusi, ma vigile per tutto il percorso che li avrebbe portati a Belluno. Persino quando lui si era fermato, poco prima di parcheggiare l’auto, per fare metano in modo da avere il pieno il giorno del ritorno, lei aveva voluto evitare di parlare. Si era alzata, uscendo dall’auto e andando nel bar a prendere un caffè da sola e poi in bagno. Quello stare seduta a occhi chiusi era stato un chiaro invito a non essere disturbata. Quell’alzarsi al momento del rifornimento era un altro segnale evidente di non volere comunicare con parole con lui. Eppure quante ce ne sarebbero state di cose da dire! La camera in cui si sistemarono era molto bella. Il bagno era in comune con il resto della casa abitata dalla sola proprietaria. I due, fatta la doccia, presero entrambi una maglietta e un paio di pantaloni e, avuto un sapone da bucato, lavarono e stesero all’aria le due divise con cui avevano viaggiato in bici per quella prima giornata, decisamente impegnativa più per l’animo che per il corpo. Erano gesti semplici e compiuti tante volte, nei tanti viaggi che insieme avevano fatto su quelle due bici. Ma tutto era diverso in quel momento. Era dentro che si avvertiva un sentimento nuovo che macchiava l’alacre contentezza di quell’esperienza solitamente vissuta con la spensieratezza e la gioia di chi si vuol divertire per qualche giorno sui pedali di una bicicletta. Si riposarono seduti nel balcone. E la comunicazione fu nuovamente un problema. Quando Riccardo si fu accorto della scarsa intenzione di Sonia di parlare, si mise a leggere. Dopo un po’ lui prese il suo Ipad, lo accese e fece partire un brano musicale. Si trattava della canzone popolare russa Oci ciornye, occhi scuri. I grandi occhi di Sonia erano di un colore castano molto scuro, quasi neri. Anzi, per lui neri. Quella canzone da anni non veniva ascoltata insieme da loro due. Sonia sapeva bene il russo. Era la lingua di quelli che con orribile linguaggio amministrativo venivano chiamati i suoi genitori biologici, mai conosciuti, deceduti in una circostanza mai chiarita, quando lei aveva sette anni. Due anni di orfanotrofio. Poi l’adozione, la montagna, la meraviglia di un’accoglienza con amore. E poi il ciclismo, la squadra, le gare. E poi il suo direttore sportivo: si chiamava Riccardo. Aveva solo sei anni più di lei. Era molto bello, ma in quel mondo di gente maschia, di fenomeni atletici sempre poco generosi di sorrisi Riccardo sorrideva e guidava gli allenamenti scendendo spesso dall’auto e salendo in bici con gli atleti. Per Sonia lui aveva quel valore aggiunto che lei invidiava: saper condividere la gioia e il dolore, la sofferenza e la conquista, la fatica della salita e la riconoscenza della discesa. Sonia non era persona loquace. La sua timidezza era la sua storia, la sua malinconia sorridente era il suo passato che non passava. Per anni e anni in quel sorriso, il cui strumento erano stati gli occhi e non le parole, Riccardo aveva saputo ascoltare e condividere una storia difficile, un peso che a lui non spettava certamente togliere, ma almeno alleviare. E invece era bastato un malessere, era bastata una visita di controllo da parte del medico sportivo, un campanello d’allarme, un esame prenotato solo con il fine di togliersi un dubbio, per precipitare in un territorio fino ad allora del tutto sconosciuto. Da quel momento tutto era cambiato. Tra di loro aumentò progressivamente la distanza. Tutto era cambiato.

Quel brano per lei significava tanto. Le parole del canto passavano: “Occhi neri, occhi fiammanti, appassionati e splendidi occhi, vi amo così tanto, vi temo così tanto, di sicuro, vi ho visti in un’ora sfortunata.” La musica lenta e ritmata, tipica della canzone popolare russa, rendeva straziante il cumulo delle immagini che nella sua memoria si moltiplicavano turbinando. Quante volte avevano fatto l’amore su quelle note e quante volte lui l’aveva chiamata la sua oci ciornye. La prima strofa venne ripetuta due volte, a ritmo lento la prima, più veloce la seconda, ma con volume di voce basso. Ma fu alla seconda strofa che Sonia cedette, nel momento in cui chiaro era il riferimento al tema del dolore e dell’esilio, appena accennato nella prima con il riferimento al timore, alla paura: “Occhi neri, occhi fiammanti, mi attirano verso terre lontane, dove regna l’amore, dove regna la pace, dove non c’è sofferenza, dove la guerra è bandita.” Quei versi del canto vennero questa volta cantati dalla voce maschile a volume alto, sottolineando il desiderio di realizzare l’amore in un altrove lontano. Di nuovo la prima strofa, una sorta di ritornello, ripetuta ancora due volte. E poi la terza strofa, l’apoteosi della malinconia, la strofa della delusione definitiva: “Se non vi avessi incontrato, non soffrirei così, avrei vissuto la mia vita sorridendo, mi avete rovinato, occhi neri, mi avete portato via la felicità per sempre.” L’amore ha rovinato la vita, portando via per sempre la felicità. E Sonia si commuove sulla sua poltrona in balcone. Una lacrima riga la guancia, quando ritorna la prima strofa e il ritornello: “Occhi neri, occhi fiammanti, appassionati e splendidi occhi, vi amo così tanto, vi temo così tanto, di sicuro, vi ho visti in un’ora sfortunata.” Sonia si alzò e gli prese nervosamente l’Ipad dalle mani. Riccardo credette di averle fatto del male con quelle note. E invece Sonia fece partire un altro brano: Hello di Adele, forse ancora più malinconico come lamento sul dolore della separazione. Riccardo non accettò quel gioco duro. Si alzò e tornò dentro la camera. Si mise a leggere, lasciando lei fuori da sola. La lacrima di prima divenne un pianto a dirotto là fuori in balcone. Ma lui non intervenne questa volta. Il pianto era straziante, disperato. Lei voltava la testa verso il vetro cercando di vedere la figura di lui, che il riflesso nascondeva. Lui invece vedeva distintamente lei: stava chiedendo aiuto senza parole. Si alzò allora e andò fuori. Sonia era veramente disperata. Le accarezzò i capelli. Era debole, l’antinomia di quel leone che aveva aggredito i tornanti della Cavallera. La prese in braccio e la portò dentro, mettendola stesa sul letto, dove piano piano si placò e smise di piangere, mentre lui altro non faceva che continuare ad accarezzarla. Non una parola fu pronunciata. Erano solo le anime che comunicavano. E lo facevano meglio, indubbiamente molto meglio di quanto avessero potuto fare le parole. Lo facevano con un gesto compiuto lentamente dall’uno e altrettanto delicatamente accolto e assaporato dall’altro, gesti che nascevano senza un perché, come solo tanto tempo prima accadeva; lo facevano con un cenno di sorriso che chiedeva solo di essere correttamente interpretato; ma lo facevano soprattutto attraverso quei due splendidi occhi neri, con un linguaggio che nessuna parola potrà mai pretendere di spiegare.

“Vestiamoci. Prima di cena ci facciamo un aperitivo in piazza. Un buon prosecco? A me andrebbe proprio un buon bicchiere di prosecco,” disse Riccardo, infrangendo il silenzio.

Sonia si preparò. Avevano pochi abiti, tutti sportivi e comodi, non certo serali, avendo dovuto ridurre il contenuto delle borse da viaggio nella bici. Come del resto sempre durante i loro viaggi in bici. Ma con quelli uscirono e fecero proprio un tavolino nella piazza centrale del paese, dove si fecero portare due bicchieri di prosecco. Il sole stava scomparendo dietro l’Antelao e uno dei suoi ultimi raggi illuminava Sonia seduta a occhi chiusi e con la testa gettata all’indietro sulla sedia del bar. Riccardo bevve un sorso di prosecco e pensò alla potenza di quel sole basso che illuminava la donna di cui era ancora innamorato. Le sembrava ancora più bella, ora sferzata da quel sole, che arrossava tutte le montagne, che trasfigurava i mattoni delle antiche dimore di quella piazza, il monumento a Tiziano Vecellio, il palazzo della Magnifica Comunità. Un rosso sangue ovunque per Riccardo. Sonia non si muoveva. Restava come in apnea, a occhi chiusi. La testa piegata indietro. La lunga coda di cavallo era leggermente accarezzata dalla brezza serale che stava diventando sempre più fresca. “Domani faremo tutta la ciclabile fino a Dobbiaco. Abbiamo una settantina di chilometri con un po’ di salita.” Sonia ascoltò. Non rispose. Aprì gli occhi solo per prendere un sorso di prosecco e tornare nella posizione di accoglienza dell’ultimo sole: una specie di ricarica naturale per lei in quel momento, dopo i forti momenti di tensione e di ansia vissuti in quella giornata, che non era ancora finita. L’aperitivo fu accompagnato da abbondanti dosi di salatini, bruschette, pizzette. Rinunciarono ovviamente alla cena. Una buona colazione al mattino successivo avrebbe fatto il suo dovere per le esigenze del corpo. Tornarono in camera e, con il definitivo calare del sole, spenta la luce sui comodini, affidarono l’anima, già messa alla prova di giorno, alle ore più delicate e difficili della vita. Il corpo chiedeva riposo nelle sue fibre e la richiesta non fu difficile da soddisfare. L’anima chiedeva pace, ma questa sarebbe stata traguardo ben più arduo da conquistare. La notte passò. Cosa avrebbe aggiunto alla loro vita quella nuova notte? Solo con il passare delle ore avrebbero forse compreso se si sarebbe aggiunto un valore o se il calcolo finale avrebbe fatto registrare una perdita. Non si fecero domande, come sempre. Avevano entrambi paura di quelle risposte. Per quello dormivano l’uno rivolto verso l’altro. Era un inutile – ma qualcuno dalla penna fantasiosa avrebbe potuto chiamarlo anche eroico – tentativo di difesa da quegli assalti che dall’abisso oscuro del tempo arrivano puntuali in quelle ore di abbassamento della guardia. E quegli assalti sono infidi e maligni: arrivano quando non non ci si può difendere. Ecco perché solo l’indomani avrebbero potuto dire se quella notte sarebbe stata un valore aggiunto alla loro vita nel segno della speranza, o l’ennesimo colpo nel segno della disperazione. Le somme, se mai fossero state tirate, sarebbero state tratte individualmente. Le domande venivano da un territorio oscuro, che non infondeva fiducia. E per questo le risposte facevano paura.

Seconda tappa

L’indomani, fatta abbondante colazione e scoperta loquace e allegra la riservata affittacamere del giorno prima, mentre contava e ricontava meticolosamente le banconote consegnate, andarono a rivestirsi delle divise lavate e asciugate, risparmiando quelle di ricambio. Direzione ovest, valle del Boite: Tai di Cadore, Valle, Venas, Peaio, Vodo, Borca, San Vito, trampolino olimpico, Cortina e pranzo, Cimabanche, discesa su lago di Landro, lago di Dobbiaco, Dobbiaco, passaggio sulla ciclabile della Pusteria, San Candido. La ciclabile delle Dolomiti: dalla stazione di Calalzo a quella di Dobbiaco. Meteo eccellente. Sole. Temperatura nella norma. Le località della Pusteria sarebbero state più affollate. Meglio usare internet e non affidarsi al caso per cercare una camera per la futura notte. Riccardo cercò a Dobbiaco: tutto pieno. Ne trovò una a San Candido. Gliela propose. Sonia accettò. Accettava tutto, del resto. Aveva deciso da tempo di farlo. Riccardo prenotò e pagò on line la camera di San Candido e, salutata l’ancor più allegra e loquace affittacamere, con Sonia scese nel garage, dove insieme diedero il grasso alle catene delle bici, puntarono navigatore e ciclocomputer. Sonia fece un po’ di stretching. Compiuti diligentemente tutti quei consueti gesti tecnici e atletici con professionale silenzio, partirono. Il corpo di lei era al massimo. Il cuore di lui batteva forte. E gli occhi neri lo incontrarono, come da tempo non facevano.

Tai di Cadore, Valle, Venas, Peaio, Vodo, Borca, San Vito. La ciclabile era stata ottenuta sul percorso della vecchia ferrovia a scartamento ridotto che da Calalzo portava a Dobbiaco. Fu costruita durante la Grande Guerra, poi rimase in disuso. Negli anni venti del secolo scorso fu risistemata e funzionò fino all’inizio degli anni sessanta, quando fu l’unico mezzo per portare le persone a Cortina, per assistere alle gare dei giochi olimpici del 1960. La statale fu chiusa. Troppe auto avrebbero creato caos. Ma come si poteva impedire il passaggio alle auto proprio negli anni del boom economico? Che oscenità! Chi aveva avuto quella pessima idea sia punito, pensò chi gli affari li faceva, guidando quel boom e vendendo in gran quantità modeste utilitarie. Con quelle si doveva andare a sciare, non con il treno. La punizione fu inflitta. La gente di montagna subì. Un pezzo di storia fu cancellato. Restano le piccole stazioni, le gallerie. Ora quell’antica via ferrata con la neve è pista di fondo, senza neve pista ciclabile. Su tutto quello di posavano i due occhi neri di lei, la cui curiosità aveva il potere di dare a tutto una vitalità ineffabile. Quei due occhi neri, che potenza meravigliosa avevano avuto poco prima in lui, in quel garage buio e disordinato! Che potenza devastante avevano, invece, avuto quando furono ricordati il giorno prima dalle note di un canto popolare! E quale bellezza aggiungevano a quel viso! Trasfiguravano tutto adesso. Marcavano tutto quello su cui si posavano. “Vado avanti io!” Riccardo la lasciò andare avanti. Piccole silenziose soste puntellarono quella mattina. Non fecero foto. Di solito ne facevano tantissime. Non ci furono parole. Non ci furono attimi di crisi. Il sole imperava infondendo sicurezza in un cielo pieno solo di un azzurro lindo e chiaro. Non ci furono crisi. Non ci furono lacrime. Non ci furono scoramenti. Ma una cosa ci fu. Non mancò mai per tutta la giornata: a ogni sosta, che sempre lei decideva, quando vedeva una fontana – e allora o beveva o rinfrescava soltanto l’acqua della borraccia – Sonia cercava Riccardo, che faticava a tenere il suo ritmo sicuro e possente. E quando Riccardo arrivava, appesantito anche dalle borse più grandi, Sonia accennava a un sorriso, che partiva sempre dagli occhi. Lo puntava da lontano, lo attendeva arrivare e, quando lui ebbe sganciato gli scarpini e puntato i piedi per terra, fissava i suoi occhi sul suo viso. Cercava una risposta. Ma non riusciva a formulare quella domanda, quello che mancava nel pensiero di entrambi. E lui evitava la domanda, per non dare la risposta, pur sapendo che più tempo passava, più aumentava la paura e più difficile sarebbe stato dare il chiarimento. Anche per questo rallentava e si lasciava staccare. Cercava un attimo di solitudine per riflettere, cercava un momento di silenzio per lasciarsi invadere dai pensieri, dal lavoro della memoria, dai dubbi della partenza, dai tanti indecifrabili e sempre più inquietanti silenzi di lei, dalle due crisi del giorno prima. E la caduta. Ritornò più volte a quell’attimo della caduta e alla reazione inimmaginabile che a quella crisi Sonia aveva saputo esprimere sui tornanti della rampa della Cavallera. Ritornò più volte alle lacrime mosse dal canto russo, che avevano devastato un’anima proprio nel momento in cui quelli stessi due incredibili occhi neri infondevano una nuova potenza, un nuovo carburante, una nuova motivazione e soprattutto una nuova speranza nell’altra anima. Antinomie, così lei lei aveva chiamate. E tutto si ricollegò: la diga frantumata ieri e l’alacrità delle professioni che oggi lì sotto si praticavano; i brevi lampi di sole e la breve doccia di pioggia, l’ossessione della fessura che aveva appesantito la gamba di lui in salita, alla ricerca del volo dell’aquila che non si fece ammirare, della libertà che non si fece conquistare. Tutto si ricollegò: due occhi neri, unici al mondo per lui, lo avevano reso schiavo di un paradiso diverso, in cui nulla era in armonia, in cui la malinconia era gioia, il silenzio grido, il dolore amore; ma in cui i termini del problema rappresentavano sempre due facce della stessa medaglia. Tutto si ricollegò, ogniqualvolta quei due occhi neri lo puntavano, lo aspettavano, gli sorridevano. E allora tutto diventava secondario nell’anima, mentre tutto diventava primario fuori: fuori tutto prendeva vita. E il corpo reagiva, trovando forza nelle fibre. Che maraviglia! Ogni paese una sosta. Ogni sosta un’iniezione di carburante. Due occhi neri che chiedevano una risposta ad una domanda che non riuscivano a formulare. Era nel mistero della speranza l’unica motivazione di quei momenti incredibili, che Riccardo non avrebbe mai immaginato di vivere con tale intensità. La speranza negata, le parole dell’amico medico, l’analisi impietosa dei referti degli esami, il dolore, sempre quello dell’anima prima di quello del corpo, tutto si trasfigurava grazie a quel carburante che entrava in circolazione con la forza di una droga inebriante. Due meravigliosi occhi neri erano la causa prima di tutto.

Arrivarono puntuali a Cortina, dove pranzarono velocemente con un semplice panino preso alla bancarella di un mercato ambulante. Breve sosta. Poi la salita a Cimabanche: una salita pedalabile su fondo non più asfaltato ma sterrato, che non presentava comunque alcuna difficoltà per l’allenamento che avevano. E la discesa in val Pusteria. Non si fermarono più. Sonia pedalava sicura. La ciclabile dopo Cortina non era più asfaltata. Riccardo forò all’inizio della discesa, subito dopo lo scollinamento a Cimabanche. Sostituita velocemente la camera d’aria e verificato che non ci fossero danni alle coperture, ripartì, raggiungendo Sonia, che era andata avanti e non si era accorta nemmeno della sua mancanza. Si era fermata al lago di Landro e lo aveva atteso per l’ultima volta prima dell’arrivo. “Ho bucato”, disse lui. “Immaginavo. Tutto a posto adesso?”. “Sì,”, e non mentì rispondendole così. Aveva preso lei in mano la situazione. Aveva lei il controllo del percorso. Dirigeva lei. Era bello così. Non era previsto che fosse così. Ma era molto bello che così le cose stessero andando. Scesero su Dobbiaco, attraversando quella Nordic Ski Arena su cui avevano passato tante ore sulla neve nelle vacanze invernali, si rinfrescarono velocemente alla fontana della stazione ferroviaria e presero la ciclabile della Pusteria in direzione San Candido. Sempre lei davanti. Adesso era giusto che fosse così.

Trovarono facilmente la pensione in cui avevano prenotato la loro camera. Fu concesso loro di lasciare le bici in un garage privato usato dai dipendenti. Si fecero la doccia. Era già ora di cena. Niente aperitivo. Pizza. Desideravano una bella pizza quella sera. Altro che quei würstel gommosi immersi nella senape da tubetto, che piacevano tanto ai locali! Il silenzio era rotto da frasi brevi, sempre di circostanza. Non ci furono contatti fisici fino alla cena, quando, mentre aspettavano la pizza, lei, con un gesto molto lento, tenendo il viso basso, posò la sua mano su quella di lui. Lui attendeva che quel viso si rialzasse. Non successe. La mano si ritrasse. Era stato un altro tentativo di comunicare. Le parole non erano uscite. Ma non avevano più alcuna importanza le parole. Non vedevano l’ora di tornare in camera. E fu una delle notti più belle. Ma era solo la seconda di quel viaggio. Sonia non poteva immaginare cosa stesse succedendo e cosa avrebbe meditato Riccardo per l’indomani. Ma la cosa più bella era che in quel momento non lo immaginava neppure lui.

Terza tappa

Durante la colazione ci fu la solita consultazione del meteo e il ripasso della tappa della giornata. Era così da anni. 112 km erano previsti quel giorno. Tanti. Ma tutti in discesa sulla ciclabile della Drava: da San Candido a Lienz al mattino e poi da Lienz a Spittal-an-der-Drau nel pomeriggio, una tratta quasi doppia quanto a chilometraggio rispetto a quella del mattino. Non fu prenotato nulla. I chilometri erano tanti e di più potevano essere quindi gli imprevisti, anche per il meteo più incerto che avrebbero trovato in territorio austriaco. C’erano sempre, all’occorrenza, le due tende. Partirono senza indugi. E arrivarono senza indugi. Fu una giornata diversa. Allegra, spensierata. Non ci furono i silenzi di quella precedente, che tanta ricchezza avevano comunque dato al viaggio. Andarono avanti insieme questa volta, su ciclabili ben segnate e ben tenute. In un mondo amico, in un paesaggio che dava loro serenità. Quanta distanza rispetto a quella partenza difficile! Quanto lontane sembravano le due crisi avute due giorni prima lungo il Piave! Che fosse stato quel canto ad aver liberato l’anima dal dolore? Che fossero state quelle lacrime ad averla alleggerita di un gravame? Riccardo pensava e ripensava, mentre insieme procedevano verso Spittal-an-der-Drau in quella terza giornata di viaggio. Più di cento chilometri in un giorno, e con le borse da viaggio, non si sentirono. Il meteo fu bizzoso. Sia alla partenza che subito prima dell’arrivo li bagnò con due scrosci fastidiosi. Il primo, che li colse a Prato alla Drava, subito prima del confine, fu particolarmente violento, anche perché non trovarono riparo. Le mantelline non tennero. Sonia la tolse addirittura. L’acqua passò attraverso le maglie e a Lienz dovettero cambiarsi nel bagno di un bar le divise, che erano ancora fradice. Era come una corruzione che non potevano sopportare addosso, dopo l’esperienza della giornata precedente. Il secondo temporale, seppur di simile intensità, non fece danni. Attraversavano una zona piena di piccoli centri. Così, appena arrivarono le prime gocce, riuscirono a proteggersi sotto un viadotto.

