Due famiglie, un problema … e un capolavoro letterario

Tra i consigli che capita di dare a giovani che vogliono iniziare a scrivere e raccontare qualcosa vi è quello, tanto convenzionale quanto stupido, di dover per forza creare una tensione tra i personaggi. Sbagliato. La tensione non la deve creare l’autore. Se proprio necessario, si genererà da sé. Lo dimostra bene La cena di Herman Koch, senza dubbio una delle penne migliori attualmente in attività in Europa, che si gioca proprio su questa tensione che è sempre nell’aria, ma solo in parvenza. Due fratelli, dal destino diverso, uno insegnante, l’altro politico, uno più impulsivo e sanguigno, l’altro più calcolatore, e le rispettive mogli, con le quali il primo ha un rapporto più schietto, in cui litigi e riconciliazioni si susseguono come nella vita di tante coppie, l’altro invece è come se si accontentasse di una bella presenza al proprio fianco, da rappresentanza ufficiale, anche in un’occasione informale come una cena in famiglia con il fratello. I due caratteri sembrano in tensione, ma qualcosa accomuna i due uomini: i loro figli hanno malmenato a morte una donna senza fissa dimora che dormiva in una cabina telefonica, sono stati ripresi da telecamere, ma non possono essere chiaramente identificati, finché non arriva un nuovo filmato postato in rete. Allora scatta il meccanismo difensivo: sono i nostri figli e vanno protetti, per l’uno perché sente il bisogno di ricomporre il clima in una famiglia in difficoltà, per l’altro perché è candidato alla carica di nuovo primo ministro. E questo unisce tacitamente le quattro persone in una serie di complessi linguaggi in codice, perché tutte sanno, ma nessuna sa quanto conosce l’altra. Un romanzo psicologico a tutti gli effetti, in cui l’architettura della narrazione, scandita dalle fasi della cena che sono le parti del libro, da Aperitivo a Mancia, determina un groviglio di andirivieni nel tempo, in cui solo la maestria tecnica di un buon prosatore non lascia smarrire il lettore.

Herman Koch, La cena, Neri Pozza, Vicenza 2010

Macao e Hong Kong … e la meraviglia del vizio

Leggere un libro ambientato tra Hong Kong e Macao, relitti coloniali dal destino molto diverso, separate dalle acque di uno stesso specchio di mare, nei giorni in cui Hong Kong è al centro della cronaca rimette in modo strani meccanismi della memoria. E il fatto che il protagonista Lord Doyle sia un nobile inglese, che diremmo decaduto, con il vizio del gioco e quello del piacere che dovrebbe edulcorare i dolori del primo, fa il solletico a quella memoria e richiama in superficie un mondo che teoricamente non dovrebbe esistere più per noi che ne viviamo quasi agli antipodi. Eppure quel lascito vive ancora e vivono sempre di più quelle case da gioco, con tutta l’umanità che attorno ad esse e grazie ad esse vive. Una complessa figura di donna squillo cinese, buddista, affianca Lord Doyle, lo salva, appare e scompare, ha una storia con i suoi segreti. Lei, più che il protagonista, forse ci potrebbe aiutare a capire quanto la Cina di oggi cammini veloce e sfugga ad ogni frettolosa definizione. Cosa resta alla fine? Una riflessione, cruda ed essenziale, sul fascino del piacere e dell’effimero, senza orpelli, senza giudizi, come è giusto che sia per un narratore inglese che in quell’Asia è nato e in quell’Asia è vissuto.

Lawrence Osborne, La ballata di un piccolo giocatore, Adelphi, Milano 2018

Donne d’America

Una bambina scomparsa. La sorella fugge per cercare chi l’avrebbe uccisa. Una madre perdente che ha rinunciato al ruolo e lo ha lasciato a un’altra madre, adottiva. Una roulotte come casa. È l’America che si dice ‘profonda’ quella che riveste il ruolo di quinta dietro alle esistenze fin troppo probabili di queste donne e delle persone che attorno ad esse agiscono: uno spazio narrativo in cui quello che per tanti sarebbe miseria diventa realtà quotidiana, oltre la quale nessuno chiede di andare, perché sogni e desideri s’infrangono nella paralisi delle ambizioni. Può non piacere che la società nell’epoca della modernizzazione avanzata sia arrivata a questi traguardi, soprattutto a noi che di quella società nordamericana abbiamo una particolare idea. L’America che sognavano i nostri immigrati, quella che con il cinema di Hollywood, la Coca Cola, la musica e i jeans ha costruito e quasi uniformato i comportamenti di un secolo, quella che con il dollaro e la lingua inglese ha dettato legge nei mercati e nella comunicazione è molto lontana dall’America che è forse il vero tacito protagonista di questo romanzo della canadese Courtney Summers. In questa narrazione non si comprende mai bene se hanno ancora un significato quelle strutture che non si dovrebbero mai insegnare a scuola, ma in cui tanti di noi purtroppo sono cresciuti: non esiste uno schema dei personaggi, nemmeno il classico rapporto tra fabula e intreccio. Di più: alla resa dei conti, il protagonista diventa proprio il nulla che riempie le vite di persone sostanzialmente smarrite, un ambiente costituito da uno spazio narrativo senza confini. Quello che resta alla fine della lettura è, infatti, il tono crudo di questo romanzo, che sembra come una pasta cotta troppo al dente: sembra non andare giù, ma quando lo fa ha più sapore; il suo stile originale, che non calca mai la mano nel tratteggiare questo o quel personaggio, non concede nulla al macabro, ma sa rendere incisivo e di immediata percezione lo squallore di esistenze che non riescono a cercare altro che quello che vedono intorno a sé.

