Nam lacrimis nostris nisi ratio finem fecerit, fortuna non faciet: se la ragione non metterà fine alle nostre lacrime, ci penserà la sorte. Lo scrive Seneca per consolare Polibio, il potente liberto dell’imperatore Claudio, per la morte del fratello. Seneca nutre una convinzione e non la cela: esprime in questo testo con sentimento indubbiamente forte l’energia con cui un destino prefissato può guidare l’esistenza, un fato inteso come qualcosa contro cui è assolutamente impossibile e inutile combattere, qualcosa da accettare. Insomma, un Seneca che fa a botte con quel presunto precursore del cristianesimo che in modo goffo e ridicolo ci venne insegnato a suo tempo, ma che costituisce comunque un’interessante prova di come la rappresentazione dei fatti può imprimersi nella mente delle generazioni più dei fatti in sé e per sé. Ma la parte costruttiva del discorso consiste nel dichiarare che questa accettazione non deve essere il risultato di un processo fatalistico con intendimenti rinunciatari, bensì deve essere il prodotto di un esercizio attento e oculato dei mezzi della ragione. Poche righe prima Seneca aveva scritto qualcosa di molto più forte. Diutius accusare fata possumus, mutare non possumus; stant dura et inexorabilia: noi possiamo accusare il destino quanto a lungo vogliamo, ma cambiarlo non potremo mai; si opporrà in modo tenace e inesorabile. Il tutto viene argomentato con una lunga serie di inutili rimbrotti e infruttuose lamentele, che sottraggono tempo prezioso all’azione e alla riflessione su se stessi e sui propri vizi non sufficientemente curati, tema del resto profusamente svolto nel De brevitate vitae e in vari passi di altre opere. La conclusione è di quelle lapidarie, che toglierebbero la voglia di replicare anche al più provetto esperto di dialettica: lacrimae nobis deerunt ante quam causae dolendi. Le lacrime a noi verranno meno prima delle ragioni per cui abbiamo provato dolore. Queste ultime, dunque, resteranno e renderanno inutili le prime, perché nulla cambia di ciò che è scritto. Perciò la conclusione della consolatio consiste nel richiamo a Polibio al senso del dovere e della responsabilità nell’esercizio del suo ruolo pubblico. Troppo sbrigativamente si è inteso leggere in questa finalità quel doppio fine consistente nel volersi ingraziare il potente uomo di corte perché fosse annullata la sentenza che aveva confinato Seneca in Corsica, dove tra l’altro molti lo avranno anche invidiato e da dove scrive queste righe. Non intendo naturalmente negare che Seneca abbia avuto questo secondo fine, ma, avendo più volte letto e riletto questi passi, mi piace pensare che lo abbia fatto coniugandolo perfettamente e coerentemente con la propria visione dell’officium e del senso di responsabilità, che mutuava dalla frequentazione degli scritti dei pensatori stoici. Questo mi piace pensare. L’uomo non può riscrivere il proprio destino, ma deve usare la ragione per uniformare ad esso la sua esistenza. Se non pratica questo quotidiano esercizio, sarà destinato a piangere sull’inutilità del suo stesso pianto.
Ebbene, con un’amica si parlava in chat proprio di questo ieri sera. Anzi, per la precisione si parlava del destino e dell’amore, di come l’uno si coniuga con l’altro. Come ci siamo arrivati? È sempre un esercizio intrigante quello di capire come un dialogo a cena, una discussione, una conversazione a due, una chat arrivi a un certo traguardo dopo essere partita da un certo punto che non si ricorda mai bene quale fosse. Fu così che, giunti alla conclusione che esiste un destino e che piangere sul proprio dolore non serve a niente, proprio come Seneca scrive a Polibio, mi sono poi chiesto come fossimo arrivati a quella conclusione. Ed ecco che allora, ripercorrendo a ritroso la conversazione, scopro che l’irritazione mi ha condotto lì. Esatto, avete letto proprio bene: l’irritazione. Ero irritato. Sì, ero proprio irritato dal fatto che dall’altra parte del filo che collegava noi due conversanti ci fosse una persona convinta che l’amore prima o poi arriva, perché così è scritto anche negli astri. Per quanto non possa negare una certa curiosità da sempre per la questione dell’influsso astrale sulla vita, non ho mai avuto un vero interesse a indagarla, forse per mancanza di stimoli, forse anche per quella parte invisibile dell’educazione familiare che nella vita rappresenta un cordone ombelicale mai perfettamente reciso. Eppure a un certo punto mi sono irritato, quando ho sentito parlare di relazioni tutte capitate e tutte guidate per il verso giusto, proprio secondo quanto previsto dagli astri. Il motivo dell’irritazione è venuto proprio da questa lettura senecana, un testo preparato per i miei ragazzi di quinta, che mi ha indotto nella conversazione serale a riflettere su qualcosa che nella mia vita si è verificato, eccome, e che non riesco proprio a coniugare in nessun modo con questa fiduciosa e ottimistica convinzione che gli astri possano aiutare a guidare bene l’esito dei nostri passi. Due lime sorde: ciascuno andava avanti seguendo il proprio filo, senza che si potesse trovare un modo per venirsi incontro. Il mio punto di vista era questo: nella mia vita il destino ha guidato i miei passi proprio nella direzione opposta e, se gli astri e la loro presunta armonia, che organizzerebbe e darebbe ordine a tutto il creato e che non dovrebbe essere in disaccordo con i postulati cristiani della carità universale, avessero avuto una sorta di accordo e di armonia con questo destino, non mi troverei costretto a riflettere su quei temi che tanto spazio hanno nelle pagine di questo mio sito.