Eppure. anche quella pioggia avrebbe avuto la sua importanza. E quei due occhi avrebbero trasfigurato anche quel momento, senza dubbio negativo solo per qualsiasi ciclista, ma anche per il suo mezzo. Quale ciclista ama prendere l’acqua? Mentre il temporale passava e loro erano in attesa sotto il viadotto, Sonia gli si avvicinò e disse cinque parole; cinque parole che, dette in altre circostanze, in altri momenti, dopo altre esperienze, insomma in un altro contesto, quanto meno non seduti per terra con le bici appoggiate ad un pilone di un viadotto sotto la pioggia, non avrebbero avuto assolutamente il significato che invece ebbero in lui in quel momento: “È un viaggio bellissimo. Grazie.” Riccardo non disse nulla. La abbracciò, mentre tutto intorno a loro, ma non su di loro, la pioggia batteva con violenza. Erano stati momenti sereni quelli che avevano vissuto in una lunga e faticosa giornata interamente trascorsa sui pedali. Momenti intensi, perché non vissuti a distanza, ma sempre uno accanto all’altro, senza paura l’uno dell’altro. Se quella domanda non fosse venuta fuori neanche oggi, Riccardo non avrebbe avuto più paura della risposta. Ormai tutto era chiaro. Si poteva procedere sicuri l’uno dell’altro. L’indomani sarebbero potuti partire anche tardi. Avrebbero percorso solo i poco più di 40 km che le separavano da Villach e lì si sarebbero riposati, in previsione della salita verso Tarvisio e del ritorno in Italia. Riccardo aveva previsto un percorso a tappe variabili, che sarebbero state determinate dalla gamba, dalla testa ed eventualmente anche dal meteo. Aveva individuato solo dei punti in una cartina, che aveva nella mente. Quali di questi sarebbero stati soste per la notte, quali per il pranzo, quanto si sarebbero fermati in una località, se fosse stato meglio prendere il treno per coprire una parte del percorso, erano particolari che non assumevano per lui alcuna importanza di fronte al significato superiore che quel viaggio doveva avere, ma non si doveva vedere. Non doveva sembrare una pretesa, né tanto meno una forzatura. Quei dettagli non avevano proprio nessuna importanza. Il viaggio che contava era un percorso che aveva altre tappe, che si svolgeva in un’altra dimensione, in un’altra comunicazione e che ora aveva assunto una forza del tutto nuova, non prevista all’atto dell’ideazione: gli occhi di lei. Non riusciva a non pensare a quella che da ossessione era diventata per lui una specie di dorata prigionia. In preda a quell’ossessione aveva acceso l’Ipad e cercato quel canto nel balcone della a Pieve di Cadore la prima sera, in preda all’ossessione per anni era diventato schiavo di quelle note, in preda all’ossessione aveva vissuto nell’immediato, sin dalla partenza da Pieve il secondo giorno, gli effetti di quel canto, di quelle note, di quello sguardo, “occhi fiammanti, appassionati e splendidi occhi”; in preda all’ossessione aveva seguito il loro monito, “mi attirano verso terre lontane, dove regna l’amore”; in preda alla medesima ossessione aveva , infine, ideato, progettato e realizzato quel viaggio. C’era un fine. Ma non era mai stato dichiarato. Per paura, solo per paura ciò non era avvenuto. Sarebbe stato come rispondere a quella domanda mai formulata. Ma ora il contesto è mutato. Non è più un’ossessione che lo pervade, ma un abbandono accolto e condiviso. Sono occorsi tanti chilometri, perché ciò accadesse. È occorsa una salita, una discesa, una giornata in silenzio, una giornata vissuta nella complicità di una comunicazione tanto chiara nei suoi contenuti, quanto complessa e ardua da esprimere attraverso un linguaggio. Se tutto è cambiato, cosa di cui Riccardo era profondamente convinto, è soltanto perché quei due occhi hanno finalmente agito e non costituiscono più un’ossessione vissuta nella distanza e nella paura. Sonia era stata sempre avvertita come distante, da quel giorno della notizia. Il suo dolore non era mai stato il dolore di Riccardo. La sua ansia era sempre stata per lui come un effetto collaterale da considerare quasi fisiologicamente, ancor prima che patologicamente, naturale in quelle particolari condizioni. Le stato vicino con il corpo, non le aveva mai fatto mancare la sua presenza, ma quanto le era lontano con l’anima! Era la paura della rivelazione che determinava quella distanza. Sentiva ormai sempre più vicino il momento di rottura. La comunicazione si faceva sempre più nervosa, convenzionale, fondamentalmente apatica. E la paura aumentava. E invece il viaggio nello spazio aveva improvvisamente fatto marcia indietro nel tempo. Andava assecondato. Non era una pretesa. Riccardo non dimenticava che da quel viaggio si aspettava solo un sorriso e che ottenerlo sarebbe già stato un grande risultato. Ebbene, non solo di sorrisi ne aveva ottenuti tanti, ma aveva riportato l’orologio indietro di anni, ai momenti più belli.

L’acqua oggi li aveva intrisi. Intridendo i loro abiti, era passata sui loro corpi e da quella specie di indefinibile primordiale fanghiglia che là dentro, non si sa dove, si era venuta creando, in quei più di cento chilometri percorsi, era cresciuto qualcosa di nuovo, mai sentito prima, nemmeno nei momenti più belli. Era un secondo colpo di fulmine. Ma con un differenza. E che differenza! I fulmini questa volta c’erano stati per davvero. Tutto si ricollegava alla perfezione in quell’armonia ritrovata nel momento per lui più importante. Ora mancava soltanto una cosa da fare. Ma c’era tempo.

Mangiarono in un locale del centro della cittadina di Spittal e trovarono una camera, non certo a buon mercato, in un paese sul vicino Milstattersee. Il prezzo era dovuto al fatto che la camera era vista lago. Ma non era una camera qualunque. Non era nemmeno un’ambientazione qualunque. Era un gran bel ricordo quello che portava a Sonia quella scelta. Sonia non se lo aspettava. Riccardo aveva avuto una sensibilità particolare. Senza dirle nulla, aveva prenotato nello stesso albergo in cui anni prima, partendo da Villach, avevano passato la notte, l’indomani sarebbero arrivati ad Heiligenblut ai piedi del Großglockner, e poi il giorno successivo in cima, al rifugio Franz Joseph. Furono otto giorni meravigliosi, premiati dalla grande fatica della scalata storica. Ma furono gli otto giorni della splendida serata trascorsa a Seeboden, su quel lago, non certo uno dei più blasonati dell’Austria, ma che per loro assunse un significato particolare. Lì, nella camera vista lago di Seeboden, non tutto ebbe inizio, ma lì si confermò quella passione che li avrebbe legati a lungo. Da allora Sonia non mancò mai ai viaggi organizzati da Riccardo, sia che fossero solo per loro due, sia che fossero da compiere insieme ad altri. Sonia non credette ai suoi occhi quando ritrovò lo stesso albergo. Riccardo, che parlava un po’ di tedesco, aveva chiesto una camera vista lago. Quando fu loro proposta una stanza, Riccardo riconobbe, tre numeri più avanti, quella che era stata assegnata loro. Era libera. Chiese se fosse possibile cambiare. Sonia era rimasta nel corridoio a distanza, con il caschetto in mano, a testa bassa. Era l’atteggiamento che assumeva nel momento in cui avvertiva che dentro di lei stava succedendo qualcosa o c’era qualcosa di importante da comunicare, come era accaduto la sera prima in pizzeria a San Candido. Avevano percorso quasi 120 km. Avevano veramente fatto tanta fatica. Sonia non si era chiesta il perché di quella tappa così lunga. Aveva lasciato fare tutto a Riccardo, aveva lasciato programmare tutto a lui, pensando che tutto fosse stato previsto nei dettagli. Non sapeva che era una sorpresa, meditata proprio in giornata. Riccardo non pensava di arrivare al lago. Era convinto che, arrivati a Spittal, che dista qualche chilometro dal lago, non avrebbero avuto voglia di lasciare la ciclabile della Drava per fare altri chilometri. E invece all’incrocio con la strada che scendeva al Millstattersee, mentre come al solito era davanti lei, lui da dietro le aveva urlato: “A sinistra!” Lei aveva obbedito senza guardare. Non aveva neanche letto il cartello. Solo nel procedere in direzione del lago la memoria aveva cominciato a lavorare, ma mai avrebbe pensato a una cosa del genere. Quello significava essere grandi, pensò di lui in quel momento. Era un modo per aiutare il lupo a uscire dalla tana? Era uno stratagemma per creare le condizioni per la domanda? Oppure era la cosa più semplice e bella che ci potesse essere, un gesto d’affetto vero e sentito? Rimase a distanza, mentre il titolare del piccolo, ma molto caratteristico, albergo chiedeva per quale ragione Riccardo volesse proprio quella camera. “Ha mai amato una persona lei?”, gli aveva risposto con un’altra domanda. L’uomo, un anziano signore dall’aria molto distinta, ma dall’espressione arguta, rimase interdetto a quelle parole. Non rispose, farfugliò qualcosa che Riccardo non capì, ma disse che in cinque minuti la camera sarebbe stata preparata. I due rimasero in attesa nell’atrio dell’albergo, con le divise ancora addosso, in attesa che un ragazzo aprisse loro il garage. Quando fu possibile, le misero nel locale, presero le borse e attesero che la camera fosse pronta. “Non me lo aspettavo,” disse Sonia. “Non era nei piani. È un’idea che ho avuto, oggi,” disse lui. “Sotto quel viadotto?” chiese lei. “Come hai fatto a scoprirlo?” Sonia non disse nulla. Si aprì in uno di quei sorrisi che la illuminavano e nuovamente abbassò lo sguardò. Mentre attendevano la preparazione della camera, la moglie del titolare, che fino ad allora era rimasta dietro alla vetrata sul retro della reception, parlò con il ragazzo che li aveva aiutati a mettere al sicuro le bici nel garage. Non appena la camera fu pronta, la sorpresa che ebbero fu qualcosa che non si può dimenticare: un grande mazzo di fiori fu lasciato sul letto, sui comodini e sul tavolino furono messe candeline, un’altra candelina con un altro mazzo di fiori fu messo sul tavolino del balcone che dava sul lago. Il titolare dell’albergo disse a Riccardo che, se volevano, poteva essere portata lì la cena. Riccardo guardò Sonia, gli occhi risposero per lei. Avrebbero cenato sul balcone vista lago, proprio come quella sera di quindici anni prima. Ritornare sui luoghi in cui si è già passati, per rivivere le medesime emozioni, non sempre produce l’effetto sperato; ma quando l’idea del ritorno nasce in modo estemporaneo, senza alcuna previsione, senza alcun progetto, come appunto era nata quella, allora il ritorno assume un significato diverso e forse la ripetizione dell’esperienza riesce meglio del suo originale. Sonia era commossa da quella inattesa dimostrazione di sensibilità, soprattutto al pensiero della freddezza dei mesi appena vissuti. Se la notte trascorsa a San Candido aveva fatto riscoprire l’emozione dell’amore e ridato grande vitalità alla loro unione, quella di Seeboden, che veniva anche dopo una lunga pedalata di quasi 120 km, non poteva che confermare l’autenticità del sentimento ritrovato. Ma la famiglia che gestiva l’albergo aveva avuto una speci di sesto senso e aveva immaginato che ci fosse qualcosa di speciale nel volere proprio quella camera. Sarebbe costata di più di quella assegnata, ma non vollero la differenza. Notevole cura fu prestata anche nell’allestimento del tavolino per la cena. Quando ebbero finito di mangiare, si sedettero sulle due poltrone a sdraio e parlarono. Questa volta la bottiglia di vino che fu loro consigliata, un Gewürztraminer altoatesino molto aromatico, fece il suo effetto insieme alla grande stanchezza accumulata. Sonia si addormentò con la testa sul petto di lui, mentre Riccardo le accarezzava i capelli. Non ci fu bisogno di altro per far capire che cosa era stato ritrovato ritrovato. Riccardo aveva notato che quei chilometri l’avevano messa a dura prova e che alla fine era molto stanca. Gli ultimi erano stati percorsi anche ad alta velocità, per il timore di arrivare tardi. I due temporali avevano fatto perdere del tempo e li avevano rallentati. Ma Sonia non aveva voluto mollare. Andava avanti, faticando, ma procedeva. Riccardo aveva saputo riconoscere bene i segni della stanchezza, ma sapeva che quel dono, l’idea di tornare in quell’albergo, anche se implicava qualche chilometro in più, li avrebbe ripagati. Mentre lei dormiva e il vento fresco della sera accarezzava i loro volti, Riccardo non si lasciò prendere dai dubbi e dalle paure, che lo avevano indotto addirittura a prendere le distanze da lei il giorno prima. Si abbandonò allo sfavillio delle luci sul lago e sui colli intorno ad esso e quello sfavillio, accompagnato dal vicino sciabordare dell’acqua, portò presto anche lui, stremato dalla fatica della lunga tappa, nel mondo dei sogni. Sognò quell’aquila che aveva desiderato in cima alla Cavallera e insieme all’aquila c’erano delle montagne. Erano i Sibillini. Sentiva voci, tante voci. Non vedeva nessuno. C’era la piana di Castelluccio, i colori della fioritura, il Vettore bianco come panna sulla torta. E le voci, una in particolare: “Lassù! L’aquila!” Era Sonia. Fu uno dei viaggi più belli che insieme a dei loro amici compirono e quello della salita a Castelluccio fu un momento indimenticabile per il paesaggio, per la bellezza che tutto avvolgeva, per Sonia e l’amore di lei; ma nella trasfigurazione di quel sogno la bellezza più grande diventava il volo dell’aquila. Erano le due di notte, quando Sonia lo svegliò e lo prese per mano, invitandolo sul letto.

Quarta tappa

Il rumore della pioggia, che batteva sui vetri, e il fischiare del vento, che aveva fatto sbattere con violenza la finestra, li avevano svegliati in piena notte. Sonia si era riaddormentata quasi subito. Riccardo non ci era riuscito, perché quella pioggia aveva avuto, ancora una volta, quel potere di riportarlo indietro nel tempo, che sempre aveva l’acqua per la sua anima, e gli aveva ricordato un momento molto delicato della loro vita: il giorno in cui Sonia perse il bimbo che portava in grembo. Fu una lezione dura da imparare quella che vissero nei giorni successivi, più per l’effetto e la risposta che per l’evento in se stesso. Riccardo rammentò, infatti, in quel dormiveglia notturno l’atteggiamento sorprendente che espresse Sonia come reazione a quell’evento. Lei aveva sofferto tanto e si era chiusa in quella sua malinconica ma sagace timidezza, che solo le uscite e i viaggi in bici riuscivano a trasfigurare. Lui le era stato molto vicino come sempre, vuoi perché Sonia appariva a lui ingiustamente scostante in quei momenti, vuoi perché avvertiva l’impellente necessità di riprendere a guardare in avanti il corso della vita. Ma sentiva anche che a Sonia mancava la bicicletta e che lei aveva bisogno di uno strumento per non pesare. La bicicletta poteva esserlo e non sarebbe stata uno strumento qualsiasi per il ruolo che aveva avuto e che continuava ad avere per la loro relazione. Così, appena fu possibile, appena Sonia ebbe il ‘via libera’ dai medici, Riccardo una mattina decise: “Andiamo! Devi riprendere ad allenarti.” Il meteo non prometteva niente di buono. Ma Riccardo, diversamente dal solito, non vi prestò alcuna attenzione. Sonia non disse nulla, per quanto stupita del fatto che Riccardo non avesse tenuto conto delle previsioni. Accettò e andò con lui. Tre quarti d’ora dopo, mentre erano in salita, si scatenò il previsto temporale. Riccardo si mise la mantellina. Sonia, come suo solito, si bagnò, si lasciò intridere di quell’acqua che amava alla follia. Riccardo non fu stupito tanto da quel gesto, quanto dalla carica che la pioggia diede a lei e dall’indolenzimento che l’acqua fredda provocò sui suoi muscoli. Arrivò in cima alla salita con notevole ritardo, quando il temporale era ormai passato e il sole splendeva. Un particolare avrebbe contribuito a fissare la memoria dell’evento: un’iride partiva da un colle alla sua sinistra e lo collegava con un altro alla sua destra; per lui che saliva verso il valico sotto l’iride, al centro, sul ciglio dell’asfalto era la figura di Sonia, sorridente, a cavallo della sua bici, che lo incoraggiava e gli ricordava che la strada era molto scivolosa in discesa. Immagine scolpita nella memoria, rimasta come poche altre viva nel tempo, esattamente come se fosse stata scattata un’istantanea. Con quel ricordo di uno dei tanti momenti di pioggia pregni di significato e con quell’immagine dei due occhi neri di Sonia sotto l’arcobaleno Riccardo riuscì a riprendere sonno; fu possibile solo pensando nuovamente all’acqua e al ruolo che per loro aveva sempre avuto in tutte le sue forme, come aveva appena dimostrato l’episodio sotto il viadotto nella lunga tappa appena conclusasi il giorno prima. Quell’acqua aveva allora, sul valico appenninico, sulle montagne di casa, rigenerato Sonia, che in quel momento era come una batteria che aveva bisogno della ricarica, tanto che Riccardo spesso si era chiesto la ragione del suo anomalo comportamento di proporre ugualmente l’uscita nonostante le previsioni meteo e di sfidare gli elementi. E l’acqua poche ore prima l’aveva ancora una volta riavvicinata a lui, quando sotto quel viadotto Sonia aveva detto che il viaggio era bellissimo. Non lo avrebbe detto se non ci fosse stata quell’acqua rigeneratrice. E quel temporale di Seeboden ora l’aveva riportata a lui con un altro viaggio nel tempo. Il ricordo dà forza all’esperienza del vivere, non importa di che genere esso sia, se bello o brutto: non serve soltanto a imparare, perché non necessariamente ha qualcosa da insegnare; il ricordo serve a conservare il significato dell’esperienza vissuta, ad archiviarlo e a mettere così nella condizione di poter formulare a distanza di tempo altre domande su quell’esperienza che il ricordo stesso ha rievocato. Diede un bacio a lei, che dormiva, si girò e si riaddormentò.

Si svegliarono alle undici del mattino. Non ci fu problema per la colazione, anche se l’ora era tarda. A loro ormai tutto era concesso da quella anziana famiglia affabile e ormai definitivamente ben disposta verso di loro. Alla partenza il saluto della coppia titolare del piccolo albergo fu caloroso, quasi commosso. Ma non era finita. Quando furono accompagnati dal solito ragazzo al garage, trovarono due bellissime rose rosse legate al telaio delle bici. Fu un tocco di delicatezza davvero speciale. E fu un animo altrettanto speciale quello con cui ripartirono per il breve tragitto che li avrebbe portati a Villach, a piedi delle Alpi carniche, che due giorni dopo avrebbero riattraversato per tornare in Italia. In poco più di due ore arrivarono. E trovarono una sistemazione proprio sulla ciclabile, sicuramente senza lo charme di quella di Seeboden, ma decisamente molto comoda in previsione della successiva tappa, che prevedeva un po’ di salita fino al valico di Tarvisio. Videro la scritta Zimmer frei in una casetta sulla ciclabile e senza indugio si fermarono. C’era anche un giardino dove passarono la serata in compagnia della titolare, una simpatica e ospitale signora che parlava benissimo l’italiano, avendo parenti in Friuli, appena di là dal confine, che da lì distava appena 25 km. Gente di frontiera. E storie di frontiera furono inevitabilmente quelle che si raccontarono quella sera.

Il clima tra di loro era ormai diverso. La tensione del viaggio in auto per arrivare a Belluno si era risolta in qualcosa che per Riccardo andava oltre le più rosee previsioni. Non solo. Riccardo temeva che quell’esperienza, se non riuscita, avesse potuto addirittura peggiorare le cose, portando alla sanzione definitiva del distacco, della rottura. Dopo la cena in paese e dopo la passeggiata a piedi in paese, resa breve dai quasi 120 chilometri del giorno prima, che sentivano ancora nelle gambe, si fermarono nel giardino a chiacchierare con la padrona della casa; quest’ultima ebbe di loro l’impressione di una coppia di giovani innamorati, conosciutisi da poco. E lo disse loro francamente. A Riccardo piacque aver dato quell’impressione. A Sonia creò invece un po’ di imbarazzo. Si sentiva frastornata da quanto accaduto in poche ore. Sorpresa lei stessa da quanto accaduto e dal mistero che quella serie eventi succedutisi a ritmo veloce e incalzante in poche ore avesse potuto fare riaccendere quello che fra di loro si era lentamente spento in una reciproca paura. Riccardo, proprio nel momento in cui mesi prima avrebbe dovuto sentire più vicina Sonia, se l’era vista sfuggire di mano. Ma restava sempre quel problema da risolvere, il più difficile, come far sì che si trovasse l’occasione di dare la motivazione reale del viaggio. Ne aveva finora parlato in modo sfuggente con lei. Le aveva detto che gli sarebbe piaciuto fare un viaggio in bici insieme, come per tanti anni insieme o con altri avevano fatto. Aveva detto che era una cosa che l’avrebbe divertita e che non doveva aver paura, perché era forse, tra i due, più allenata lei di lui. Ma non aveva mai avuto il coraggio di dichiarare palesemente quello che Sonia forse aveva già capito. Proprio per questo ammirava la sua energia, la sua alacrità nel voler stare davanti, nel voler dare il ritmo, nel volere avere il controllo di una situazione in cui non desiderava ormai più essere spettatrice, né invitata speciale, ma protagonista. Con questo stato d’animo si apprestarono alla giornata del rientro in Italia, con un po’ di salita fino al valico di Coccau e poi, da Tarvisio, discesa fino a Pontebba. Le rose donate a Seeboden furono tenute bagnate tutta la notte e la mattina dopo, ripreso il loro splendore, poterono essere rimesse nuovamente sulle loro due bici.