Originale il doppio canale narrativo del podcast radiofonico in cui da una parte l’io narrante, il giornalista West McKay, riceve nel suo studio di New York la chiamata disperata di una donna, la madre adottiva di Sadie, la ragazza scomparsa dopo la morte in circostanza oscure della sorellina Mattie, che al giornalista appunto chiede di ritrovarla; dall’altra si segue la storia di Sadie alla ricerca di chi avrebbe potuto uccidere la sorellina, anch’essa in prima persona. Sadie è un personaggio al contempo di rara dolcezza nel rapporto con la sorella e di straordinaria energia nella ricerca di chi l’ha uccisa. Un personaggio riuscito alla perfezione: una ragazza che una grave balbuzie ha sempre costretto a fare i conti con una comunicazione e una relazionalità in cui nulla è mai scontato, a partire dal momento in cui deve ordinare un caffè al bancone del bar di un’area di servizio, ma la voce non ne vuol sapere di uscire e allora preferisce afferrare nervosamente un menu e indicare l’articolo con il dito. Sadie, lasciata la madre adottiva, viaggia attraverso centri abitati di un’America profonda dominata dalla perdita di quello che non saprei come chiamare se non il senso della vita, in cui l’amore esiste nelle poche e minimali forme lì possibili, in cui non si comprende nemmeno dove corra la linea di confine tra normale e perverso, in cui chi abusa di minori fa parte di gruppi protetti da diffusa omertà e paura, in cui droga e alcool, vita in roulotte e motel fatiscenti, aree di servizio usate come centri di spaccio e fumosi fast food, famiglie sgangherate e persone la cui disperazione diventa normalità, violenza e amore, tutto questo rappresenta uno sfondo che tale non rimane nel corso della narrazione, perché alla fine è proprio da lì che perviene al lettore il messaggio forte e chiaro; e la storia di Sadie in questo mosaico è solo una tessera, quella centrale finché noi leggiamo il libro, una delle tante quando lo avremo finito. Eppure, nonostante questo fardello di dolore e miseria morale e materiale, la narrazione non manca mai di perdere di vista la dolcezza dell’amore che lega Sadie alla sorellina e la complessità della figura della madre naturale Claire, altro personaggio ben tratteggiato, sempre su un fianco del racconto, in disparte, ma sempre presente. Sappiamo bene che non è da tutti riuscire a scrivere su due binari che devono sempre restare paralleli. La Summers lo fa.

E veniamo al punto forte del libro: l’uso della parola. Siamo abituati allo stile della letteratura anglosassone e a cercare conferma di quel cliché che la vorrebbe più concreta della nostra, meno disposta a concedere al virtuosismo tecnico, più diretta, più fatti meno fronzoli. Ebbene, sì. Possiamo dire che la Summers in questo rispetta in parte il cliché. Ma non mi accontento di adagiarmi su questi canoni triti e ritriti e mi sento di dover aggiungere una riflessione. Quanto alla scrittura del libro, infatti, sostenere che è originale non è sufficiente e sarebbe anche banale per il recensore: l’impressione che lascia è di avere il raro potere di imprigionare i sentimenti e di farti sentire in colpa quando viene chiuso. Raramente mi capita di tornare all’inizio di un libro, dopo averlo letto. Questa volta l’ho fatto. Non chiamiamola letteratura young adult. Basta con queste sigle. Narrativa: punto. Di buona qualità.

