Se certa letteratura, spesso di moda, viene definita distopica, Hotel Silence di Auđur Ava Ólafsdóttir (Einaudi, Torino 2018, ed. or. del 2016), che quando uscì ebbe un grande successo, lo definirei atopico. Tra le tante definizioni che i recensori hanno dato la più diffusa è sicuramente quella di romanzo poetico, soprattutto per lo stile originale della scrittura. Ma la definizione di atopico forse rende ragione degli spazi narrativi in modo più rispettoso della finalità della scrittura.
Jonás, abile a lavorare con le mani e a riparare tutto, parte per mettere fine a una sua prima vita, dopo aver saputo che l’unica persona rimastagli, la figlia, non era in realtà figlia sua, e ne ricomincia un’altra nel luogo più improbabile che un islandese possa immaginare, un luogo altro in tutti i sensi, un paese su un mare placido, diversamente dal grande oceano a lui noto, un paese in uno stato appena uscito da una guerra civile, diversamente dal suo che non conosce guerre da quasi un millennio, un paese dove il dolore è tutto nei corpi devastati e mutilati dalle mine, diversamente dal suo dove ci si suicida per la noia. Ci arriva senza bagagli, solo con un trapano e un gancio da attaccare al posto del lampadario per appenderci se stesso. Ma quel trapano servirà ad altro, inaspettatamente: servirà a ridare una fiducia a persone che l’avevano smarrita. La ditta di riparazioni Gambe d’acciaio srl, che aveva lasciato alla figlia partendo dalla sua terra, riprende anima per fare le protesi delle vittime delle mine lasciate dalla guerra in quello d’elezione. Il libro risulta alla fine un canto alla gioia di vivere messo sulle labbra di una persona paradossalmente intenzionata a morire: questo è di certo il punto di forza che ne ha decretato il successo. Jonás è una meravigliosa metafora della possibilità di rinascere, quando tutto apparentemente ti è crollato addosso, quando ti rendi conto di quali e quanti siano i veri dolori dell’umanità, arrecati da una guerra. Jonás dà un calcio a un mondo dove tutto è sano e pulito, tutto è ordinato e preciso, per ritrovare se stesso in un altro devastato dalla guerra, dal disordine, dalla quotidiana precarietà, dalla necessità di arrangiarsi. Questo è Hotel Silence.
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