Queste ultime erano le stesse da tanto tempo. Erano due mountain bike, scelte apposta perché il tratto della ciclabile delle Dolomiti percorso da Cortina a Dobbiaco era in parte in stabilizzato, in parte proprio sterrato di sassi. Quella che usava Sonia era stata poco usata. Sonia usciva quasi solo con la bici da corsa. Riccardo invece aveva diversi amici con i quali usciva anche con il ‘rampichino’. A lui piaceva usare il vecchio nome italiano dato dall’azienda toscana, che per prima portò in Italia questo nuovo tipo di bicicletta nata negli Stati Uniti. Erano due belle bici, che venivano gelosamente custodite, dopo che ebbero subito il furto delle bici da corsa durante una granfondo, quando, alla fine, mentre si ristoravano ai tavoli con il classico piatto di pasta offerto dall’organizzazione, diverse bici furono rubate, tra le quali appunto le loro due. Sul tubo superiore del telaio le due rose facevano veramente bella figura di se stesse. Riccardo le adorava e le aveva non solo spesso regalate a Sonia, ma, proprio perché non le mancassero mai, ne aveva addirittura piantate di tre tipi nel giardino di casa: ad arbusto classiche di fianco e nella parte anteriore del giardino, rampicanti sulla cancellata fronte strada, tappezzanti sulla bordura del sentiero pedonale che portava alla scala d’ingresso. Per Riccardo quella delle rose non era solo una passione; era quasi un ossessione. Ma sapeva che per Sonia era uno dei regali più belli. Sonia guardava spesso quel fiore così curiosamente abbarbicato alla sua bici bianca, che sembrava valorizzarla di più. Nel segno della rosa e di tutto quello che nei secoli questo fiore, bello ma spinoso, aveva significato sarebbe perciò dovuto proseguire quel viaggio. Il silenzio, dettato dalla salita, dalla montagna, dai vasti alpeggi in quota a cui rispondevano opachi tratti boscosi, dalle tante ormai consuete ‘antinomie’ che entrambi avevano ormai imparato ad accettare come maestre in quella speciale esperienza dalla motivazione nota ma ineffabile, regnò nuovamente sovrano. Solo un esorcismo avrebbe potuto riaprire l’archivio alla pagina dei perché. Più le ore passavano, più difficile sarebbe stato affrontare quell’argomento. Il viaggio li stava guidando; e dal momento in cui Riccardo, inopinatamente, senza alcun preavviso, senza che la cosa fosse mai stata progettata, a Spittal aveva girato per Seeboden, il viaggio imponeva lui le sue regole.

Quinta tappa

La salita, che li portò da Villach a Coccau e al valico, e poi a Tarvisio, dove si fermarono a mangiare, era molto dolce, dalle pendenze che solo nel tratto finale, dopo il paese di Arnoldstein, diventavano maggiori. Del resto di neanche 300 m era il dislivello totale, più o meno come quello che da Cortina aveva portato a Cimabanche nel secondo giorno di viaggio. Una dolcezza del salire che, con il ritorno imperante del sole in cielo, riportò anche un po’ di malinconia nel silenzio con cui affrontarono il rientro in Italia. Quando da Villach la ciclabile girò in direzione sud, era naturale che si entrasse nel clima del ritorno che portava piano piano alla fine del viaggio. Era sempre così. Era stato sempre così in tutti i loro viaggi. Il momento dell’inizio del ritorno era quello della malinconia, in cui si avverte per la prima volta un cambiamento nello spirito con cui si spingono le gambe sui pedali. Eppure della strada da percorrere ce n’era ancora tanta. Sonia aveva ascoltato sempre distrattamente i resoconti di Riccardo. Sapeva che sarebbero dovuti scendere in pianura fino a Udine, o forse solo fino a San Daniele e poi avrebbero deciso come ritornare a Belluno, se in bici o in treno. Per tornare con il treno, sarebbero dovuti scendere fino a Udine; per tornare in bici, a San Daniele del Friuli avrebbero dovuto prendere la strada, non più ciclabile, che attraverso Vittorio Veneto li avrebbe riportati all’auto, nel piazzale vicino al ponte degli Alpini di Belluno. Ma c’era una terza ipotesi nell’aria.

La Carnia. Terra meravigliosa. Non si dovrebbe avvertire la soluzione di continuità nel passaggio dalla Carinzia austriaca al Friuli italiano. Quel valico, quel confine, quello spartiacque ingannano: il nome tedesco della Carinzia, Kärnten, forse ricorda meglio la parentela con la Carnia, la terra dei Carni. Antica tradizione celtica, bastonata nei secoli da tutti, dai vicini reti come dai romani, dai tedeschi come poi dagli slavi. Eppure quella lingua difficile, il furlan, è qui proprio a ricordare, resistendo, questi passaggi e quella debolezza delle sue origini. I celti. Perché le hanno sempre e solo prese da tutti dappertutto? Nelle Gallie, nelle isole britanniche, nell’Europa centrale, in Spagna e Italia settentrionale. Di loro resta qualcosa solo nella fonetica, dicono gli esperti. La signora che li aveva ospitati a Villach aveva a lungo parlato di quelle questioni linguistiche da cui erano rimasti entrambi affascinati. Lei aveva usato quell’espressione e aveva parlato dei celti “ovunque bastonati da tutti”. Era sempre impressa in loro, pedalata dopo pedalata, quell’immagine sotto forma di una metafora: un popolo che a forza di prendere solo bastonate da destra e da manca alla fine piega la testa e si lascia assimilare, perdendo identità, cultura, lingua, tradizioni. Quel dialogo serale nel giardino della casetta sulla ciclabile a Villach aveva fatto sicuramente sentire meno il passaggio del confine, che invece nel paesaggio si avvertiva, eccome. Erano le solite antinomie, regole da accettare così come sono e che impongono all’uomo di rassegnarsi alla sua posizione di elemento tra i tanti nell’ordine naturale delle cose. Ma c’era, al fondamento di tutto questo, anche il problema della natura, dell’identità, non solo di un popolo, ma anche si se stessi: quello su cui Sonia rifletteva. Qual era stato il suo atteggiamento di fronte al mutare delle circostanze della sua vita? Si era lasciata guidare senza opporre resistenza. Aveva lasciato arrivare la bastonate da destra e da manca anche lei. Non si era opposta. Riccardo voleva una prova di coraggio? Un accenno di reazione? Si era chiusa. E chiudendosi si era allontanata, aumentando tra lei stessa e Riccardo quella distanza che sembrava, appena quattro giorni prima, nella prima sofferta tappa da Belluno a Pieve di Cadore, quasi incolmabile. Che cosa era successo? Possibile che fosse bastato salire su una bici per cambiare tutto? Possibile che quella natura, quelle montagne, quei paesaggi, quell’acqua fossero tutti vivi e agissero per lei? Quante volte si era posta quella domanda! Da sempre se la poneva. Eppure, comunque fosse, qualcosa era cambiato. Lei non aveva fatto nulla. Ancora una volta si era lasciata guidare da altri. Riccardo aveva fatto tutto. O forse anche lui si era lasciato guidare come strumento? Tutto era partito da un’idea, quella appunto di mettersi in viaggio per qualche giorno, su tracce in parte già battute, sulle tracce di una memoria che forse poteva fare la sua parte. E l’aveva fatta la sua parte. Eccome se l’aveva fatta! Riccardo era stato veramente bravo. Nel primo giorno le era stato vicino. L’aveva sostenuta come sempre aveva saputo fare. Lei non aveva mai compreso fino in fondo quel suo comportamento, quella sua insistenza a rimanerle accanto anche quando lei chiaramente si stava allontanando. Non era amore per lei. No. Per Sonia era un attaccamento al dolore, al sacrificio e alla sofferenza. Quell’attaccamento che Riccardo manifestava quando sceglieva per le uscite salite che lui spesso affrontava con difficoltà persino maggiori di lei. Non era amore, secondo Sonia. Ma si era sbagliata. Ancora una volta aveva pensato sempre e solo utilizzando solo il suo punto di vista. Riccardo non era una persona comune. Lo aveva capito solo adesso. Riccardo stava realizzando un monumento e lo stava facendo in modo assolutamente disinteressato e altruista. Riccardo stava facendo tutto per lei. Se anche sopra di lui c’era qualcosa che lo muoveva, lui stava assecondando il piano. E Sonia solo adesso lo aveva capito. Aveva accettato tutto. Aveva accettato l’idea. Si era preparata e allenata addirittura più di lui per accettare quell’idea. Ma mai avrebbe pensato che tutto fosse organizzato solo ed esclusivamente per lei. Lo avrebbe dovuto capire il secondo giorno, quando lui, dopo le sue crisi del primo, anziché starle accanto, si era distanziato da lei. Le aveva fatto credere di essere in difficoltà e meno allenato? Aveva recitato la parte per infonderle coraggio dopo le crisi e per farla sentire più protagonista? Per questo l’aveva sempre lasciata davanti? Se era sì la risposta a tutto questo, Sonia ora doveva chiarire tutto e lo fece a modo suo. Quando, dopo la lunga pausa pranzo a Tarvisio, ripresero le bici per scendere, lungo il tracciato di un’altra ex ferrovia, su Pontebba, dove si sarebbero fermati per la notte, disse a lui: “Ora vai avanti tu, Ricky!”. “Perché?” Sonia fece una pausa e in modo apparentemente distratto – come era brava quando voleva dissimulare! – disse: “Perché è giusto così.” Lo disse senza guardarlo, pensando a controllare che le borse fossero ben fissate e ben chiuse, cosa di cui non c’era alcun bisogno, che la catena fosse sufficientemente oliata, che cambio e deragliatore funzionassero bene, e così via. Era giusto così. Era lui quella che aveva fatto il monumento. A lui spettava il primo posto, senza se e senza ma.

Trovarono facilmente una camera a Pontebba in un b&b, anche questo situato in posizione per loro molto comoda, proprio sulla ciclabile e con garage altrettanto comodo per poter tenere al sicuro le bici. Cenarono in una trattoria sotto la minaccia della pioggia che si fece attendere, ma con la temperatura che era sensibilmente scesa rispetto ai giorni precedenti. Non fu una serata come le due precedenti. Il rientro in Italia aveva, per così dire, riportato il tempo indietro. Parlarono di se stessi. E fu la prima volta. Ma non toccarono temi su cui si ci poteva scottare. Andarono indietro nel tempo. Ripercorsero quelle strade a loro già note. Parlarono degli amici con cui avevano già pedalato su quelle montagne tra Cadore, Alto Adige, Tirolo, Carinzia e Carnia. Nel parlarne si avvertiva la sensazione di dover per forza colmare un vuoto: altrimenti lo avrebbe riempito un silenzio che sarebbe stato diverso dagli altri e che questa volta avrebbe potuto incutere paura. Era una sensazione condivisa.

Di notte si scatenò il temporale. Riccardo si svegliò. Sonia no. Svegliatosi, si alzò e andò alla finestra, che era rimasta aperta. La chiuse, rimanendo a osservare i fulmini che illuminavano la vallata. Tanti fulmini. Una specie di tempesta elettrica fu quella che si scatenò in poco tempo. Durò una trentina di minuti. Fu sotto un temporale simile che l’anno prima era iniziato il distacco, mentre ascoltava le parole del suo medico e lo osservava rigirare nervosamente tra le mani i referti degli esami di Sonia. “L’ha presa male, Ricky”. Quella frase risuonava come un’eco fastidiosa dal momento della partenza e si associava in modo quasi beffardo alla bellezza di quei due occhi neri. Ogni fulmine era come se li illuminasse, come se li portasse dentro di lui insieme a quelle parole e là dentro desse vita a qualcosa di insopportabile, di indecifrabile. Il distacco e il ritorno. L’illuminazione violenta e fugace; e il buio. “L’ha presa male”. Gli occhi di lei: lo guardavano anche quando lei non era lì, li sentiva addosso sempre, sentiva da mesi lo sguardo di Sonia puntato su di lui, come una richiesta di aiuto che non si avesse la forza di esprimere e che nell’acuirsi del distacco si affievoliva sempre di più. Tornò a letto. Erano le quattro del mattino. Non riuscì a prendere sonno, se non con grande difficoltà e con un grave peso sull’anima: erano sempre la paura della mancata domanda e quella della conseguente mancata risposta. Perché questo viaggio? Non aveva ancora avuto il coraggio di formulare la domanda; non aveva un’idea di quella che avrebbe potuto essere la forma che avrebbe dovuto prendere la domanda. Perché questo viaggio? Cosa rispondere a quella domanda? Aveva riflettuto tanto. Si era posto nella situazione tante volte. Aveva ipotizzato tante possibili risposte, ma la realtà era quella: la paura lo aveva sempre bloccato. E ora alla paura si aggiungeva il senso di colpa di aver fatto tutto per pietismo e non per amore, o meglio, che lei potesse interpretare tutto quello che stavano vivendo in modo assolutamente meraviglioso, ben oltre le più rosee previsioni della vigilia, addirittura come qualcosa fatto non per amore. Non era più la peggiore della ipotesi. Era convinto, forse ingiustamente; ma lo era. Diverse volte si era alzato dal letto. Sonia respirava profondamente. Quando si alzava, andava alla finestra, come se volesse di muovo l’illuminazione che quella tempesta di fulmini non era riuscita a dare. Alle cinque del mattino Sonia si svegliò. Lui non se ne era accorto. A Sonia era parso di aver sentito un lamento. Non si girò. Sentì lui che aspirava in modo irregolare e nervoso con il naso, come se stesse piangendo in silenzio, senza farsi sentire. Non volle che si accorgesse che si era svegliata e rimase girata, avvolta in una coperta di pensieri. Lui continuava ad ansimare tacitamente. Fu una brutta notte. Bruttissima. Cosa stava succedendo? Tutto quanto era stato fino a quel momento non semplicemente bello, ma addirittura meraviglioso da San Candido fino a lì, fino a Pontebba. Mancava qualcosa, in effetti, a quella bellezza. Mancava la rivelazione di una ragione di fondo, la soluzione di un sentimento di paura, l’ammissione di una colpa per averla consapevolmente alimentata. E anche l’anima di Sonia sprofondò nuovamente in quell’abisso da cui si era sollevava salendo a Cimabanche nel secondo giorno di viaggio e raggiungendo poi felice San Candido. Quando alle otto Riccardo si alzò, si portò dalla parte di Sonia, si sedette sul letto vicino a lei ancora stesa e avvolta nel piumino leggero, le accarezzò i capelli. Sonia stava piangendo. Riccardo continuò ad accarezzarla, senza dire assolutamente niente. E nemmeno lei disse assolutamente niente. Paura. Tanta, tanta paura. Anche quella di ammettere di aver versato lacrime.

Sesta tappa

Al primo posto fu lasciato Riccardo anche l’indomani, quando partirono da Pontebba, dopo la solita lunga consultazione mattutina di planimetrie e altimetrie. L’animo era molto diverso. C’era un complicità nuova e strana negli sguardi che si incontravano dopo quella notte e dopo quelle lacrime rimaste senza la spiegazione esplicita che le avrebbe forse edulcorate. Lacrime fredde. In realtà fu Riccardo a consultare, a riferire, a esporre dettagli. Lei ascoltava, accettava, sempre sorridendo: era, infatti, consapevole del dono avuto e non doveva deluderlo, nonostante tutto. Quello era il monumento della sua vita. Lo aveva fatto per lei e lei doveva dare il meglio. Non doveva pensare a quanto successo quella notte. Doveva concentrarsi sul viaggio e sul significato di dono che stava assumendo. Ora sì che sentiva di aver qualcosa da dimostrare: questa convinzione che tutto fosse stato organizzato solo per lei le fece ritrovare una forza imprevista.

Quando Riccardo ebbe l’idea di tornare a Belluno non più in treno, ma in bici passando dalla val Cellina e scendendo dal lago del Vajont, non solo non si oppose, ma gli avrebbe addirittura dimostrato di essere più preparata di lui. E lo era effettivamente sul piano strettamente atletico: corporatura asciutta, muscolatura tonificata. Era l’idea nell’aria da tempo. Era la terza ipotesi dopo quella del treno da Udine a Belluno e dopo quella del rientro in bici passando da Vittorio Veneto. C’era un dubbio da risolvere: l’apertura della vecchia strada della Val Cellina, che era gestita dall’ente del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane, aveva delle limitazioni. Sonia seguiva Riccardo nella lunga e quasi impercettibile discesa a debita distanza. La pioggia aveva reso viscido l’asfalto e, anche se le bici pesanti per le borse da viaggio e le ruote ‘grasse’ delle mountain bike garantivano sicuramente maggior tenuta, occorreva comunque prestare molta attenzione. E prestare attenzione richiedeva di essere lì con la testa, vigili e attenti, senza deconcentrarsi un attimo. Sonia riusciva meglio di Riccardo in quegli esercizi, quando la mente rischiava di essere presa da altro. Anche per questo aveva preferito stare dietro: lo poteva vedere. Stare dietro era in quel momento per lei il modo giusto per avere il controllo della situazione, come si insegna che dovrebbe sempre fare un genitore, quando esce in bici con un bambino.

Ora anche lo stato d’animo collaborava. Il primo giorno era mancata la testa e l’anima si era lasciata attaccare da forze oscure che non dovevano averla vinta. Il secondo giorno era stato quello della reazione. Il terzo quello della rivelazione. Il quarto quello delle conferme. Il quinto quello della consapevolezza del dono. Ora occorreva il ringraziamento. Il sesto giorno doveva essere quello della riconoscenza nei confronti del dono. Mentre lui procedeva e lei lo seguiva da dietro nella lunga discesa che li avrebbe riportati in piano, Sonia ad altro non pensò che a come manifestare quella riconoscenza. Per il momento si rese conto che l’unica carta che poteva giocare, tra quelle a sua disposizione, era la forza sui pedali e lo avrebbe dimostrato non certamente lì, non certamente nelle tappe in discesa che l’avrebbero portata fino all’imbocco della val Cellina. Dopo lo avrebbe dimostrato, come tutti i ciclisti veri, quando la strada avrebbe ricominciato a salire, questa volta sul serio, perché il dislivello sarebbe stato maggiore di quello affrontato nelle prime due giornate.

Scesero in silenzio fino a San Daniele. Per raggiungerla dovettero lasciare per la prima volta la ciclabile e utilizzare strade secondarie. Il non potersi affiancare aumentò il silenzio e la distanza. Ma Sonia stava bene così. Non era la stessa situazione che si era creata dopo la partenza da Pieve il secondo giorno. Quella distanza e quel silenzio questa volta facevano veramente paura. Non c’era una tattica. Non c’era una deliberata volontà ad attuarli. Erano venuti dal passato. Sapeva da quanto occorso quell’ultima notte che un spirito malvagio dagli abissi del tempo aveva riportato in superficie la paura e con essa la colpa. Entrambi avvertivano una colpevolezza nell’atteggiamento assunto. Il silenzio la aumentava. A San Daniele trovarono facilmente un altro b&b, dove passarono la sera e la notte in un silenzio e in un clima lontani anni luce da quello di Seeboden. Entrambi erano convinti che fosse giunto il momento di gettare in tavola le carte. Ma c’era una salita prima di rivedere l’auto. E prima della salita finale un’altra tappa, con un tratto in salita, che da San Daniele li avrebbe portati al lago di Barcis. Quella salita, che non faceva parte dei piani, assumeva ora un significato davvero speciale. Era stata un’ottima idea quella di non scendere a Udine per prendere il treno per Belluno. Il viaggio doveva risolvere tutto e lo doveva fare fino in fondo, con la fatica, con il sacrificio, con un traguardo, con la montagna che per lui era tanto, ma per lei era tutto. La montagna l’aveva accolta bambina, quando fu adottata. Sulle strade di casa e su quelle salite appenniniche, rese più ardue dall’aridità del paesaggio estivo, dagli alvei asciutti, dai prati gialli e bruciati dal sole, aveva fortificato il corpo. Da quella forza nelle sue fibre, da quella forza che solo la natura le aveva dato, erano venuti i successi nel lavoro, nello sport, l’amicizia, l’amore. La montagna aveva segnato sempre le tappe della sua vita. La montagna non poteva non lasciare un sigillo finale anche a quel monumento che le era stato donato in modo così semplicemente meraviglioso. Ma soprattutto la montagna non poteva assolutamente restare quinta inerte di un dramma interiore che solo lei avrebbe, probabilmente, potuto risolvere. Per questo, la notte passata a San Daniele, ai piedi delle montagne, in fondo alla lunga discesa dai contrafforti alpini della Carnia, in un b&b sul fiume Tagliamento, fu ancora peggiore di quella trascorsa a Pontebba. Riccardo sentì Sonia piangere prima di addormentarsi. Poi venne la crisi d’ansia. Le lacrime divennero inconsolabili e facevano male a tutti e due. Riccardo la accarezzava e la baciava, la baciava e la accarezzava, senza sosta, ma più lo faceva, più lacrime uscivano beffarde e maligne da quegli occhi neri da cui tutto era partito e in cui nulla sarebbe mai dovuto finire. Sonia si placò alla fine. Uscì dalla camera. Arrivò fino al fiume e rimase lì a lungo, seduta con i piedi nudi sull’erba, le braccia attorno alle ginocchia e lo sguardo rivolto alle ombre dei monti che l’oscurità stava lentamente nascondendo alla vista. Riccardo, dopo aver più volte asciugato quegli occhi, fu tentato di riprendere quel canto popolare russo. Le mani afferrarono il tablet, ma lo lasciarono alla fine dov’era. “Occhi neri, vi amo così tanto, vi temo così tanto, di sicuro, vi ho visti in un’ora sfortunata.” Erano le ultime parole della prima strofa della struggente ballata russa, quelle che non avrebbe voluto sentire. E invece a quelle puntualmente andò l’anima. Sonia era attratta dal quel testo. Ma Riccardo non aveva mai capito fino in fondo quell’attrazione; non gli mai stato ben chiaro quanto quel canto la riportasse a lui piuttosto che alle sue radici; sicuramente per questo aveva ritratto le mani. Sonia rientrò. Gli si fermò di fronte, gli diede un bacio e gli disse: “Grazie, Ricky.” Riccardo avrebbe avuto mille parole che ribollivano in gola, ma nessuna di esse ebbe la forza di uscire. Dall’ampio letto del fiume si diffondeva e si posava sulle poche case sparse l’umidità della notte, molto diversa da quella che era salita dal lago a Seeboden ed era penetrata con tale forze nelle loro anime. Acque diverse. Altre antinomie di quelle montagne. Tutto rientrava sempre nell’ordine naturale delle cose, in un modo o nell’altro, anche a tradimento.