Non è difficile concludere che la riflessione di Seneca dà la sintesi di quello che sempre ho ritenuto e la lapidaria affermazione, divenuta con il tempo proverbiale, dell’epistola 107 a Lucilio Ducunt volentem fata, nolentem trahunt, il Destino guida chi lo vuole, trascina a forza chi non lo accetta, è per me qualcosa di talmente vero, reale, dimostrabile in tutti i modi possibili, che mai mi sentirei di metterlo in discussione, sulla base non di letture, non di teorie o ipotesi interpretative più o meno accademiche, ma sulla base della mia esperienza di vita, di quanto l’esempio della mia persona può offrire alla riflessione degli altri. Nulla cambia di ciò che è scritto. Lo disse il filosofo stoico Cleante, attivo tra IV e III sec. a.C,, lo cita Cicerone, lo riprende e lo fa lapidariamente suo Seneca in un contesto di una tale chiarezza espositiva che non lascia margine a equivoci. E nemmeno la lettura del quinto libro del De civitate Dei di Agostino, dedicato proprio al tema della provvidenza, riesce, per il momento, a convincermi, perché quell’esercizio della libertà e della volontà dell’uomo, che il vescovo di Ippona tanto valorizza nel proprio pensiero, non ritengo che sia una prova della prescienza divina, ma, al contrario, della possibilità che ha l’uomo di accettare o no quanto già scritto per lui. E lo ripeto, non dico questo sulla base delle letture e degli studi; lo sostengo sulla base di una memoria di vita e di un vissuto individuale che si distende e s’imprime su una grande e preziosa pergamena lunga mezzo secolo.
Decisamente forte il contrasto con quanto l’amica ha sostenuto in modo convinto. Ma è in quel momento che il Fato agisce. Ti viene una strana idea. Nella maschera di ricerca del computer scrivi “Destino”, poi selezioni Immagini, poi lo correggi in inglese, “Destiny”, cambia una sola lettera, ma cambia un mondo. E quel Destino allora mette davanti alla tua anima un disegno di Klimt, un nudo di donna, un’opera che l’archivio della ragione non sa in quale sezione di protocollo collocare, né tanto meno saprebbe dire perché sia saltata fuori. Informandoti su quel disegno trovi un testo forte, una lettera in tedesco con parole che ti penetrano direttamente nel cuore e hanno un curioso potere di mettere in moto quegl’ingranaggi dell’anima che sembrava non aspettassero altro. Grazie a quell’immagine ti rendi conto che proprio dalla ricchezza di questi contrasti si può apprezzare la meraviglia dell’amore, esattamente come si trovò a dover considerare in quella lettera Gustav Klimt, quando, di fronte allo splendore ammaliante dei mosaici di Ravenna, non poté non riflettere sulla miseria e sulla povertà che li attorniava, appena fuori dagli edifici che li contenevano. Il destino conduce anche a questo: a desiderare l’amore come un fine che affascina e strega, ma senza avere alcuna idea, se non puramente spirituale, di quale sia il mezzo con cui si possa raggiungere quel traguardo. Il Fato lo sa. A te non compete saperlo. A te compete lottare contro tutto quello che lui ti mette intorno per impedirti di saperlo. Ma dentro uno scrigno antico, dentro una piccola bomboniera, dall’aspetto esteriore anonimo e quasi decadente come il mausoleo di Galla Placidia, si può aprire per te un universo di emozioni che non sai mai dove ti possono portare. A me piace pensare che l’amore sia questo: un agone continuo per conquistare qualcosa di idealmente perfetto proprio là dove mai ti aspetteresti di trovarlo, proprio là dove lo spirito entra in armonia con il destino. Ma sta a te conquistare questo premio. Leggendo Seneca, meditando su Agostino, ma con gli occhi distratti da un disegno di Klimt, mi sono sentito su una strada che potrebbe anche essere quella giusta. Tre stimoli diversi, ma straordinariamente complementari tra di loro. Non posso dirlo ai ragazzi domani in classe. Ma a me piace non dimenticarlo. A me piace che resti una traccia di questo ennesimo sogno meraviglioso.
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