Settima tappa

Sarebbe stata breve la tappa successiva, la settima, appena una quarantina di chilometri, ma gli ultimi erano in salita. Quegli ultimi chilometri andavano affrontati sulla vecchia strada della val Cellina, che finalmente consentiva di evitare la lunga galleria del nuovo tracciato. C’erano degli orari e delle date per poterla affrontare. Riuscirono a passare. Fu di una bellezza straordinaria come esperienza. Era quello che ci voleva: immergersi nuovamente nella montagna vera, assaporare il bosco, vivere i silenzi, dare all’anima il paesaggio che lei semplicemente aveva sempre richiesto. Riccardo si comportò come alla partenza da Pieve il secondo giorno: lasciò Sonia davanti, ma lo fece solo quando la strada iniziò a salire. Sonia accettò la decisione, che faceva del resto parte anche delle sue intenzioni. Sapeva che stava arrivando il suo momento. Doveva dimostrare di essere degna del dono e di poter dare una soluzione al sentimento di paura che li aveva invasi prima nella discesa da Pontebba, poi in quell’ansia ridestatasi a San Daniele. Riccardo pedalava avendo sempre nella testa l’eco di quei fulmini della notte di Pontebba e la vista di quegli occhi inconsolabilmente feriti in quella di San Daniele. E con le note di quel canto e di quei due meravigliosi occhi neri che non lo abbandonavano mai.

Nonostante il ridotto chilometraggio di quella frazione, arrivarono stanchi. Trovarono una camera a Barcis in una vecchia ma caratteristica casa di paese. Si accontentarono di una sistemazione semplice. Non cercarono nemmeno, da quanto erano stanchi. Al primo cartello si fermarono. Sette giorni sui pedali cominciavano a farsi sentire e Riccardo nutrì dei dubbi sul fatto che riuscissero a salire fino alla diga del Vajont. Lo disse apertamente a Sonia. Lei non rispose subito. Stavano togliendo le borse dalla bici nel garage della casa, quando lui espresse il dubbio. Sonia era stanca. Ma non voleva apparire tale. A Riccardo ovviamente non era sfuggito che Sonia nell’ultimo tratto di strada aveva sensibilmente rallentato il ritmo. Anche il volto era per la prima volta provato. Sonia finì di smontare le borse dalla sua bici e poi disse: “Adesso forse le gambe darebbero una risposta, la testa un’altra. Domani mattina vedrai che tutto l’insieme sarà d’accordo.” Quelle parole furono dette con un accenno di sfida. Era l’atteggiamento di Sonia prima di ogni uscita. Era l’antico spirito agonistico, che non cessava di farsi sentire, nemmeno nei momenti più impensabili, e che già in altre occasioni Riccardo aveva potuto conoscere. Ma questa volta non fu da lui avvertito come un bel trattamento. Si sentì schiaffeggiato da quelle parole, in cui avvertì quasi una necessità di difendersi.

Riccardo e Sonia non erano così inesperti da non immaginare che una crisi di fame o di stanchezza potesse arrivare anche all’improvviso. L’indomani sarebbe stata l’ottava e ultima giornata sui pedali. Da Barcis sarebbero saliti al Vajont e da lì scesi su Longarone, da cui avrebbero ripreso in senso opposto la ciclabile del Piave che avevano percorso il primo giorno. Riccardo era preoccupato e per tutta la cena, che consumarono in una trattoria del paese, non lo nascose. Sonia restava in silenzio e la sua mente nuovamente non era lì. Riccardo parlava del percorso, guardava su internet come al solito altimetrie e planimetrie, contava chilometri e dislivelli totali e parziali. Ma Sonia era altrove. Riccardo lo notò. Era la stessa meravigliosa Sonia che vedeva di spalle, seduta per terra, rivolta al fiume e ai monti, abbracciata alle proprie ginocchia, con i piedi nudi sull’erba.

Sonia stava arrivando alla meta. Pensò alle due crisi che aveva avuto il primo giorno e alla caduta provocata dalla seconda. Ne aveva ancora le tracce sul corpo. Pensò a cosa aveva provocato quelle crisi. Pensò ai dubbi che l’avevano assillata, quando si era lasciata guidare e aveva concesso passivamente a Riccardo la guida della situazione, sia all’inizio del viaggio, sia prima durante la sua organizzazione. Ma pensò anche ai meravigliosi momenti goduti a San Candido, Seeboden e Villach. Pensò a quella pioggia del terzo giorno che aveva impresso una direzione nuova a tutto. Pensò al dono, mai rivelato nella sua sostanza, nel suo significato. Pensò soprattutto a come si era prefissa di manifestare la propria riconoscenza: con la forza celle gambe. Non poteva assolutamente cedere adesso. Si chiese se quel viaggio stesse diventando una pretesa eccessiva e si chiese soprattutto se quanto accaduto nelle tre sere da San Candido a Villach fosse stato un breve sogno, svanito nelle lacrime della notte di Pontebba. Si chiese soprattutto cosa fosse per lei quel viaggio di cui aveva accettato senza discussione ogni dettaglio. Ma al di sopra di tutto c’era una domanda, sempre quella domanda. E a quel punto veniva la paura. Veniva perché affrontare quell’argomento significava costringere Riccardo a entrare in una regione pericolosa, in un territorio ostile, che lei aveva finora gelosamente tenuto chiuso e segreto: il territorio oscuro dominato dal dolore. Solo lei ci poteva entrare quando e come voleva. Come si può essere così ingrati, nel momento in cui ci si propone la manifestazione della riconoscenza, dal far precipitare in un abisso di dolore chi ti ha fatto un immenso dono d’amore? Era come trovarsi in un vicolo cieco. Si dove andare avanti nella paura, perché si sapeva che al confronto con l’altro era ormai impossibile sfuggire. Sonia rimase in silenzio per quasi tutta la serata. Dei due era sempre la meno loquace. Riccardo verso la fine della cena, quando per la stanchezza nessuno dei due fu nemmeno sfiorato dall’idea di una passeggiata sul lago, per l’ennesima volta le chiese, con molta delicatezza, se fosse proprio convinta di andare avanti. Sonia ovviamente fu irremovibile. Riccardo naturalmente la conosceva e non si stupì. E fu così che, come a bruciapelo, le disse: “Hai due occhi che si mangerebbero il mondo intero.” Sonia non se lo aspettava. Riccardo era molto amorevole, molto servizievole, forse anche troppo qualche volta, ma raramente riusciva a essere romantico con le parole. Lo sapeva essere con i gesti, come aveva ampiamente dimostrato a Spittal-an-del-Drau, quando ebbe l’idea improvvisa di andare fino al lago e di cercare quel piccolo albergo a Seeboden. Perciò Sonia fu stupita da quelle parole. Era una persona nuova quella che stava conoscendo? C’era sempre stata al suo fianco e lei mai se ne era accorta? No. Non era possibile che un viaggio potesse tanto. Eppure qualcosa era successo. No. Non qualcosa. Era successo tanto. C’era stata in quei giorni una comunicazione delle anime che avevano usato come strumento il corpo, la fatica, la strada, il paesaggio, la montagna, il caldo del mezzogiorno e la pioggia della sera. A quel comunicazione lui era stato attento evidentemente. Sapeva coglierne le sfumature, che lei evidentemente non aveva voluto cogliere. Non c’erano solo una domanda e una risposta che facevano paura. C’era anche un complesso percorso che portava a quella domanda e a quella risposta e di quel percorso il viaggio che si stava concludendo era solo un momento, un punto insignificante. Lui aveva studiato tutto quel percorso nella comunicazione, nel dialogo tutto spirituale affidato soltanto agli occhi,all’ascolto, all’amore per la montagna, l’aveva lasciata andare avanti quando voleva studiare, pensare, leggere le tracce di quell’indefinibile forma di comunicazione. E questo era molto bello. Per Sonia era un insegnamento ulteriore che le veniva da una persona che sicuramente – sì, lo doveva ammettere con se stessa – non era certo eroica ed eccezionale, perché anche Riccardo aveva commesso tanti errori, anche lui aveva ceduto alle paure, ma sapeva capire delle esigenze che non erano convenzionali e scontate. E quel viaggio non era certamente convenzionale, né tanto meno scontato.

“L’affetto apre l’ingegno e rende luminose le menti”: quella frase di Niccolò Tommaseo, decisamente singolare in quel contesto e forse trovata su internet, era nell’originale menu, che fu loro dato nella trattoria: una tavoletta di legno, su cui era attaccato con un chiodino un cartoncino anticato su cui era stampata la scelta dei piatti. In fondo, in calce, la frase dello scrittore dalmata. Sonia puntò quasi distrattamente l’indice della destra su quella frase, indicandola a Riccardo. Ma nessuno dei due disse nulla.

Ottava tappa

Appena una cinquantina erano i chilometri che li separavano dalla loro auto parcheggiata a Belluno. In mezzo c’era una montagna, che l’uomo aveva saputo rendere cattiva. Partendo alle otto del mattino, Riccardo contava di essere in due ore allo scollinamento di Erto e del Vajont e in altre due ore, forse meno, a Belluno. In realtà sarebbe occorso molto più tempo. Circostanze, che solo fino a un certo punto potevano essere ritenute impreviste, lo imposero. Riccardo sentiva che quella sarebbe stata una giornata, se non decisiva, importante per il suo progetto. Nella sua idea non c’era altro che far divertire Sonia con un’esperienza che le potesse piacere, nella speranza di arrivare a un riavvicinamento. Non aveva assolutamente mai aspirato ad altro, quando a casa progettava tappe, consultava carte e siti internet, per farsi venire delle idee. Perciò lui per primo si sentiva come frastornato, quando pensava alla direzione che gli eventi avevano preso dalla fine del secondo giorno di viaggio. Si sentiva come in una discesa senza freni, incapace di imprimere alla corsa una svolta, un freno, una sosta. Non solo non si sentiva in grado di controllare quegli eventi, ma l’idea di imprimere ad essi una direzione diversa era il motivo di quella paura, che aveva iniziato ad avvertire sin dalla partenza da Pieve di Cadore. Partirono con ritmo assai blando, silenziosi entrambi. La novità di quella giornata fu la solitudine in cui viaggiarono: pochissime auto, traffico quasi inesistente, come se il paesaggio e la natura avessero deciso di destinare quel percorso solo a loro due. Era il contesto adatto al chiarimento, alla formulazione della domanda e alla forza di trovare una risposta. Quella domanda era nell’anima da sempre, da quando era nata l’idea. Quella domanda aveva attraversato le loro anime, ogniqualvolta decisero di affrontare il tema del viaggio, per trattare di alcuni dettagli, per discutere altimetrie e planimetrie, ma senza mai andare all’origine, alla motivazione vera che aveva fatto nascere tale idea. Era la paura che aleggiava sopra quella domanda a imporre le reticenze e le conseguenti complicità, che si manifestarono nell’emozionarsi alle note del canto russo, nel ritorno all’albergo di Seeboden, nel dono delle rose lì ottenuto, nel viaggio che quelle due rose avevano fatto insieme a loro, appassendosi proprio quando, con la notte di Pontebba, i fulmini illuminarono di nuovo paesaggi che erano stati cancellati, tenuti lontani, forse erroneamente cancellati e tenuti lontani sia dai sensi, sia dai sogni. Non si poteva procedere senza avere chiara la condivisione di un traguardo. La salita alla diga del Vajont fu lenta e faticosa, non tanto per le pendenze, quanto per il nervosismo di un tracciato in brevi e ripidi strappi si succedevano a tratti in falsopiano. Quei brevi e ripidi strappi che non sarebbero stati un problema senza le borse, non sarebbero stati un problema se affrontati all’inizio e non alla fine dopo otto giorni sui pedali, non sarebbero stati un problema senza la paura che aleggiava nell’aria tutt’intorno a loro due. Persino l’affiancarsi di Riccardo a Sonia e il suo sorriderle silenzioso, per incoraggiarla e al contempo controllarne l’affaticamento, faceva distintamente avvertire quella paura. Non si può andare avanti così, pensava Riccardo. Ma non si può nemmeno bloccare tutto prima della salita. Sonia vuole dimostrare di essere un leone fino alla fine. Lasciamola fare. Siamo quasi alla fine. È giusto che le sia concesso. Il dono è per lei. Riccardo la seguiva. Lui si era coperto con manicotti e gambali, perché quel giorno nelle prime ore della giornata la temperatura era bassa, più di quanto non fosse successo le altre mattine. Ma Sonia no: lei era in calzoncini e mezze maniche, come sempre, come sotto l’acqua a San Candido, quando lui si coprì sotto il primo acquazzone, ma lei no: sangue russo infondeva fuoco a quegli occhi. La seguiva con tanta preoccupazione. Non esisteva un paesaggio intorno a loro. Quel paesaggio era meraviglioso, ma non entrava nell’anima, non si percepiva con i sensi. Quel paesaggio appariva adesso, per la prima volta, una quinta inerte, quasi inappropriata, troppo bella per essere protagonista della loro vicenda. Tante furono le soste: per rinfrescare le borracce, per bere, per riposare. Lento, molto lento fu l’attacco di quell’ultima tappa. Dopo il paese di Erto e dopo la diga, all’inizio della discesa dovettero fermarsi. Il vento forte, che saliva però caldo dalla sottostante ampia vallata del Piave, imponeva comunque di coprirsi. Erano sudati. Andava fatto. Estrassero l’antivento dalla tasca laterale delle borse e l’indossarono entrambi. Ma, al momento della partenza, Sonia ebbe come un accenno a parlare. Non uscirono parole. Riccardo le si avvicinò, le accarezzò il viso e la baciò, mentre il vento portava i capelli sciolti di lei ovunque, anche intorno a lui. Non ci furono le attese parole da parte di Sonia. Riccardo la guardò fisso in quegli occhi che erano sempre di più fonte di malia. Non ci furono parole per lunghi interminabili minuti.

“È tutto andato ben oltre il previsto. Non credi?” chiese lui all’improvviso, trovando la forza per rompere il silenzio sempre più intriso di complicità. Quella consapevolezza, che, come in una partita di tennis, era stata oggetto di un lungo palleggio, ora richiedeva di forzare i colpi o di provare l’attacco a rete.

“Non si può rispondere, se non si sa che cosa era il previsto.” Era lo stile di Sonia. Ribaltare le domande per non dare le risposte. Ma era lei che doveva fare la domanda, non lui. Riccardo non ribatté. Non forzò la situazione. Le accarezzo con due dita le labbra. Gli occhi neri sorrisero. E tornò alla sua bici. E Sonia alla sua. Si prepararono alla discesa. Avevano perso tanto tempo. Dovevano arrivare a Belluno e poi caricare le bici, per ritornare immediatamente a casa. Ma la domanda era sempre lì, sospesa in quel vento che curva dopo curva, scendendo su Longarone, progressivamente scemava.

Da quel momento in poi la discesa a fondovalle e il rientro a Belluno furono una fuga, non un arrivo, non la conclusione di un viaggio. Era la fuga da quella responsabilità: incuteva ormai una paura che era arrivata ben al di sopra delle loro possibilità. Nello sguardo reciproco, che spesso e fuggevolmente si era incrociato tra di loro, il messaggio non detto era quello: “Non ce la faccio. Non riesco a chiedere.” – “Non ce la faccio proprio a rispondere.” Riccardo al termine della discesa si era messo davanti e aveva detto: “Stammi in scia! Facciamo prima.” Aveva trovato nelle gambe una forza insperata per quella che sarebbe stata la volata finale e il ritorno all’auto: una fuga.

Non ci fu più il tempo per formulare quella domanda. Le occasioni perdute non era più possibile riproporle. Riccardo attese. Nel silenzio generale, mentre i pochi presenti assistevano all’atto finale, estrasse un foglio. Il sacerdote comprese e gli lasciò la parola. Riccardo non si avvicinò alla fossa in cui la cassa era già calata. Si voltò dalla parte opposta. Alzò lo sguardo in alto e disse a voce bassa: “Era scritto a chiare lettere. Tu sapevi. Io sapevo. Nessuno di noi due osò. Ti avresti voluto chiedere perché facciamo questo viaggio. Ma hai avuto paura. Io avevo ancora più paura di te, nel caso tu mi avessi rivolto la domanda. Abbiamo viaggiato nella gioia e nella paura, nell’amore e nel dolore. Ma ora la paura non c’è più; c’è solo la gioia; il dolore non c’è più, resta solo l’amore. Per questo posso rispondere finalmente: volevo solo fare il dono che non ero mai riuscito a fare. ‘Occhi neri, occhi fiammanti, mi attirano verso terre lontane, dove regna l’amore, dove regna la pace.’ Non potevo dire che era l’ultimo dono e non era giusto che te lo dicessi. Lo avevi già capito.” Così finì la fuga. Come era giusto che finisse: con una grande volata. E vinse Sonia. Aveva sempre vinto lei. Era lei la più forte.

© 2018. Stefano Tramonti

Il tempo della poiana

Ho portato al traguardo con lui viaggi anche di una settimana, non solo in due, ma anche in piccoli gruppi, dalle quattro alle sei persone. Viaggiare sui pedali con lui non era solo un modo per noi, i pochi suoi amici, di riempire il suo mondo, che noi, erroneamente e troppo superficialmente, ritenevamo dominato dalla solitudine, e di ridare energia alla sua vita, che per noi era un’esistenza malinconica, indelebilmente segnata da una perdita. Andare con lui era, e qui parlo per me, un arricchimento, soprattutto nel momento in cui, dopo il viaggio andavamo a trovarlo, non nella sua casa piena di libri, ma, come alcuni di noi spesso dicevano, nella sua biblioteca che gli serviva, al bisogno, anche da casa. Ci offriva un caffè, sempre molto forte, e ci costringeva così a ripercorrere, a modo suo, un viaggio di più giorni o anche solo un’uscita di mezza giornata nel nostro paesaggio di terre basse, quello che chiamò in un suo racconto ‘lo specchio delle meraviglie depresse’. Erano momenti in cui non si riusciva a parlare. Parlava lui. Narrava. L’atto dell’ascoltare era come leggere un libro. E allora si capiva che quei viaggi non riempivano nessuna solitudine e non combattevano alcuna malinconia. Alcuni amici comuni lo paragonavano a una specie di Andrea Sperelli. E la cosa mi faceva sorridere. Uno di loro mi disse che si sentiva al suo cospetto come la Sfinge con Edipo, quella del quadro di Moreau. E lì sorrisi meno, perché non era andato lontano dall’impressione che ricevevo da quelle visite. Ma non era quella la chiave di lettura. No. Non c’era spleen, non c’era sterile abbattimento decadente in quelle parole, non c’era compiacimento nella bellezza puramente simbolica della parola in sé, non c’era affatto la convinzione di vivere quella casa come un nido di sogni; quando andavo a trovarlo, l’impressione, con la quale uscivo da quella casa, era proprio quella di aver ripercorso con l’anima e con leggerezza un’esperienza che prima avevo vissuto con il corpo e con fatica. Capivo il senso di quella fatica. Davo un significato al profondo e antico concetto di sacrificio. Mi rendevo conto che la natura, in cui il corpo aveva faticato spingendo sui pedali tra fango e sabbia, diventava un tempio in cui l’anima si risollevava tra icone e simboli, che trascendevano quel fango e quella sabbia. Alla fine tutto tornava a lei, che diventava lo specchio di un viaggio che lui non aveva mai compiuto, il viaggio progettato e mai veramente partito, l’idea nata e deceduta nel sogno. Lei era ovunque in quella casa: visibile nelle foto e nei quadri che lui ogni tanto realizzava, viva nel respiro che ovunque si avvertiva. Ma lei era soprattutto in me dopo i suoi racconti su quelle due poltrone, in mezzo alle quali era una piantana con doppia luce, una da lettura rivolta in basso e una da ambiente rivolta in alto. Lui ti invitava a sederti su una delle due, si sedeva sull’altra e, contrariamente a quanto sarebbe stato logico, non accendeva mai quella delle due luci che illuminasse la stanza, ma quella che, puntando in basso, illuminava lui, come se avesse in mano un libro, che non aveva, perché in quel momento era lui il libro. E allora lei era viva, assumendo ogni volta una forma diversa, attinta da quel paesaggio che per lui era un tempio, dove tutto aveva il suo posto assegnato, in compiuta armonia con il grande ordine naturale, cosmico. Quel giorno avvenne però qualcosa di speciale in questa metamorfosi che nelle sue parole lei finiva sempre per vivere. E non uscii soltanto arricchito da quella stanza piena di libri, ma per la prima volta ripresi la via di casa con un’intensa commozione, che mi avrebbe pervaso e trattenuto a lungo.

Le zanzare mi assalivano e mi torturavano, appena mi fermavo. Pedalare in pineta è metafora del vivere: se ti fermi, forze oscure ti assediano. E non ti mollano più. Andavo avanti, senza pensare. Anche pensare significa tornare indietro e tornare nel dolore, nella misura in cui non esiste un futuro, ma solo un passato in quei pensieri. Un passato. Ma quale passato? È impegnativo rispondere. So bene di che passato si tratta, ma si tratta di un tempo segreto, di una serie di esperienze assolutamente individuali e particolari, che, come tutti i dolori dell’anima, arreca tristezza e quella dolce malinconia, in cui può essere anche gradevole cullarsi. Andavo avanti, dunque, senza pensare. O almeno, impegnato in un esercizio di autopersuasione di non pensare. Infatti, non era così che stavano le cose. Pensavo. E pedalavo. Al manubrio era segnata una velocità di 27 km/h: volavo, non pedalavo. Volavo in un paesaggio che aveva quei colori e quei tratti che qualcuno forse direbbe di fiaba. Probabilmente è così. Ma non per me. Volavo in un paesaggio in cui altri esseri, non umani, partecipavano di una ciclicità naturale, che le ruote della bici beffardamente e ignobilmente tentavano di richiamare. Anche in modo puerile. Andavo avanti, convinto di non pensare, ostaggio di quel paesaggio di pinete e valli, che da noi, dove le uniche salite sono gli argini dei fiumi e i cavalcavia, sono le paludi. Mi hanno aggredito in tanti, i benpensanti del turisticamente corretto, quando, in alcuni miei scritti, definii quel paesaggio ‘le depresse bassitudini padane dei ravennicoli’, oppure più semplicemente ‘lo specchio delle meraviglie depresse’. Non riuscirò mai a capire perché, a parole, si combatta tanto l’ipocrisia, ma poi, nei fatti e con i comportamenti della vita quotidiana, se uno dice quel che pensa, lo si deve mettere alla gogna. Coda di paglia? Tacita ammissione che quella è una scomoda verità da trattare come la polvere con il tappeto? Pedalavo, volavo sui sentieri scavalcati da radici e pruni, preso ora da questo lacerto di memoria. Un altro tassello di quel passato. Vorrei avere una redazza in mano e lavare via tutto da questo ponte immondo di ipocrisia. Eppure, come un fastidioso tinnito, i pensieri risalgono, rosicano, attraggono attenzione e impediscono di guardare un futuro che ormai è solo vacua utopia, una chimera dalle ‘primavere spente’ e dai ‘mitici pallori’, come ricorda il poeta a metà strada tra Romagna e Toscana, così caro a me, che in quella condizione sono nato e da sempre vivo. Le bassitudini non sono brutte. Le bassitudini sono depresse, perché basse; cosa c’è di così strano? Ciò che è basso è umile e depresso. È nell’ordine naturale delle cose. Gli abitanti di questa città derivano da quelli che anticamente abitavano in un centro costituito di canali e di ponti, che collegavano isolotti tra le valli, cioè le paludi; abitavano in palafitte, come palafitticoli. Cosa c’è di male nel richiamare la verità storica di un paesaggio la cui ricchezza erano enormi pantegane e sonori, alacri, vivaci ranocchi? Ma giochiamo con le parole e vediamo il male solo dove vogliamo vederlo, anche se non c’è nell’intenzione di chi quelle parole ha usato. E così, per non aver usato il turisticamente corretto nella città che è parte del divertimentificio nazionalpopolare e che per questo rinuncia alla sua storia, fui minacciato di essere cacciato da un gruppo molto, troppo politicamente corretto. Non ci ho pensato due volte: me ne sono andato per primo io stesso. Avanti, procedevo sempre più spedito con il vento del passato in poppa che spingeva fuori del bosco, nel giallo maestoso dei campi di colza in fiore, dove lei mi attendeva, con la solita fiducia, il valore della chiaroveggenza, che i nostri antenati etruschi e italici, poi romani, le riconobbero, latrice di messaggi dal mondo sotterraneo, tramite spirituale che va oltre gli eventi terreni, oltre la creatività, oltre la saggezza e anche oltre il coraggio, oltre l’indomita fierezza, nel fuoco, elemento a lei congeniale. A lei le mie radici diedero un grande significato e chi non conosce quelle radici non sa cosa si perde nel contatto diretto che solo questo paesaggio di depresse bassitudini consente. Si alzava dall’acqua della valle, a destra, con voli radenti nella sua grande apertura alare e il suo manto nerastro dominava, a sinistra, possente dall’alto il giallo dei fiori di colza. Tracciava figure nel cielo che l’aruspice avrebbe letto e interpretato, figure circolari, alla ricerca della preda. A lei le mie consapevoli radici diedero nello sguardo attento una forza che impresse sicurezza al suo volo. E la grande poiana scese, e sparì tra gli steli fioriti. Provai a scendere nella storia, in quelle radici; provai a interpretare quel segno di sicumera, ma mi fermai, nel sole che devastava la vista fuori dell’oscura pineta. Provai a sentirmi lassù, a leggere quelle tracce, a istituire connessioni con eventi, a volare emozionato nel sogno, condividendo la sua libertà e la sua fierezza. Ma non fu possibile. Il passato passa solo quando vuole, solo se vuole; se non vuole, non passa; e se non passa, pesa come un macigno che impedisce di presagire, di sognare, di emozionarsi. Il viaggio doveva continuare come immemore di una meta, nel sole che brucia, che inaridisce, che uccide dissetando lentamente ogni forma di vita, fuori da quell’oscurità, che prima, nella selva di pini e farnie, dava sicurezza. Ora non più. Nel sole senza confini non c’è più alcuna sicurezza; c’è solo paura. Il viaggio procedeva così, inevitabilmente insicuro, alla ricerca disperata di quella fiera certezza, che avevo per un attimo immaginato lassù, tra due grandi ali distese nell’azzurro.”

Accanto a lui condividevo in silenzio, partecipando commosso al racconto. Era proprio come se leggesse seduto sulla poltrona. Ascoltavo seduto su un’altra poltrona. Tra di noi la piantana con la luce da lettura accesa su di lui. Narrava come leggendo, con tono rilassato, sintomo di profonda consapevolezza. Il viaggio procedeva nella solitudine di uno spazio divenuto ostile, sguaiato. La commozione dell’anima mi riportava alla valle incantata di Musil, ai paesaggi del Fèrsina, al contatto evanescente con Grigia, all’estinzione del protagonista che vede terminare il suo viaggio terreno, ma resuscita nel paesaggio dell’anima, incantata come la valle. “Grigia era anche la poiana”, furono le parole con cui ebbi la dimostrazione di quanto le nostre menti ormai fossero sulla medesima lunghezza d’onda. Egli, infatti, nel suo narrare si sentiva imprigionato nel terreno e temeva che quello stesso suolo potesse da un momento all’altro aprirsi in una voragine, da cui i mani lo catturassero e lo riportassero nel loro mondo di memoria, nei loro fasti di dolore. Era costretto ad andare avanti, perché la meta, lo sapeva, era oltre quei campi, oltre quelle valli bruciate dal sole, là dove lei, la saggezza che prevede e quindi provvede, aveva indicato il cammino. Proseguì con l’intendimento di ritrovarla, di rivederla, di riassaporare per un attimo il sentimento fugace di una libertà mai pienamente goduta da un’anima invischiata nei legacci e nelle reti della memoria. Avanti. Avanti nel sole che brucia la vita, avanti nella luce che offende i precordi, avanti nella piana tra acque salmastre e terre argillose che tolgono sicurezza e fiaccano ogni certezza. Ma avanti comunque. C’è uno stimolo. C’è uno spiraglio.

Il viaggio nello spazio, sempre più confuso con il tempo, lo riportò a lei, che ora prese le forme di una divinità orientale, concreta, reale, corporea, che si manifestò come tra le nebbie del Wandererdi Friedrich, in una natura primigenia, selvaggia, ma non tanto da non permettere l’accesso a chi ha sete di conoscerla e amarla, con l’imperativo della stessa passione interiore del Wilhelm Meister, ma anche con la malinconia seduttrice dei liederdel Winterreise. Quella natura era adesso infida. L’esperienza che di essa stava vivendo era dolore e sacrificio, un prezzo necessario da pagare. Ascoltavo e mi lasciavo coinvolgere, mentre il mio sguardo vagava libero tra gli scaffali della sua libreria che tappezzavano tutta la stanza, e non solo quella. Lì nasceva quello spirito indagatore che combatteva contro la schiavitù della memoria, ma lì nasceva anche la parte libera di quello spirito, che da quelle letture cercava anche di prendere le distanze alla ricerca dello stimolo, di quellostimolo e di quellospiraglio, che aveva appena intravisto.

Seguivo la sua narrazione, svanito tra evocazioni di illusioni romantiche e di delusioni decadenti. Il corpo, che evocava lacerti di una memoria mai sufficientemente sbranata dalle aggressioni della ragione, iniziava ad avere le prime avvisaglie di fatica; ma l’anima gli dava il carburante necessario per procedere, colpo di pedale dopo colpo di pedale, sul terreno instabile per la sabbia che si confonde con la terra, per l’acqua che si confonde con i coltivi. C’era qualcosa che lo aveva riportato alle radici da ricercare, a una visione da ritrovare. Aveva spesso pensato che la storia fosse come una marionetta nelle mani di due persone, Tempo e Spazio. Lui ora viaggiava nello spazio vincendo la forza del tempo e contemporaneamente viaggiava nel tempo combattendo con le asperità dello spazio. Senza quelle due forze non si procedeva. Era il senso della storia: un viaggio senza un fine. Ma qualcuno c’è che lo conosce. E qualcuno c’è che lo può interpretare. Da tempo era convinto che la spiegazione non fosse da ritrovare più nei libri, nei saggi, nelle ricerche erudite; la risposta andava cercata lì; per quello compiva quei viaggi, complemento necessario delle sue letture: per avere delle risposte dal rapporto diretto tra tempo e spazio. E quali ambienti più di quelli potevano dare quelle risposte? Lì si procedeva sul discrimine tra tenebra e luce, tra terra e acqua, che si trattenevano a vicenda. Lì c’era una forza che poteva interpretare la memoria e dare un senso alla domanda sulle radici. Il dolore del viaggio era il prezzo da pagare.

Una grande poiana ne sarà il premio: la chiaroveggenza, il disvelarsi del fine, il perché di un supremo giudizio. Così vollero i nostri antenati. E così sarà, se sapremo di nuovo interpellarla, se vorremo interpretarla, se avremo la capacità di capirla, l’umiltà di amarla. Solo allora l’anima spiccherà con lei il volo della libertà. E solo allora l’ipocrisia di chi non accetta la verità e preferisce celarsi dietro vacue identità mediatiche sarà stanata. La libertà è lassù, va compresa in quei disegni perfetti, in quei cerchi tracciati nello spazio azzurro come con un compasso, grazie alla forza del tempo che riporta sempre alle radici e al sapere antico di chi seppe a quel volo dare un significato. Lo voglio anch’io. Avanti, che il viaggio non finisca di essere domanda e ricerca, che sappia vincere dubbi e ostacoli, che sappia coniugare pineta opaca e valle aprica, che sappia amare le sapienti ali, distese nell’azzurro, di una maestosa poiana.

Abbassò gli occhi su una foto di lei, sui suoi lunghi capelli neri, che raccolti in una coda di cavallo, facevano risplendere un viso nel quale, in contrasto con gli occhi neri e la carnagione scura, la potenza del sorriso trionfava come la luce della luna in quelle tenebre che gli davano fiducia sulla sella della bici. Quel sorriso aveva la forza di una clematide in fiore tra gli arbusti della pineta. Lo vidi piangere, per la prima volta. Era quella la sua vittoria. Aveva vinto. Aveva visto la sua grande poiana. E con la sua narrazione l’aveva rifatta finalmente sua. Ci alzammo. Mi accompagnò alla porta tenendo in mano un album di foto, come si faceva un tempo; in mezzo alle pagine, piene di foto di lei, c’erano dei fogli, stampe di altre foto; mi diede una di quelle stampe. Era lei, la grande poiana, che aveva fissato in uno scatto, nell’attimo del volo. Da quel giorno le nostre uscite in bici ebbero un significato diverso. Imparai a guardare avanti e soprattutto imparai che per farlo, bisogna inevitabilmente compiere anche dei passi indietro, con spirito di sacrificio, se necessario, alla ricerca di radici che vivono ancora in noi e che aspettano solo un interprete sagace, come lui mi dimostrò quel giorno di essere. Il giorno dopo ritornammo in quella pineta, in quelle valli con spirito rinnovato. Non avevo mai desiderato così tanto vedere il volo di una poiana, là dove terra e acqua si confondono nello spazio, come passato e futuro si confondono nel tempo. Ebbi per un attimo l’impressione che quelli che per lui erano viaggi dell’anima non sono esperienze difficili, né tanto meno così impegnative, come certa letteratura ha preteso di farci intendere. Sono aerei voli, voli liberi, liberi perché consapevoli delle radici da cui partono.

La vedemmo. Ci fu il premio. Era nello stesso punto. Aspettava lui. Disegnò un cerchio perfetto sopra di noi. Piansi. Con la commozione del corpo una nuova ineffabile consapevolezza scese in me, nell’anima, da lassù. Mi mise la vigorosa mano sulla spalla. Sorrise. Non disse una parola. Le radici non erano più un segreto. Ero parte di quella comunicazione, perché con la mia commossa debolezza avevo finalmente condiviso il dono della forza più grande e ineffabile che esista.

E nulla fu più come prima.

Giardino delle Rose

Si dice spesso che gli incontri costruiscono la vita, che lo stare insieme aiuta a crescere, che la convivenza aiuta a comprendersi. Lavorando da anni nel mondo dei libri e, pur tuttavia, non avendo mai voluto lasciare il mio paese di montagna, ho sperimentato che questo può essere vero e che, se non ci fosse lo spirito di solidarietà proprio in modo particolare di queste terre, le genti di montagna non sarebbero sopravvissute a tante di quelle soluzioni di continuità, talvolta anche drammatiche, che costringono a porsi inevitabili domande sul tempo. Su questo tema dell’incontro e della socialità come base della civiltà e del progresso dell’uomo si potrebbe dire praticamente tutto e il contrario di tutto. La storia che segue non pretende certamente di far crollare dei miti, né tanto meno di scandalizzare convenzioni più o meno borghesi consolidatesi nella tradizione, se qualcuno crede nella forza assoluta dell’incontro tra persone, dello stare insieme e del convivere; eppure, vorrebbe invitare a riflettere su quanto successo a due persone che nel mio paese ho visto nascere, crescere, avere successo, amarsi, unirsi, costruire e fare tanto insieme proprio per la nostra comunità, per poi invece capire che proprio da un naufragio, da un fallimento di quello stare insieme e da un’esperienza di solitudine conseguente a tale fallimento si riesce a partecipare del valore profondo di quanto appena sostenuto. Di uno di loro due sono stato compagno di studi all’università e sono oggi veramente amico, soprattutto dopo aver capito qualcosa di lui. Quindi, evitiamo di sbrodolarci addosso filosofie spicciole e impariamo ad amare la vita nelle persone che con la loro esperienza possono insegnarci qualcosa, perché quello che hanno vissuto non è stato qualcosa di teorico dettato dall’adesione a una serie di convenzioni e di stili di vita, ma è stato qualcosa di assolutamente unico, individuale, forse per me, come per tanti altri qui in paese, anche ineffabile nel suo significato più intimo. Perché? Nessuno avrà forse mai la risposta. Ma fare un tentativo è lecito. La mia risposta è questa: la storia di queste due persone non è stata la storia di una donna e di un uomo che possiamo vedere per strada, con cui parliamo incontrandoli nei locali, di cui ascoltiamo le parole e di cui vediamo le opere; è la storia, assolutamente per me irripetibile, di due anime che hanno compiuto un viaggio nello spirito impossibile da definire con gli strumenti che possediamo. Ma siccome il tentativo merita di essere esperito e siccome questa vicenda umana ha avuto conseguenze rilevanti per la storia della nostra piccola comunità, ho provato a capirci qualcosa. E, permettetemi, ho almeno il fondato sospetto, avendo letto tutto quello che uno dei due protagonisti della storia ha scritto sia in rete sul suo blog, sia nei suoi racconti, di non essere andato tanto lontano dal vero.

La strada iniziava a imbiancarsi. Quella neve che prima non attaccava ora colorava di un bianco uniforme quanto prima era verde, marrone, grigio. Adesso tutto era in accordo e procedeva sicuro, avanti, verso quell’orizzonte speciale. Non si poteva mancare all’appuntamento. Era come se da tre anni la sua anima aspettasse quella chiamata, che lui invece si era imposto di non ascoltare. “Ciao, come stai? Domani mattina ore 8,30. Alla biglietteria della pista dell’Antico Mulino. Come sempre. Con gli sci già pronti.” Da tre anni la aspettava, gli riportò nell’anima una voce che parlava da lontano. Eppure lui aveva deciso di vivere proprio lontano da dove veniva quella voce. Aveva scelto una lontananza nello spirito e nel tempo, più che nello spazio. Si era portato con il corpo in un paesaggio che non rispondesse a nessuna delle caratteristiche di quello da cui, forse, quella voce aveva parlato. Si era alienato da tutto ciò che lo aveva fatto crescere uomo e che gli aveva anche dato tante, ma davvero tante soddisfazioni. Sapeva che andare a cercare quella voce, rispondere a quel messaggio, poteva significare riannodare i fili con un passato che lui aveva voluto recidere. Quella voce veniva da un’altra anima che un giorno lo aveva messo di fronte alle sue responsabilità, gravi responsabilità, che lo aveva voluto memore e reo confesso dei suoi errori: errori non qualunque, errori da cui sarebbe stato irrimediabilmente compromesso un progetto nato lontano e un futuro che in quel progetto si auspicava ricco di altre, nuove soddisfazioni. Quella voce ora richiamava una colpa che lo aveva straziato in quei tre anni in cui aveva maturato una dolorosa consapevolezza di quegli errori.

Scriveva. Aveva aperto un suo blog in cui confluivano le bozze di quegli scritti che poi pubblicava sotto forma di racconti o articoli. E in quei racconti o articoli confluivano esperienze di varia natura, che la sua anima rielaborava a modo suo, inserendo parole e riferimenti, che lui, docile a quella guida, lasciava andare nelle pagine dei suoi testi. Quell’anima comunicava con un’altra a distanza. Lui lo sapeva, forse, ma non voleva indagare. Non voleva infrangere sul piano della relazione spirituale un delicato rapporto che su quello della relazione reale era stato interrotto e troncato da un taglio netto. Camminava sulle uova da tre anni senza saperlo, lasciandosi guidare nelle ore libere, quelle in cui scriveva, da una mano sagace, fiducioso in essa, anche se non voleva sapere nulla di lei. Combatteva la colpa con quell’attività, rispondeva al passato che ritornava la sera quando rincasava, si difendeva da attacchi che lo colpivano nella solitudine autoimposta, in cui aveva deciso di vivere la sua alienità a quanto per una vita intera gli era stato più caro.

Il messaggio era arrivato la sera prima verso le 21. “Ci sarò, ma per le 9. Prima non riesco. Sto bene. E tu?” “Bene anch’io. Grazie. A domani.” Poi solo attesa. Aveva subito preparato gli sci, i bastoni e le scarpe e aveva caricato tutto in auto, in modo da poter partire subito l’indomani. Lei sapeva ovviamente che non abitava più in paese. Non sapeva forse dove era andato ad abitare. Non sapeva che aveva ore di auto da fare per arrivare puntuale a quell’appuntamento. L’ultima volta ebbe solo 5 km da percorrere in meno di quindici minuti per arrivarci. Ora ne aveva 250 di chilometri da fare e almeno tre ore e mezzo di viaggio, se non capitavano inconvenienti, intoppi di qualsiasi genere di quelli che possono occorrere in un viaggio in auto. Per essere sicuro aveva puntato la sveglia alle 4 e alle 4,15 era già in auto, con la tuta addosso. Non gli piaceva passare troppe ore in auto da solo. Temeva che sarebbero state state tre ore e mezzo di immersione nel passato, nei ricordi di ciò che quella pista dell’Antico Mulino e quell’appuntamento avevano significato per anni. Ma le immagini del passato si fondevano con le incertezze sul perché di quell’appuntamento, giunto così inopinato, a distanza di così tanto tempo. Lassù, proprio dopo un allenamento sulla pista dell’Antico Mulino, avevano sciato insieme per l’ultima volta. Si erano tolti gli sci, avevano bevuto velocemente qualcosa al bar, Aurora aveva rifiutato di farsi accompagnare a casa, come solitamente avveniva, preferendo scendere in paese con il piccolo autobus navetta, e si erano lasciati con un freddo saluto di circostanza, che sarebbe presto diventato un addio. Riccardo, che era stato eletto da poco presidente della società sportiva, avrebbe avuto quella sera una riunione in comune, la cui importanza, paradossalmente, era più lucida e chiara per lei che per lui. C’era qualcosa di superiore che avrebbe dovuto guidare il cammino degli eventi; e invece li fece arrestare. Aurora, che aveva fatto all’insaputa di lui il test di gravidanza, aveva avuto la conferma del medico proprio quel giorno dell’ultima uscita insieme con gli sci sulla pista dell’Antico Mulino, voluta, disegnata, tracciata da lui, che poi l’avrebbe tenuta in manutenzione con lo stesso amore che si dà a un figlio: una perfetta pista da sci di fondo in inverno, un perfetto tracciato per mountain bike in estate. Poi, l’indomani, un messaggio freddo che annullava l’allenamento insieme. Quindi l’appuntamento decisivo: e in quello la decisione dell’addio da parte di lei e, insieme a quella, la comunicazione di essere incinta. Tutto laconico, freddo. Tutto fatto per non essere discusso. Poi più nulla. Tre anni di silenzio vissuti nella distanza geografica, patiti in quella dello spirito. Con un bambino di cui lui era padre e di cui non avrebbe mai più saputo nulla, mai visto una foto, mai sentito una voce. La colpa diventava una tortura quando il pensiero finiva lì e sbatteva contro quel muro che Aurora aveva deciso di innalzare per punirlo, per fargli capire la sua inadeguatezza alla responsabilità in cui lei fino ad allora era stata fiduciosa. La tortura era diventata negli ultimi tempi un logorio costante e dalla tastiera del computer finivano ormai sul blog solo parole di dolore. L’ultima raccolta di racconti che aveva pubblicato ottenne un discreto successo, tanto che da ex compagno di studi all’università e da persona che lavora nei libri, mi ero offerto per presentargli il libro a Milano; ebbene in quella occasione ebbi il coraggio di dire che quel successo c’era stato “perché oggi il tema del dolore nella narrativa premia tantissimo”. Se era vera quella riflessione, allora quell’ultima raccolta avrebbe dato al tema del dolore un indubbio contributo.

Tutto questo fino a quando sul suo blog non erano apparsi dei nuovi “mi piace” da parte di un altro blogger che aveva nome “GiardinodelleRose”. Non fu difficile per lui arrivare all’identità del proprietario, sfogliando le pagine di quel blog, che nel nome italiano traduceva il Rosengarten, ossia il nome che in tedesco ha il gruppo dolomitico del Catinaccio. Su quelle piste si erano conosciuti come atleti prima, poi come colleghi, lui maestro per i gruppi collettivi dei piccoli principianti, lei di quelli dei ragazzi più grandicelli. Il fondo non era molto richiesto in quei paesi; era praticato e amato dai locali, anche da persone delle vicine città; la loro scuola sci aveva solo loro due come maestri di fondo. I turisti amavano tradizionalmente poco quella faticosa disciplina, che richiedeva regolare allenamento sul posto. Oltretutto, di neve ne veniva sempre meno e sempre più in alto; e di anelli di fondo in quota ce n’erano pochi, costosi da gestire, con un’utenza soprattutto locale e poco amati dal turismo che porta ricchezza e che da sempre preferisce la discesa; a dire il vero, come lui ricordava ad alcuni suoi allievi, il turismo di massa ha preferito la discesa da quando lo sciatore non è più dovuto risalire a piedi con gli sci. Insomma, il lavoro calò. Mantenere una vita solo con lo sport diventava difficile. Rimasto solo, senza più legami affettivi nel paese, prese la non sofferta decisione di trasferirsi. Accettò un’offerta di lavoro, trovata per caso in internet, come autista di pullman turistici da parte di una ditta lontana e lasciò il paese. Anche per dimenticare. Anche per non avere quotidianamente sotto gli occhi tutto ciò che poteva ormai solo fare del male. “GiardinodelleRose” era lei. Era lei, Aurora, che aveva trovato il suo blog, che lo seguiva quotidianamente, sottolineando il proprio gradimento verso quegli interventi che pubblicava: brevi racconti soprattutto, ma non solo: anche recensioni di eventi e pubblicazioni. Ma com’era possibile? Perché? Le domande si accavallavano le une sulle altre, mentre leggeva e mentre scriveva. Come poteva rivelarsi all’improvviso fragile un amore giudicato sempre robusto? Come si poteva pensare di troncare dall’oggi al domani un amore mai messo in discussione, perché sempre alimentato dal carburante di una passione comune, da obiettivi comuni, ma soprattutto da un cammino comune che li aveva portati fino a quel punto? O forse anche “GiardinodelleRose” viveva la sua colpa? O forse quel bambino con cui sicuramente viveva aveva un bel giorno messo anche lei di fronte alle sue responsabilità? Quelle domande davano vita a parole, che insieme formavano frasi, che insieme davano vita a testi; e quei testi non erano fatti per essere unicamente una sorta di esame di coscienza individuale, come si dichiara in quel De ira di Seneca, che aveva portato all’esame di Latino all’università; eppure in quel testo aveva trovato un riferimento su cui aveva recentemente costruito un articolo: “impara a non metterti più in gara con gli incompetenti, che non desiderano imparare, perché loro non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con troppa franchezza; dunque, non lo hai corretto, ma lo hai offeso; d’ora in poi, non considerare soltanto se è vero quello che tu dici, ma anche se la persona alla quale tu parli è in grado di accettare la verità”. Dalla riflessione su quel brano era nato un breve articolo. E quello di “GiardinodelleRose” fu il primo “mi piace”, quasi immediato, pochi minuti dopo la pubblicazione dell’articolo sul blog. C’era qualcosa di speciale in quel rapporto tutto mediatico che era nato in rete.

Mentre procedeva tra strade ghiacciate più o meno avvolte nell’alba rigida e nebbiosa delle basse padane, mentre attraversava tratti di campagna che conservavano anche tracce di recenti spruzzate di neve, mentre si avvicinava sempre di più a quel paesaggio bianco che aveva segnato in modo indimenticabile la più lunga e importante parte della sua vita, “GiardinodelleRose”, che leggeva i suoi articoli e i suoi testi, approvando con un “mi piace” solo quelli dedicati alla montagna, occupava stabilmente la sua mente. Non commentava, ma riusciva a farsi avvertire talmente presente dietro quei testi, che lui aveva l’impressione che lei fosse lì, ogni volta che accendeva il computer o il tablet, per limarne o correggerne o modificarne uno. Una presenza discreta, ma una presenza forte, come un respiro che si sente, ma non si riesce ad attribuire a nessuno. Ora aveva capito chi era “GiardinodelleRose”. Era andato sul suo blog, che era decisamente scarno e povero, tanto da sembrare di essere stato aperto solo per consultarne altri, appunto il suo. Era un blog che si occupava di montagna a 360 gradi: recensioni di pubblicazioni, annunci di eventi, semplici riflessioni a margine di altri eventi, quasi tutto relativo alla sua zona, al suo comprensorio sciistico, alle attrattive turistiche del suo territorio. Insomma, niente di pretenzioso, ampio uso di collegamenti esterni ad altri siti o blog, tante immagini ben selezionate, alcuni video quasi sicuramente girati da segnalazioni altrui. Ma come gestore del servizio aveva scelto lo stesso che utilizzava lui da anni, seppure per ben altre ragioni, perché lui su quel blog pubblicava bozze di testi, che poi risistemava e ogni tanto raccoglieva per farne libri; insomma, un piccolo cantiere letterario, con ben altre finalità, che raccoglieva interventi di appassionati di letture e di narrativa. Due blog così diversi, ma che si controllavano da tempo, che si studiavano a distanza. Gli era venuta ultimamente un po’ di inquietudine, quando, nel tentativo di risalire all’identità di “GiardinodelleRose”, si era accorto che non sarebbe stato così facile: sapeva celarsi bene dietro l’apparente anonimato di uno pseudonimo e di icone accuratamente scelte. Fino a quando egli decise di uscire con testi diversi, più personali, con allusioni più mirate a farla cadere in trappola. Iniziò in alcuni brevi e meno pretenziosi racconti ad alludere a momenti in cui si erano svolti incontri importanti tra di loro in luoghi ben precisi; per ben tre volte, forse inavvedutamente, “GiardinodelleRose”, anche se non subito, aveva pubblicato immagini o video turistici relativi a quei luoghi citati nei suoi racconti. Fu allora che si stanò da sola. Non fu facile; egli dovette insistere a lungo, pubblicarne tanti di brevi racconti; il gioco era diventato nel tempo talmente intrigante che alcuni di quei brevi racconti piacquero più di altri, che lui riteneva più importanti, più affettivamente ed emotivamente densi e coinvolgenti. Uno di essi aveva come luogo proprio la pista dell’Antico Mulino. Era un gioco strano. Forse non era nemmeno un gioco. Se era come pensava lui, si trattava di un tentativo di comunicazione, che andava studiato attentamente a distanza, trattato delicatamente, rispettato con raffinatezza e leggerezza nel lessico. E proprio sul tema della rosa un giorno aveva deciso di lavorare, ma non sul solito tema del fiore metafora dell’amore perché bello ma spinoso. Aveva deciso di lavorare su un altro tema: la rosa va recisa nel momento in cui è più grande e bella, appena perde i primi petali, proprio perché dal suo taglio ne nascano altre più numerose. Voleva essere un riferimento alla loro situazione. Era convinto, così facendo, di stanare definitivamente “GiardinodelleRose”; e invece forse era corso troppo forte e dall’altra parte forse si era inteso che il gioco si stava facendo troppo duro. Non solo non la stanò; non ci fu nemmeno l’atteso e ormai consueto “mi piace”. Una delle rare volte in cui non lo mise. Era ormai per lui indubbio che le anime, nello loro indecifrabili comunicazioni, sanno essere con i loro silenzi più sottili e raffinate di quando si servono delle parole.

Mentre viaggiava, sempre in quel paesaggio in cui il grigio delle nebbie e delle foschie mattutine sembrava voler nascondere il bianco che gli stava sotto, un paesaggio forse ad altri ostico, ma non certo a lui, queste intermittenze del suo tempo, della sua seconda attività di scrittore, della sua passione mai esplosa, sempre rimasta come coartata nei binari morti di una laurea in lettere mai sfruttata, non presa certamente solo per avere il classico pezzo di carta in mano, creavano come dei bagliori. E questi lampi improvvisi animavano quel grigio “dilucolo brumale”, che si stava lentamente aprendo, cercando di intrufolarsi tra i banchi di nebbia, ora più fitti in prossimità dei fiumi, ora meno, man mano che dai quei ponti e da quei fiumi l’auto si allontanava, avvicinandosi ai monti. Li avrebbe forse visti solo all’ultimo momento. Percorrendo chilometri in direzione nord, l’aumentare progressivo della neve ai bordi della strada, oppure nei ciglioni dei campi, o nei fossi, rendeva sempre più familiare e amico quel paesaggio, la cui piatta uniformità aveva incontrato notevoli difficoltà ad amare nei primi tempi dopo il trasferimento. Era un viaggiare quasi a occhi chiusi, tutto pervaso da quanto avveniva nell’anima, tutto dominato dagli andirivieni di una memoria resa inquieta prima da quel gioco a distanza, poi dal messaggio finale, dall’atto di resa, come lui lo aveva chiamato, dopo l’ultimo breve racconto che aveva avuto il “mi piace” da parte di “GiardinodelleRose”. Ma non stavano esattamente così le cose. Se quella comunicazione era avvenuta con delicatezza e rispetto, la ragione era un’altra. A un certo punto la convinzione di essersi reciprocamente contattati doveva aver vinto, ma nessuno voleva uscire allo scoperto, perché entrambi avevano nel proprio passato un freno che impediva di farlo. Una colpa.

Dilucolo brumale. La memoria tira veramente strani scherzi. Era stato criticato da un anonimo commentatore per aver utilizzato in un suo racconto quell’espressione per conferire una particolare connotazione a un’alba vissuta in una baita in quota in una giornata invernale. Ebbene la risposta di lui irritata o, se si preferisce, la sfida, era stata proprio la scrittura di un secondo breve racconto, che aveva l’espressione “Dilucolo brumale” proprio come titolo. Fu l’unica volta in cui “GiardinodelleRose” non si era limitato, o limitata, al “mi piace”, ma aveva aggiunto una faccina sorridente, uscendo un po’ di più allo scoperto. Ebbene, in quel dilucolo brumale ora era pienamente immerso con l’auto, con se stesso, con la memoria, ma soprattutto con un’anima che si poneva tante domande, tutte relative non più al passato remoto, ma a quello prossimo del messaggio arrivato la sera prima. Da dove venivano quelle domande? Perché se le faceva? Quali risposte occorrevano? Perché le risposte non venivano? I ponti e i fiumi si susseguivano scandendo come in piccole tappe quel viaggio che attraversava la pianura da sud a nord. Ma su ognuno di quei ponti avrebbe desiderato fermarsi e interrogare quelle acque che venivano proprio da lassù, da dove era partito il messaggio. Forse in quelle acque si sarebbe come dissolta e placata l’inquietudine che esso aveva determinato. Forse da quelle acque vive avrebbe avuto addirittura un segnale per una possibile risposta. Un giorno lesse un libro: ne era protagonista un personaggio che dialogava con i fiumi, convinto che quel loro lento procedere fosse un modo di parlare, un codice di comunicazione neanche tanto criptico, esattamente come gli uomini antichi che erano convinti che fossero delle divinità, li veneravano come tali, li personificavano, si rivolgevano a loro con preghiere, affidando loro la propria salute, i propri voti, i propri tormenti. Su un fiume tante volte si erano fermati nelle loro escursioni in montagna, accogliendo come sfondo del loro colloquio il fragoroso fluire dell’acqua sasso dopo sasso. Nessuno di loro due si era allora mai posto il problema che quell’acqua fosse una voce che parlava. Eppure con il passare del tempo il linguaggio dei fiumi e l’ascolto dell’acqua avevano preso una forma particolare nei suoi racconti. Uno di quelli ebbe uno dei “mi piace”, e non certo per caso: il fiume che faceva da sfondo alla vicenda, il paesaggio in cui quelle acque scorrevano, i boschi e i prati che da esse venivano animati erano facilmente individuabili nella geografia da chi li aveva più volte vissuti e attraversati. Scrivere era diventato un curioso gioco, da quando “GiardinodelleRose” aveva iniziato a manifestare il suo gradimento: era come disseminare il blog di trappole tese per farcelo, o meglio farcela, cascare. E puntualmente ci cascava, anche perché ormai era convinto che voleva cascarci e che, una volta caduta, attendeva con desiderio la prossima trappola. Ogni ponte era un fiume e ogni fiume rimandava alla sua origine, al paesaggio da cui era venuto quel messaggio. E l’ansia di arrivarci, in quel paesaggio, cresceva, di ponte in ponte, di fiume in fiume. Anche in questo modo gli parlavano quelle acque. Non era facile da illustrare in modo semplice questa sensazione, soprattutto quando cercava di spiegarla riferendosi a quel libro che lo aveva così colpito per i suoi riferimenti culturali a un mondo di strutture profonde, di radici di civiltà. Anche quell’essersi messo in viaggio come d’istinto, quel salire lassù rispondendo a una richiesta senza neanche discuterla, quell’essersi a lungo preso gioco di un personaggio che solo alla fine del gioco stesso aveva assunto le previste fattezze umane, in fondo, tutto questo era un riannodare i fili che portavano a quelle sue radici e che lo aiutavano a comprendere meglio quelle strutture profonde. Occorreva un pretesto per riprendere quel dialogo che si era interrotto. Un pretesto necessita di un’occasione. Chi era stato più abile? Lui a crearla nello spazio virtuale di un blog? O lei a celarsi dietro la diafana icona di un nome geografico dal suono romantico?

Arrivò al casello, pagò il pedaggio. Appena uscito dall’autostrada, quando la nuova statale iniziò a salire, il paesaggio cambiò. La nebbia delle basse padane lasciò il posto prima al nevischio, poi, già dopo le prime curve della strada che saliva sull’altopiano, alla neve, che si stava aggiungendo a quella accumulatasi ai bordi nei giorni precedenti e annerita dal continuo passaggio di mezzi a motore. Non era lunga la strada da percorrere ed era quasi in anticipo sulla tabella di marcia. Solo l’ultimo tratto, quello che dal paese portava alle piste, dove gli era stato dato appuntamento, avrebbe potuto richiedere di montare le catene, se la nevicata si fosse intensificata e se la strada non fosse stata subito pulita, come solitamente avviene nelle prime ore. Quella neve non poteva non richiamare tante immagini di lei, di loro due insieme, che di quella stessa neve avevano per tanti anni trovato di che vivere. E non solo della neve, ma anche delle guide escursionistiche estive, quando all’attività di istruttore di sci si sostituiva quella di guida alpina per lui, di mountain bike per lei. Ma era la neve che li aveva uniti di più, non solo nel lavoro di quegli anni. La neve era riuscita a pervadere la loro intimità, a plasmare il loro carattere, a dare un senso profondo al loro stare insieme, soprattutto quando lei prese la decisione di cambiare casa, lasciare le sue sorelle e andare a vivere da sola. Fu lui ad aiutarla nel cercare la casa. Lei la voleva “immersa nella neve”. Quante volte aveva pronunciato quella frase! Si era chiesto spesso perché la neve susciti questi desideri, per quale ragione i bambini la amino e gli adulti tornino bambini su di essa. Nonostante fosse stata parte costante del suo paesaggio per anni, ha sempre visto nella neve qualcosa che riveste prima l’anima che il paesaggio. E la stessa sensazione era quella che provava in quel momento nell’immergersi con la sua auto, che ora era costretta a procedere più lentamente, in quel paesaggio sempre più bianco; anzi, ormai senza alcun dubbio sfacciatamente bianco. La neve di città forse rende memori della caducità, perché dura poco. Ma quella di montagna trasfigura per mesi un paesaggio intero, modifica i ritmi della vita quotidiana e cambia le attività delle persone; e loro avevano vissuto tutti quegli aspetti della loro neve. Ma stava salendo nello spazio o stava scendendo nel tempo? Per quanti anni quel passato era stato rivisto solo attraverso il filtro della malinconia! Aveva deciso di troncare in modo netto con quel passato, di cancellare dalla sua vita ogni elemento che lo rievocasse, ma si era ritrovato con un pugno di mosche in mano. Avvertiva questo sentimento di vuoto nel momento in cui apriva la finestra ogni mattina e vedeva solo strade piatte, in un orizzonte che non conosceva dislivelli di alcun genere. Era stato tentato più volte di tornare su, di rivedere gli amici lasciati. E proprio agli amici stava pensando quando il cellulare, che era appoggiato sul sedile vuoto del passeggero, vibrò. Si fermò in una piazzola, una fermata per gli autobus. E aprì il messaggio. Era di lei: “Ti aspetto. C’è una neve meravigliosa.” Poche parole. Ma c’era tutta lei in quelle poche parole. La neve non era citata a caso; lei sapeva bene come pizzicare le corde; la neve era stata il loro codice di comunicazione per anni. E non era certo casuale che l’invito fosse stato fatto per un giorno in cui era prevista neve lassù. La neve era un pretesto per attivare quella comunicazione. Sapeva bene, infatti, che lei non amava sciare con neve fresca. “Sono in arrivo. Sarò puntuale.” Inviata la risposta, ripartì.

Avrebbe dovuto percorrere un ultimo tratto di salita, passare un piccolo valico, scendere per qualche chilometro, poi risalire di nuovo fino al paese e da lì prendere la strada che portava al grande pianoro, alle piste, dove aveva l’appuntamento. Il suo pianoro, le sue piste: lì aveva investito il cuore, prima ancora che il denaro. I chilometri erano pochi, ma divennero lunghissimi, perché ogni casa, ogni rifugio, ogni via traversa, ogni curva, ogni sentiero, ogni angolo di quel paesaggio rievocavano momenti diversi e sempre bei momenti erano quelli a cui andava il pensiero. Una preparazione all’epifania finale, pensava dentro di sé, mentre viveva con trasporto quegli attimi, oltretutto nella nevicata che si era ulteriormente infittita salendo di quota. I mezzi sgombraneve erano già al lavoro e le strade dunque erano pulite. Non avrebbe avuto ritardi sulla tabella di marcia, ma avrebbe avuto due riti inevitabili da affrontare: sarebbe prima dovuto passare davanti a quella che fu la sua abitazione in paese e poi, poco fuori, avrebbe sfiorato, pur senza vederla in mezzo agli alberi, quella che era diventata la casa di lei e a cui lui stesso tanto aveva lavorato, perché fosse come lei desiderava. Il viaggio di avvicinamento a quei dolorosi luoghi di una piacevole memoria fu segnato da piccole tappe di quella stessa memoria: il negozio di mobili in cui avevano studiato insieme la cucina, il falegname a cui avevano ordinato tanti lavori, il fumista da cui avevano acquistato camino e stufe, i due elementi dell’arredamento forse più impegnativi all’atto della scelta, la casa di Massimiliano, il pittore sordo e muto dalla nascita a cui avevano ordinato l’affresco da realizzare sulla facciata di Villa Aurora. E non solo: quel percorso fu costellato anche da altri luoghi della memoria: i bar dove avevano passato tante ore dopo il lavoro sulle piste, i locali in cui con gli amici e i colleghi avevano trascorso tante serate. Ma non fu sicuramente il caso a volere che l’ultima tappa di quel viaggio nel tempo fosse proprio la pasticceria in fondo al paese, dove iniziava la strada per le piste: lì tutto ebbe fine. Non era mai riuscito a dimenticare le parole di Aurora e per tanti anni si era chiesto perché tutte le memorie si possono cancellare, da ogni strumento e da ogni diavoleria elettronica che ci capita per le mani, ma non quella dell’essere umano. Concludere con quella tappa, che per lui rievocava un’esperienza che aveva devastato la sua vita, con quella sorta di obbligato inchino era una tortura necessaria per l’anima. La montagna non consente la scelta di percorsi che è invece possibile in un reticolo di strade urbane; obbliga alle scelte; impone poche opzioni; richiede di essere rapidi, chiari e categorici nel dare le risposte. La mente trascinò gli occhi su quelle due grandi vetrate che davano sulla strada; loro quel giorno vedevano la strada, seduti al tavolo proprio sotto una di quelle finestre. “Siamo al capolinea, Riccardo. Mi dispiace. Non possiamo più andare avanti. Credo che tu non abbia bisogno di spiegazioni.” Parole che pesarono per anni come macigni. Parole che cambiarono dall’oggi al domani un’esistenza fino ad allora serena e sicura. Parole che furono la conseguenza di una crudeltà necessaria, imposta dalle circostanze, che avevano fatto di lui lo strumento del destino della vita di una persona non come tante altre, ma proprio di quella a cui era sentimentalmente legato da anni. Non si aspettava che Aurora prendesse la decisione in modo così repentino. Non credeva che sarebbe stata brusca e decisa nel dare un taglio secco ad anni di vita insieme, spensierata, appassionata. Non credeva che colui che era il frutto di quella relazione, il piccolo Matteo, potesse essere lasciato al di fuori di ogni considerazione, senza offrire alternative, senza proporre una discussione su di lui. No: siamo al capolinea. Per Aurora non c’era stato nemmeno bisogno di dare spiegazioni. Tutto si capiva e si spiegava da sé. Si aspettava un litigio. Si aspettava un forte rimbrotto. Aveva una riparazione da offrire a quanto occorso indipendentemente dalla sua volontà. Non poteva immaginare che la reazione sarebbe stata così decisa e immediata. Oltretutto senza alcun ripensamento nell’immediato. Un taglio netto, fino a quando non è arrivato “GiardinodelleRose”.

Passata la pasticceria, una deviazione sulla sinistra inseriva sulla strada che portava alle piste su cui avevano lavorato insieme. Era la parte più bella della memoria. Gli allenamenti per le gare, finché erano ancora impegnati nell’attività agonistica, poi il lavoro di istruttore; le riunioni della società sportiva, poi della scuola sci; le tante amicizie maturate sia negli anni giovanili, sia dopo in quelli dell’attività lavorativa; le trasferte per le gare prima, poi per accompagnare i ragazzi da loro allenati; le guide escursionistiche nella stagione estiva e la collaborazione con chi lavorava alla manutenzione dei sentieri e delle ferrate e alla realizzazione di opuscoli turistici e materiali cartografici: anni di passione condivisa per la montagna, per la neve, per lo sport ripassavano sul parabrezza, come davanti a uno schermo, con un andirivieni nel tempo, che era come scandito dal ritmo delle spazzole tergicristallo. L’ansia inevitabilmente aumentava. Come era possibile fermarla? Sentiva gli occhi bagnati sotto le palpebre, ma non voleva cedere così presto. Era troppo presto per lasciarsi andare. Qualcosa di nuovo stava nascendo per la sua vita? Forse era arrivato a una nuova virata di boa quel viaggio funestato prima da troppe tempeste, poi da una finta bonaccia che lo ha intorpidito tra le nebbie della pianura? Non poteva farsi vedere arrivare con gli occhi bagnati. Bisogna tener duro. Resistette, finché fu possibile. La strada procedeva. L’auto saliva sempre più lentamente per via del manto non perfettamente pulito e anche parzialmente ghiacciato. Resistere. Bisogna resistere. Forse ci saranno altre occasioni in cui sarà opportuno lasciarla vinta a quelle forze oscure, con cui da anni ormai combatteva battaglie che aveva ritenuto inutili, fino a perdere ormai stima in se stesso e a scadere anche con i suoi racconti sempre più nei contenuti malinconici, nel tema del dolore come eterno e inevitabile cimento della vita. A un certo punto la resistenza, come del resto era ormai inevitabile, cedette. Sentiva che le forze dell’anima si stavano assottigliando con l’accumularsi di quelle immagini e con il lavoro della memoria, che non si fermava mai; anzi, lo incalzava del tutto incurante del dolore che arrecava. Sapeva che da una di quelle curve si sarebbe visto per la prima volta proprio il Catinaccio, il Rosengarten, il Giardino delle Rose. E temeva che rivedere quella montagna potesse essere una brutta esperienza del tempo, un’esperienza della memoria troppo difficile da affrontare in quelle condizioni, con l’anima indebolita, prostrata, attaccata dal passato, dilaniata da un senso di colpa mai risolto e scoppiato in un attimo, con quella frase che non ammetteva spiegazioni: siamo al capolinea. Istintivamente rallentò, perché sapeva che la visione, se le nuvole non l’avessero coperta, sarebbe stata forte, sicuramente terribile per lui in quel momento. Lì tutto era nato, tanti anni fa, quando lei vinse una gara allenata da lui, che aveva interrotto prima l’attività agonistica. Si conoscevano da tempo, si frequentavano come amici, poi l’amicizia si fece sempre più intima, finché lì, sul Giardino delle Rose, ai piedi del Catinaccio, scesa da quel podio con la medaglia al collo, Aurora non gli saltò addosso in lacrime, gettandogli le braccia al collo. “Ti amo, Aurora”, gli venne spontaneo dirle. E tutto si chiarì. Sulla neve. Immersi nella neve, come immersa nella neve era la loro vita, come immersa nella neve lei volle che fosse la sua casa, quella in cui lui presto sarebbe dovuto andare ad abitare insieme a lei, con il loro Matteo. E invece così non fu.

La casetta non si vedeva bene dalla strada. Gli alberi erano fitti e carichi di neve. Si sarebbe vista da un’altra strada, da quella che tagliava il centro del paese, passando all’esterno. Aveva oltrepassato lo stradello che ad essa conduceva, quello stradello che lui aveva battuto, perché fosse praticabile con un’auto; era un sentiero abbandonato prima. Portava a una vecchia cava poco utilizzata e poi dismessa. Quel sentiero ogni tanto gli sembrava più bello della casa stessa, perché lì il lavoro, fatto con il cuore, era stato tutto suo. Lo aveva allargato, nel rispetto degli alberi presenti; lo aveva pavimentato con lastre di porfido dal taglio irregolare; non ne volle una uguale all’altra; lasciò ampie fughe tra lastra e lastra in modo che un po’ di erba potesse crescere in mezzo e dare un senso di vita anche a quelle lastre apparentemente grigie, su cui, per uno di quei miracoli della natura che pochi paesaggi come quello di montagna riescono a regalare, il ghiaccio non si formava. Aveva realizzato insieme a un tecnico del paese l’impianto fotovoltaico di illuminazione di quello stradello di 90 metri, posando le guaine e collocando i faretti, regolati da un temporizzatore astronomico, che regolava l’accensione secondo la stagione dell’anno. In inverno, con la neve, quei 90 metri erano qualcosa che riusciva ad accogliere le persone in modo garbato e rispettoso del grande e maestoso bosco, al cui limitare era situata l’abitazione e che rivestiva tutto il pendio che separava il paese dal pianoro con le piste. “Solo chi ama la montagna come noi riesce a fare certe cose”, gli aveva detto Aurora la sera in cui nello chalet del parco del paese avevano festeggiato l’inaugurazione dello stradello di accesso. A lei piaceva l’intimità, l’atmosfera rispettosa dell’ambiente, il silenzio del paesaggio quando i turisti erano scesi, sulla strada non passavano più auto e avevano quel paesaggio tutto per loro. “Mi piace pensare ogni tanto che noi due un giorno possiamo essere nominati dal nostro sindaco i custodi ufficiali di questo bosco”, gli disse un altro giorno, mentre alle prime ore del mattino, a piedi, con le ciaspole, andavano insieme su alle piste partendo da quella casetta, in cui lui ormai sempre più spesso passava la notte. I loro colleghi inizialmente li prendevano in giro per il fatto che si presentavano alla scuola sci con le ciaspole ai piedi, dopo una camminata di oltre un’ora, e che nel pomeriggio, con quelle stesse ciaspole con cui erano saliti, sarebbero dovuti ridiscendere. Poi, loro, i meccanizzati, che arrivavano come i turisti con le loro auto alle piste, capirono che tipo di esperienza fosse quella di Aurora e Riccardo: era un modo per sentire sempre più loro quel bosco ,che si attraversava per arrivare a casa di Aurora nel pomeriggio e per venire su alle piste al mattino. Non parlavano quasi mai quando percorrevano quel sentiero. Era diventata per loro un’esperienza dal valore impossibile da comunicare ad altri. Il verso di un animale, il sibilo del vento, lo scorrere più o meno torrentizio dell’acqua del rio, che scendeva e poi attraversava il paese, non li disturbavano mai: venivano ascoltati e, se il dialogo silente delle loro anime li metteva in comunicazione, imponevano a se stessi una sosta per interpretare quel verso, quel fruscio, quell’acqua. E dell’acqua poi a lungo avrebbero parlato insieme, perché l’acqua, i ponti e i fiumi “sono una specie di ossessione, che tu prima o poi devi spiegarmi, nei tuoi racconti”, gli aveva detto una sera nel letto posizionato nell’ampia mansarda di villa Aurora. Non si guardavano mai negli occhi, quando l’anima era presa dal paesaggio; guardavano entrambi nel vuoto, perché “l’anima in questo momento per me è come se fosse là fuori”, gli aveva detto spesso. Insomma, non era esagerato pensare che salire alle piste a piedi attraverso il bosco era un esperienza non dissimile da quella vissuta da Peter Matthiessen alla ricerca del leopardo delle nevi nel Tibet nepalese tra monasteri buddisti.

Aveva sperato che le nubi basse impedissero di vedere il Catinaccio. Ma la sua aspettativa fu delusa dallo squarciarsi improvviso delle nubi stesse, proprio centro metri prima di quella curva. Glielo schiaffeggiarono in faccia, con tutta la pesante mole di ricordi di gare, di allenamenti, di guide estive, di ferrate e di arrampicate. Il paesaggio cambiò in un attimo: altro miracolo possibile nell’ambiente unico di quella montagna. Le nubi si diradarono e la nevicata cessò, lasciando una soffice e vergine coltre bianca che rivestiva tutto. Gli alberi ne erano carichi, ma sopportavano pazienti quel peso. Il cuore iniziava a battere più forte. Stava arrivando con un po’ di anticipo. Frenò bruscamente e approfittò di una piazzola. Lì la memoria non sarebbe dovuta andare. E invece anche quello evidentemente faceva parte del gioco. Gettò la testa all’indietro. Con la nuca incollata al poggiatesta chiuse gli occhi e sfogò il suo pianto al ricordo di quella terribile riunione in comune della commissione turismo e sport, quella che avrebbe diviso in due la sua vita in un attimo. Lui non aveva idea di cosa quella votazione avrebbe significato per la sua vita; non pensò alle conseguenze di quella decisione; venivano dimezzate le guide estive e i maestri di sci; troppe scuole di sci si erano aperte nella valle; troppo alti erano i prezzi delle lezioni; sempre meno persone le chiedevano per via della crisi economica; la federazione non poteva più permettersi sprechi; occorreva tagliare. Non era il suo lavoro né quello di fare bilanci, né tanto meno quello di pilotare soluzioni politiche. Era lui il presidente della società sportiva che accoglieva la scuola sci e come tecnico, che lui non era, fu chiamato a riferire in commissione. Dovette presentare i numeri. Erano impietosi. Di fronte a quei numeri non si poteva nemmeno discutere; bisognava tagliare. Non fu nemmeno sfiorato dal pensiero che tagliare significava che delle persone non avrebbero più avuto uno stipendio, che si sarebbero dovute cercare un altro lavoro, che avrebbero dovuto forse anche ricostruire una vita altrove. No. Aveva fatto tutto in buona fede e aveva fatto e detto non più di quanto gli era stato chiesto di fare e di dire. Altrove una giovane donna speranzosa nel futuro e fiduciosa in lui, in attesa di comunicargli che aspettava un bimbo, avrebbe forse avuto la notizia del licenziamento, prima che lui riuscisse a realizzare cosa era successo, addirittura prima che lui scendesse a casa sua. Quando uscì dalla riunione, mentre ingenuamente assaporava la tanto attesa cena di salsicce e patate cotte sul camino della casa di lei, aveva ricevuto un messaggio: “Non sto bene. Preferisco che tu non venga questa sera.” L’indomani l’appuntamento alla pasticceria e la comunicazione dell’arrivo al capolinea: Riccardo non avrebbe mai visto Matteo, per il quale Aurora non avrebbe mai chiesto nulla a lui. Sfogò quanto più dolore poté seduto a occhi chiusi in quell’auto, mentre gli ultimi fiocchi di neve scendevano sul parabrezza. Tre anni erano passati da quei fatti che in dodici ore avevano distrutto quanto costruito in quindici anni. Tre anni aveva il figlio che non aveva mai visto. Per tre anni era vissuto nell’esilio che si era autoinflitto per espiare quanto da lui provocato, accettando lontano da casa, lontano da quel paesaggio che aveva amato e che lo aveva amato, il primo lavoro che gli era capitato, quello di autista di pullman turistici. Quante volte aveva rifiutato viaggi che lo avrebbero portato con il pullman su in montagna; era andato dappertutto in quei tre anni, ma con quel paesaggio aveva deciso di chiudere il rapporto diretto. Rimaneva il lavoro della mente, cui non si poteva comandare; quella agiva con il blog, con i racconti, con gli articoli e le recensioni; lì la montagna era onnipresente, perché lì non era più in grado di avere il controllo della sua mente; era lei che lo controllava, che lo guidava, che gli mandava messaggi, che gli faceva capire come rimediare agli errori del passato; la sua mente gli voleva bene, perché soffriva di un dolore piacevole da sentire addosso, quando scriveva di montagna, perché sapeva che esprimeva un sentimento che pochi avrebbero potuto manifestare; lui sapeva far scaturire quel sentimento nelle parole di un racconto. La sua mente lo coccolava in quel mondo che si apriva non appena finiva l’orario di servizio. Gli occhi non ne volevano sapere di riaprirsi. Le immagini si confondevano tra di loro. Resistere. Resistere all’ansia che monta. Era la cosa da fare. Era la ragione forse per cui aveva deciso di fare quella brusca fermata, proprio là dove era sicuro che la sua anima avrebbe sofferto di più. Pratica di masochismo bella e buona era quella di fermare l’auto proprio nell’unico punto in cui il Giardino delle Rose sarebbe stato perfettamente visibile in tutte le sue tante cime, proprio nell’unico momento in cui, forse trovatosi in una specie di occhio del ciclone, il cielo si era aperto per farglielo vedere meglio. Era imponente, dominante, forte e sicuro, nel suo bianco manto di ghiaccio, che dall’altro sovrastava tutto il pianoro sottostante, dove lui era atteso, alla pista dell’Antico Mulino. Era possibile che da tre anni fosse atteso lì? Quella domanda non poteva che acuire il senso di colpa e riportare a quella sera, a quella riunione di commissione, alla lettura di quelle cifre spietate e a quella delibera finale. La notizia era uscita subito. Qualcuno aveva voluto fargli del male. Qualcuno sapeva che Aurora sarebbe stata tra le vittime della razionalizzazione delle spese. E questa persona malvagia l’aveva informata. Le aveva detto che lui avrebbe provocato il suo licenziamento. Qualcuno aveva agito in modo che lei fosse messa contro di lui. Divide et impera: qualcuno li voleva divisi, perché insieme erano stati per anni una forza della natura lassù su quel pianoro, prima come atleti vincenti, poi come istruttori, infine come responsabili e anime di un centro del fondo tra i più belli d’Italia. Lui desiderava per lei un posto importante nel direttivo della società, che gestiva non solo le piste invernali e l’attività escursionistica e alpinistica estiva, ma anche, giù in paese, il palazzetto del ghiaccio che d’estate diventava un campo di calcetto, i campi da tennis aperti tutto l’anno, la piscina anch’essa aperta tutto l’anno. Qualcuno non voleva Aurora e il modo migliore per evitare la sua scalata era interrompere la cordata, ovviamente guidata da lui, che la voleva fare arrivare nel direttivo. Politica di paese. Vecchi atavici rancori di gruppi familiari contro altri? Ma perché rovinare una coppia giovane e intraprendente, che tanto si stava dando da fare per organizzare eventi, sia aumentando il numero dei soci del gruppo sportivo, sia trovando clienti tra le persone che da turisti frequentavano la zona in inverno, in estate, ma ultimamente anche nei ponti di primavera e d’autunno. Un lavoro al servizio della comunità, privo di finalità politiche, mai pensato per essere qualcosa contro, ma sempre per gli altri. Eppure, di fronte ai maestri del mettere zizzania, ai provocatori di professione, ai politicanti di mestiere, ingenuità e sincerità sono sempre armi da perdenti. Non aveva pensato a lei in quel momento. C’era un problema economico. Per la prima volta i numeri erano in rosso in alcuni settori; lo sci di fondo era in picchiata nel grafico della biglietteria del centro, dove l’aumento del prezzo di accesso, la riduzione delle facilitazioni, l’aumento dei costi delle trasferte degli atleti, che dovevano andare spesso in paesi nordici e lontani, e la diminuzione dell’utenza erano tutti fattori che potevano solo essere usati contro di lui, che della società sportiva ora era diventato il presidente e che di quei numeri era direttamente responsabile. Non riusciva nemmeno a ricordare chi avesse avanzato la proposta di chiudere il centro del fondo, situato a quota altimetrica troppo bassa per contare sulla neve per tutto l’inverno, troppo costoso da innevare artificialmente in rapporto all’utenza, che era in gran parte costituita da ragazzi delle società sportive locali, in calo anch’essi nelle quote associative, rispetto agli altri sport di cui la società si occupava. E pensare che il centro del fondo era stato voluto, sostenuto per anni, spesso addirittura disegnato nei tracciati da loro due, da Riccardo e Aurora, sin da quando da giovani atleti, che lì principalmente si allenavano, davano consigli ai responsabili di allora. Quella proposta di chiusura non fu accettata, ma non fu nemmeno lui ad aver la forza per farlo; lo sconforto di fronte ai numeri e la mancanza di volontari sufficienti per sopperire ai necessari tagli del personale per la manutenzione degli anelli di fondo, volontari presenti in altre realtà e in altri centri più popolosi, forse anche più noti al grande turismo, furono gli argomenti che vinsero. Il fondo era un ramo secco. Per lui quel centro era stato davvero tanto, il suo cuore pulsava lì; di lui parlava tutto quanto era lì; lì era cresciuto come atleta da giovane, anche se l’attività agonistica si era svolta ovviamente nelle più disparate località nazionali e non. Ma, se per lui in quel momento, come presidente di una società in cui erano rappresentate tante discipline, il cento del fondo e il tracciato olimpionico dell’Antico Mulino, dove si allenavano atleti di tutta Europa, era importante, ma non era più tutto, per Aurora invece non era solo importante: era tutto. Da quando lui era diventato presidente della società e doveva occuparsi di tutte le altre attività, il centro del fondo si identificava ormai in lei. Aurora si occupava di disegnare le piste, di sagomare le curve, di individuare le novità nei tracciati, di tenere ordinato il locale per la sciolinatura che era il fiore all’occhiello di quel centro. E non solo: lei gestiva gli orari e i prezzi delle piste e del centro di noleggio, i prezzi del noleggio stesso, la pulizia del locale con gli spogliatoi e i bagni, la gestione del bar; la collocazione dei cannoncini per l’innevamento artificiale almeno dell’area con il campo scuola; e le questioni relative a tutte le persone che in quei locali lavoravano, che potevano ammalarsi e dover essere sostituite, che chiedevano permessi per questioni personali, che in certe giornate di fine settimana erano spesso in palese difficoltà e soggette a forte stress. Quante volte Riccardo la chiamava e lei non rispondeva; andava a cercarla e capiva perché non aveva risposto: mancava un ragazzo al bar e si era messa lei a lavorare dietro il bancone; mancava il tecnico della sciolina e si era messa lei al banco; mancava un istruttore e faceva lei le lezioni che avrebbe dovuto fare lui; aveva visto stremata una ragazza al bar ed era andata a darle aiuto, anche servendo ai tavoli, se necessario per farla riposare un po’. Tutto questo con un’energia e una passione che superava la sua. Il che era tutto dire.

Ma a un certo punto Riccardo era diventato importante nel paese. Lui era l’ex atleta che aveva vinto di più nella sua specialità. Lui era quello che aveva voluto per primo lo sviluppo di quel centro, che lo aveva visto crescere sin da bambino. Aveva anche un po’ di spirito organizzativo e anche indubbie qualità gestionali di buon senso pratico, non certo politiche; fece carriera nella società diventando prima consigliere e poi addirittura presidente; la politica lo avvicinò e si lasciò irretire in cose più grandi di lui. Aurora gli aveva detto di continuare a occuparsi solo di sport e turismo come esperto nella relativa commissione consiliare; avrebbe continuato a dare pareri tecnici, dietro ai quali spesso c’era anche la sua esperienza; ma non aveva gradito il coinvolgimento diretto nella politica, che era durato per un solo mandato. In seguito, decaduto dalla carica, non più rieletto, era rimasto comunque attivo, seppure non più come consigliere comunale, senza un diretto ruolo istituzionale, ma come referente della sua lista per tutto quanto riguardava sport e turismo. Quella decisione di lasciarsi coinvolgere nella politica, mai condivisa da Aurora, che nemmeno voleva ascoltarlo quando le parlava delle riunioni, dei litigi, dei contrasti e dei tanti battibecchi, spesso su quisquilie, convinta com’era che Riccardo stesse perdendo di mira gli obiettivi prioritari, che dietro quelle attività c’erano delle persone, degli stipendi e delle famiglie, che c’era un interesse turistico da conservare, che c’era un clima che stava cambiando e rendeva sempre più difficile gestire tante attività.

Il tempo passava in questi pensieri. Non si era accorto che adesso sarebbe arrivato in ritardo. Glielo ricordò il messaggio che era giunto e che lo aveva salvato dall’aggressione di quel passato fatto sicuramente di luci, ma anche di tante ombre. “Problemi?”. “No. Ho dovuto rallentare per la neve. Fra dieci minuti sono lì.” Non era una bugia del tutto. In parte era vero. Ma soprattuto era credibile. Rimise in moto e con animo diverso, sì, davvero molto diverso dopo tutte quelle riflessioni; dopo essere stato richiamato ai suoi errori e alle sue responsabilità, si diresse all’appuntamento, nel luogo che aveva dato tutto a lui, quando era bravo e forte in ciò che sapeva fare, e che lui aveva mandato in malora, lasciandosi prendere da cose che non sapeva fare e in cui sarebbe stato sempre un debole, un burattino nelle mani di professionisti abili e di aquile rapaci. Quelle dello sci alpino, della discesa, della società degli impianti, quelle che attiravano le auto a migliaia nel fine settimane, quelle che provocavano code sulle strade, intasamenti nei parcheggi, smog a non finire, ma portavano soldi a palate nelle casse della società sportiva. Eppure gli sportivi locali, i giovani delle famiglie del paese che praticavano sport, gli adulti che volevano tenersi in forma, non andavano di là dalla strada, dove si faceva discesa; i giovani del posto preferivano il centro del fondo, dalla parte di qua della strada, dove non si abbattevano alberi per fare piste, dove non si spendevano migliaia e migliaia di euro per sparare neve finta, per anticipare o allungare la stagione, dove soprattutto non c’erano impianti di risalita costosissimi da mantenere e che implicavano responsabilità sulla sicurezza dieci volte superiori per chi li doveva gestire. Due mondi opposti di intendere la neve, nello stesso pianoro, ma separati da una strada che per lui era una stata per anni una specie di barriera. Era un peccato che lo sport fosse rovinato dalla politica e che la politica fosse guidata dal denaro, che attraverso la politica rovinava lo sport. Un triangolo del male perfetto, che non riusciva a comprendere, lui che andava spesso a fare qualche discesa dall’altra parte della strada, che non aveva mai visto nemica l’altra sponda della provinciale, che divideva quel pianoro. Fino a quando, appunto, non si era lasciato prendere nella rete di quelle persone che aveva sempre rispettato, ma considerato appartenenti a un mondo diverso e lontano dal suo. Aurora andava oltre, nutrendo del suo sport una visione quasi fondamentalista: per lei i veri sportivi stavano, senza se e senza ma, di qua dalla strada; di là c’erano solo i profittatori economici che confondevano lo sport con un spot turistico. “Lo sport non è un spot turistico; deve essere sacrificio e passione. Ricordati che per anni anche tu lo hai praticato così,” gli aveva detto urlando in uno dei pochissimi momenti in cui l’aveva vista alterata nei suoi confronti. No. Così si esagera. Non voleva che tutto questo diventasse un’arma da impugnare. Eppure, Riccardo, nel momento in cui dovette assumersi delle responsabilità, a lei non aveva pensato quella sera, quando si dovette votare sui dei numeri, su dei bilanci predisposti da uno studio commerciale e prendere decisioni che avrebbero avuto drastiche conseguenze. Era il presidente della società sportiva per i suoi meriti sul campo, per le vittorie ottenute da giovane, per il lustro che quelle vittorie avevano dato alla valle, mentre Aurora faceva la sua parte in campo femminile. Era l’atleta per antonomasia del fondo. Ma era anche lo scrittore che pubblicava racconti e aveva scritto tre romanzi, che aveva un blog cliccato da migliaia di persone in tutta Italia. La politica, che non sapeva fare, lo aveva lusingato; e poi lo aveva rovinato.

La macchina ripartì, ma la sua mente non voleva staccarsi da quella piazzola che era stata per lui l’occasione per riflettere sulle ragioni di tutto quanto aveva spezzato la sua vita, distrutto una coppia, spento una passione nata da bambini, con la stessa velocità con cui si cala una saracinesca sulla vetrina di un negozio. Aurora era sempre stata determinata; non era donna di compromessi; lui aveva distrutto l’unica cosa in cui lei credeva. E per lei, in quello che per lui era un fideismo quasi integralista, non c’era altro da fare. Riccardo non se lo aspettava. No, non il giorno dopo aver saputo che sarebbe diventato padre.

Quegli ultimi dieci minuti divennero un’eternità. Su quel parabrezza di nuovo non vedeva strade e alberi, non vedeva il bosco cedere al pianoro e a quelle distese che sarebbero diventate fra qualche mese gli alpeggi estivi; su quel parabrezza scorreva il film di quei tre anni di nulla. Tre anni in cui tante volte si era chiesto che cosa era stato di Aurora, del bambino, suo figlio. Doveva resistere veramente adesso. Era in preda a una devastazione dell’anima che non poteva permettersi di sbattere in faccia a lei, non poteva permettersi di arrivare da perdente, da sconfitto, da esiliato, da punito, da responsabile, ma soprattutto da colpevole. No. Basta. Per tre anni era vissuto preda di un senso di colpa che lo aveva isolato da tutto e da tutti, abitando in un anonimo bilocale di una località balneare, quanto meno spettrale nei mesi invernali. L’inverno: il periodo dell’anno che lui da sempre era stato avvezzo a ritenere il più bello, perché sempre caratterizzato da alacre impegno, da pugnace passione e soprattutto, per il piacere dell’anima, da tante bellissime soddisfazioni. Eppure da colpevole stava arrivando a quell’appuntamento alla pista dell’Antico Mulino. Colpevole di tutto. La colpa era solo sua. La colpa lo aveva straziato, lo aveva ridotto alla dipendenza da farmaci, lo aveva ridotto a non dormire, lo aveva in pratica reso un essere che alla vita non sapeva più cosa chiedere, perché in quella punizione che si era inflitto da solo non era assolutamente possibile ricostruire qualcosa di nuovo. Il suo corpo era andato lontano, in un paesaggio non suo, in un ambiente non congeniale, tra persone interessate a tutto ciò che non aveva mai fatto parte del suo mondo, delle sue valli, dei suoi boschi, dei suoi monti; a questi ultimi, invece, l’anima era rimasta strettamente abbarbicata e riusciva a parlare con i testi che pubblicava sul blog, con i racconti che da quei testi uscivano, sempre più forti, perché sempre più sofferti. C’era qualcosa dentro di lui che gli voleva bene. C’era uno spirito buono che, pur nella generale devastazione, aveva operato silente ma tenace in questi tre anni. Non si era mai chiesto nulla al riguardo, quando la sera, dopo le otto ore di servizio, accendeva il computer e iniziava a scrivere, oppure in poltrona o a letto trascorreva ore a leggere. Mentre il corpo riposava dalle fatiche di un lavoro forzato, l’anima alacre operava in silenzio per dare conforto a quel corpo, che la colpa stava divorando a piccoli brani, giorno dopo giorno, nel silenzio vuoto di nebbiose pianure e di spazi anonimi totalmente avulsi da quelle che erano state le aspirazioni e i sogni di una vita. La sua esistenza non sarebbe dovuta illanguidire nella solitudine di un paesaggio estraneo, ma sarebbe dovuta procedere in ben altra direzione. Eppure una colpa, se c’era – e c’era – andava espiata.

Il bosco era finito. La strada non saliva più. Si apriva il grande pianoro, bianco nella sua verginale purezza. Quelle nubi che per un attimo si erano aperte, lasciando che un crudele raggio di sole illuminasse, proprio per il momento del suo passaggio, il Giardino delle Rose, si stavano ora richiudendo. Altra neve si preannunciava. Immersa nella neve era nata la sua vita; non doveva finire immersa nella nebbia. Quassù era il suo posto. Ma non ne era più degno. La colpa lo aveva reso indegno di quel posto troppo bello per essere suo. Eppure, quel candore che tutto rivestiva parlava di qualcosa di puro, di intatto da macchia. Doveva ascoltare l’anima che attraverso quei colori gli urlava dentro. Doveva assecondare quell’anima che non gli voleva male, che non lo rodeva con la colpa, che per tre anni aveva cercato di fargli capire che soffriva di quella scissione dal corpo inferta così bruscamente e dolorosamente. “GiardinodelleRose” era stato uno strumento di quell’anima. Era forse l’extrema ratio di quell’anima che era rimasta lassù e che da lassù per tre anni invano aveva gridato in lui, nel suo corpo che veniva invece sbranato da avvoltoi famelici, nell’intendimento di combattere una colpa che quel corpo aveva sufficientemente scontato con un dolore che non meritava. C’era anche un bambino, ora di tre anni, sotto a tutto questo, dietro a questo sipario che svolgeva e riavvolgeva solo icone di sofferenza nelle lunghe ore dopo il lavoro, nelle lunghe interminabili giornate di riposo, agognate dai colleghi, sofferte da lui. Di quel bambino nulla aveva più saputo e questo aveva acuito quel sentimento di colpevolezza nell’esilio che si era inflitto.

Quella pausa in auto, durante quella breve interruzione della nevicata, che infatti stava ricominciando con il rabbuiarsi del cielo, lo aveva denudato di fronte a tutte le sue responsabilità, gli aveva chiarito tutto quello che non aveva mai inteso ammettere, gli aveva fatto capire come la causa prima fosse stata una sorta di annebbiamento della vista, che gli aveva impedito di vedere il traguardo, l’obiettivo vero di quella gara che l’arbitro aveva improvvisamente sospeso. Ora non aveva più argomenti da controbattere alle accuse; si sentiva come un gladiatore nudo e inerme di fronte a un gigante armato fino ai denti; ma ora era subentrata la convinzione che la responsabilità di quanto successo non fosse del caso, non fosse di un’aleatoria sorte avversa, ma solo ed esclusivamente di chi aveva perso di vista il senso di un operato costato anni di passione e aveva mandato al macero il risultato di quella passione e di tanti sacrifici. Questi erano stati fatti insieme ad Aurora in nome di quelle attività e di quella passione, che lui, con un voto e un’alzata di mano colpevolmente ritenuta innocua, aveva irresponsabilmente condannato a morte. Non aveva combattuto, non aveva lottato, non aveva insistito; se lo avesse fatto, forse qualcosa si sarebbe salvato, forse a un compromesso si sarebbe potuti arrivare. La politica è l’arte del compromesso, qualcuno gli aveva rinfacciato tante volte. E lui, che al lavoro associava la passione per la letteratura e la narrativa, era lontano anni luce da qualsiasi logica compromissoria; si era affidato ad uno studio commerciale, aveva accettato i risultati, li aveva sottoposti a esame da parte del direttivo della società che presiedeva, aveva ricevuto un mandato, ma non aveva mosso un dito, perché si era fidato; perché non aveva irresponsabilmente capito che si ordiva un agguato alla sua disciplina sportiva e alle sue attrezzature e strutture, in nome del dio denaro, che comandava altrove, dall’altra parte della strada, dove erano gli impianti delle piste di discesa, oppure in paese dove erano lo stadio in cui si giocava l’hockey, i campi da tennis e la piscina. Il suo era lo sport della fatica, la disciplina d’altri tempi; oggi il turista vuole divertirsi senza fare fatica; il giovane vuole vincere diventando famoso in una disciplina che tutti praticano e tutti conoscono grazie alla pubblicità. La sua era considerata poco più di un ramo secco in quei numeri che lui stesso aveva dovuto presentare. Ed ecco, lì, sotto i suoi occhi, il risultato. Con l’auto era entrato nel pianoro: e tutto gli fu chiaro in un attimo. Da una parte ecco la folla di chi si assiepava alla biglietteria per lo skipass, o al centro noleggio per scarponi e sci da discesa, o alla base della cabinovia in due tronconi che portava su all’inizio delle piste; ecco il parcheggio di cui non si vedeva la fine e che nemmeno riusciva a contenere tutte le auto; un ristorante e ben tre bar di cui due nuovi, che non esistevano quando lui se ne era andato. Dall’altra parte della strada quello che era stato il suo mondo, il centro del fondo, la cui insegna sverniciata dava già un significativo buongiorno. Rivide ciò che restava del centro sciolinatura con il laboratorio sci, un tempo ritenuto il fiore all’occhiello di tutta la struttura sportiva: un edificio chiuso, già fatiscente e con tutti i segni dell’abbandono. Lì decise di fermare l’auto. L’inizio delle piste, dove era atteso all’appuntamento, non era visibile da quel punto. Mentre si metteva le scarpe, puliva gli attacchi e dava un po’ di paraffina e di sciolina agli sci, un signore accanto a lui stava facendo la stessa cosa. Decise di attaccare discorso: “Buongiorno. C’è tanta neve fresca e temperatura non molto bassa. Che si fa?”.

“Mah … Buongiorno a te! Io vado su una fluorata rossa. È un prenderci in queste giornate. Dovremmo essere come gli svedesi che decidono solo annusando l’aria, senza guardare termometri dell’aria, termometri della neve e così via.” L’uomo rispondeva senza guardare il suo sconosciuto interlocutore, come si conviene a un esperto, abituato a frequentare quel centro e quegli anelli, su cui lui aveva passato una vita; quell’uomo era tutto preso dal suo lavoro di sciolinatura improvvisata con gli sci stesi per il lungo per terra.

“… e qualità delle gambe,”, non mancò di aggiungere Riccardo, memore di una lunga esperienza.

“Già. Ma quando si poteva sciolinare là dentro era tutta un’altra cosa.”

“Vero. Da quanto tempo è chiuso il laboratorio?”

“Come? Non lo sai? Ti credevo esperto del posto?”

“No. Mi hanno detto che ci sono delle belle piste e ho deciso di provarle oggi. Peccato per questo cambiamento improvviso del meteo.” Gli era costata tantissimo quella menzogna e pronunciò la frase con il cuore che gli sembrava salito fino ai denti.

“È chiuso da quando è cambiata la direzione del centro, tre anni fa. Il direttore, un ex atleta, che aveva lavorato per anni e che sembrava anche stimato, così almeno si dice, all’improvviso si dimise. Nessuno capì esattamente perché. Si parlò di divergenze politiche. Faceva tutto lui con la sua compagna quassù al centro del fondo. Andato via lui, lei, che è sempre qua tutti i giorni, non fu più in grado da sola di svolgere la mole di lavoro che avevano negli anni precedenti diviso in due. Ci provò, ma alla fine decise di lasciare solo le piste, che … beh, quelle sì, si difendono veramente bene. Guarda laggiù!” E indicò in direzione del vecchio bar ristorante annesso al centro del fondo.

“Quello era un bar ristorante pieno di gente in queste giornate. Ora è solo un punto ristoro che fa un caffè schifoso e una cioccolata che sarebbe un’offesa alla cioccolata vera chiamare così. Chiuderà presto. Vanno tutti di là dalla strada, anche i fondisti. Vuoi mettere?” I sensi di colpa naturalmente si moltiplicarono ancora di più nel vedere così malridotto proprio il locale dove lui aveva avuto anche il suo ufficio, sul retro del bar, adiacente alla sala ristorante.

“C’era anche uno spogliatoio con armadietti, bagni e docce, se ricordo bene,” continuò a punzecchiare Riccardo, in cerca di informazioni su quanto successo in quell’arco di tempo. Erano passati tre anni. Non è un periodo certamente lungo. Eppure sembrava che ne fossero passati trenta.

“Sì, esatto. Era dopo il bar. Adesso lo usano per metterci le macchine e attrezzi vari. Credo che i tubi si siano rotti e nessuno abbia più deciso di riparare l’impianto. Politica, amico mio. Brutta e sporca politica. Ma siccome per me è sempre meglio un uovo oggi che una gallina domani, mi accontento delle piste, che sono veramente molto belle. E spero che la politica possa riflettere sullo sfregio allo sport che ha fatto quassù. Se quel direttore di allora se n’è andato così all’improvviso, i casi sono due per me: o era un incapace assoluto, o era un visionario che non accettava delusioni. Mi piace pensare che quella vera sia l’ipotesi B, ma qualcosa purtroppo mi dice, sulla base dell’esperienza, che sia più probabile l’ipotesi A.”

Non era quella certamente la lezione che meritava. Non in quel momento. Riccardo non ribatté nemmeno. Deglutì amaramente. Si trattenne. Prese gli sci. Chiuse la zip della tuta. E s’incamminò verso le piste nel nuovo ruolo di incapace assoluto, che gli era appena stato affibbiato da uno dei tanti utenti di quelle piste; una struttura sportiva, che era stata la sua ragione di vita per tanti anni, sin dall’infanzia, su cui si era allenato da giovane, che lui aveva voluto sviluppare, che lui aveva visto crescere fino a diventare uno dei punti di riferimento più attrezzati e apprezzati a livello nazionale da parte degli appassionati di quelle discipline dello sci di fondo. Un cartello rotto indicava l’inizio della pista dell’Antico Mulino. Lo seguì. Non volle alzare gli occhi. Li tenne a terra, perché così procede il colpevole.

Lei era lì. Aurora lo vide: sorrideva. Rallentò il passo nell’avvicinarsi a lei. Alle sue spalle il Giardino delle Rose era coperto da nubi da cui la neve scendeva ora di nuovo fitta. Aurora, immersa nella neve come lui sempre la sognava, aveva gli sci in mano; li lasciò cadere incurante. Allargò le braccia. Lui si lasciò abbracciare e dovette accettare di sentirsi dire: “È stata tutta colpa mia. Scusami. Ho fatto quello che ho potuto, ma senza di te qui non c’era nulla che avesse proprio un senso. Tutta colpa mia. Ora … vorrei ripartire.”

“Ripartiamo dal Giardino delle Rose?”

“Ripartiamo dal Giardino delle Rose. Torniamo lassù. Prendiamo un caffè lassù. Lo faremo senza una medaglia al collo, ma con qualche anno in più. Gli anni in più ci avranno almeno insegnato che gli errori si pagano.”

“… e anche le colpe si pagano.”

“Forse qualcosa qua al centro si può ancora fare.”

“Sì. Forse sì. Prendi quegli sci, carichiamo tutto in auto e andiamo lassù. Mi sembra giusto.”

“Ci sarebbero ancora salsicce e patate da cucinare nel camino. Le ho prese da mangiare a pranzo. Mi farebbe piacere che ti fermassi da me,” disse sottovoce Aurora. Riccardo naturalmente non aveva dimenticato quel particolare.

La nevicata si era infittita, ma non era certo mai stata la neve a rappresentare un problema per loro due. Andarono all’auto. Accanto a quella di Riccardo, il signore di prima, quello che gli aveva in pratica dato dell’incapace a sua insaputa, era ritornato indietro sconsolato, perché non aveva potuto sciare per la neve troppo alta e fresca. Li vide arrivare abbracciati. Riconobbe Aurora, la nuova direttrice del centro. Li vide baciarsi a lungo prima di risalire in auto, incuranti della neve che si intrufolava ovunque nelle loro tute, tra i capelli, persino sotto gli occhiali. La gente di montagna è franca e non gira attorno ai problemi: l’uomo disse ad alta voce: “Tutti paghiamo prima o poi. Quell’incapace, che, andandosene chissà dove, ha rovinato questo paradiso, un centro organizzato alla perfezione, meritava proprio una lezione come si deve. Brava!”

Fu così che capii che la colpa non solo colpisce sempre, anche a tradimento, ma compresi anche molto bene che riesce a plasmare la vita, imprimendole una direzione assolutamente imprevedibile e indefinibile al suo inizio e che la porta a esplorare regioni e a effettuare esperienze, che altrimenti non avrebbe mai avuto occasione di realizzare. Non solo: non avrebbe mai nemmeno potuto presagire. Chi di noi si è impegnato nel tentativo ha imparato da Aurora e da Riccardo che pianificare quel viaggio è impossibile con le forze di cui disponiamo, perché ci sono altre forze che agiranno sempre secondo canoni e regole, che forse esistono, ma che mi piace definire criptiche e lasciare nel loro nascondiglio; ebbene, queste forze, che istintivamente temiamo, per me e per il mio lavoro hanno di bello proprio il fatto che per noi, che ingenuamente edifichiamo sopra di esse le più fragili ed effimere teorie, celeranno sempre un meraviglioso e intrigante segreto. Il segreto della comunicazione: per gli antichi era la condivisione di un dono; lasciamo che questa comunicazione e questa condivisione ineffabili si lascino ammirare attraverso il dono che si eterna nel tempo e si ripete attraverso le sue immagini e i suoi correlati nel quotidiano; uno di questi correlati – posso dichiararlo con sicurezza – è la neve del “Giardino delle Rose” in quella meravigliosa favola, che per tutti noi in paese ebbe come protagonisti prima Aurora e Riccardo, e ora il piccolo Matteo: il frutto di una colpa, certamente, ma non solo, se riusciamo a spezzare le catene di quelle fragili teorie: a me basta ammirarlo come una vera forza della natura che sta vincendo – non chiedetemi perché e guardatevi da facili risposte – una gara dopo l’altra nello sci di fondo. A me basta questo: accettare ogni tanto l’invito di Riccardo e Aurora al ristorante vicino alla pista dell’Antico Mulino, tornato agli antichi splendori, e ammirare la potenza che sa esprimere nel suo corpo, nel suo passo spinta, nel pattinare con gli sci, nella perfezione e nell’armonia del gesto atletico quel semplice e simpatico ragazzo di un piccolo paese di montagna. Se poi volete avere anche la gratificazione di un sorriso, lasciatevi consigliare un piatto di salsicce e patate cotte alla brace. Apprezzate tutto così com’è. Non cedete a pretese illusorie e poi, quando Matteo si sarà aggiunto a tavola, stremato dall’allenamento, ditegli che il sangue da cui tutto è iniziato è quello buono. Poi, dopo aver pranzato, fate una pista insieme a loro due, in silenzio, godendovi quell’esperienza, lasciandovi invadere da quel paesaggio bianco dominato da una forza che per me è scesa proprio da lassù, da quelle cime del Catinaccio che paiono fragili, ma che evidentemente all’anima di due persone come tante qui in paese hanno saputo, in un modo o nell’altro, urlare stentoree. A me adesso basta questo.

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