Courtney Summers, Sadie, Rizzoli, Milano 2019

Il leccio di Teresa

In una terra antica i cui ulivi hanno radici che sono come braccia che, protendendosi dal suolo, non ti vorrebbero mai lasciare andare, vicina a un mare che nella stagione estiva sembra sentire proprio dei turisti, non suo, in una masseria dove nasce e muore un’utopia giovanile, tra sogni e fantasticherie da una parte, amare delusioni e gravi errori dall’altra, si distende la vicenda di Teresa. Quella terra dà vita e per questo Teresa la ama a tal punto, che tutta la narrazione sembra pervasa dall’ossessivo desiderio di una maternità, di avere un figlio a qualunque costo, a lungo atteso e sempre negato, un figlio che possa nutrire lo stesso rispetto verso la terra che lo ha generato. Tre ragazzi, diversi nelle origini, ma che un sogno comune unirà – nient’altro che l’utopia di tanti giovani di vivere in un ‘mondo migliore’, si potrebbe dire senza temere di scadere nello scontato – s’intrufolano nel racconto, ancora ragazzini, entrando furtivamente di notte nella proprietà del babbo di Teresa per fare il bagno nella piscina, mentre lei li vede dalla sua camera; tutti e tre insieme combattono contro un destino, formando intorno a Teresa una corona di sentimenti dolci e irruenti allo stesso tempo, come dolce e irruento può essere il vento che bagna e inaridisce quella stessa terra, come dolci e irruenti sono i caratteri degli altri personaggi che imprimono nel bene o nel male una direzione al destino di ciascuno di loro. Quei tre ragazzini, che di notte entreranno nella piscina del babbo di Teresa, segnano tutti a modo loro la vita della ragazza, con l’amicizia, con l’amore, che è soprattutto amore per la vita. Bern e suo fratello Tommaso portano le stigmate del disastro della famiglia in cui sono nati, dell’istituto da cui lo zio Cesare li ha presi in affidamento per farli crescere insieme al figlio Nicola, come fratelli, in un clima pervaso da una spiritualità non convenzionale, dal significato atavico di una tradizione che ha il sapore amaro e il carattere rude della terra e fa a botte con quello dei riti del calendario; il luogo che costituisce l’anima di questa narrazione è una masseria attigua alla casa in cui i genitori di Teresa trascorrono le loro estati, che passerà nelle mani di lei, che a sua volta con i soldi ricavati dalla vendita della casa che fu dei genitori acquisterà la masseria stessa, il teatro dell’utopia, dei sogni, delle delusioni, delle tragedie che scandiscono il ritmo della lettura. La forza dei personaggi sta nella loro differenza. La riservatezza di Nicola, le contraddizioni di Bern, le debolezze di Tommaso, l’energia di Teresa sono i punti di partenza di un racconto ricco di tensione dall’inizio alla fine, in cui il dolore e la tragedia fanno da contrappunto costante e immancabile all’amore. Se alla fine di tutto resterà soltanto un leccio e un libro sepolto sotto di esso, nella terra a cui le radici tengono abbarbicato quell’albero, da cui Teresa sente di non potersi separare (perché con gli alberi ci viene ricordato che si può instaurare un dialogo), se alla fine la prosa troverà la sua serenità solo dopo aver espiato dolori e tragedie, la risposta è solo in un sentimento che non avrà mai un nome, ma che, senza dubbio alcuno, non rispetta le regole della ragione. Dogmi religiosi e politici, utopie sociali e ambientali, tutto evapora nella canicola di quelle terre, tutto si disintegra di fronte alla tenacia di uno spirito che altri definirebbero indomito, ma che il personaggio di Teresa, alla resa dei conti, sa domare nel distendersi finale della prosa. Paolo Giordano con il suo Divorare il cielo dona ancora emozioni e raggiunge questo obiettivo tratteggiando caratteri forti, energici, giovani, che si ricaricano pagina dopo pagina, proprio grazie alla tensione tra i poli opposti, grazie alle sincere e incorreggibili contraddizioni di cui vivono e per cui scontano, per un destino in un certo senso inevitabile, per una necessità che non riceve una spiegazione, tutte le conseguenze, nessuna esclusa, senza potersi sottrarre nemmeno alla più tragica. Il mistero della vita, cioè la deliberata volontà di non dare una spiegazione e di lasciare che i personaggi traggano forza proprio da questa contraddizione insoluta che anima il racconto fino all’epilogo, ne esce ancor più monumentale. Alla terra, a un leccio e a un libro sepolto ai piedi di quel leccio e inumato in quella terra è affidato il compito di dialogare con Teresa. Capire che questi segni, che sembrano semplici, sono invece immensi e pervasi di un’energia capace di devastare e rasserenare una vita forse non è alla portata di tutti. Sicuramente non alla mia.

Roba da gatti

La curiosità è roba da gatti, si dice. Luogo comune quanto si vuole, ma vero in modo sacrosanto. Ebbene, la curiosità mi ha messo tra le mani Diario di un cinico gatto di Daniele Palmieri (Salani 2018). E sentirsi un po’ felino, non fa male dopo averlo letto: può essere un effetto collatetale. Un appetitoso e ironico diario che prende la forma di un vero e proprio romanzo di formazione e di viaggio nella seconda parte, per me la più bella, più coinvolgente, perché avventurosa, perché scritta bene, perché narrata avendo sempre come punto di vista un gatto. Non deve essere stato semplice. L’espediente, alla resa dei conti, dà il suo buon frutto, sotto vari punti di vista, nonostante le dimensioni del libro siano tali da non scoraggiare sicuramente il lettore appassionato e allenato, ma da non attirare immediatamente quello più giovane, a cui questo libro potrebbe piacere. Lo consiglierò ai miei studenti sicuramente. Ho parlato di un buon risultato sotto vari aspetti. Quali? Innanzitutto l’ironia che, se ben trattata e dosata – il lettore esperto lo sa – mantiene sempre alta l’attenzione; poi il punto di vista del gatto, che la scelta della prima persona e dell’andamento solo vagamente diaristico (il titolo svia forse volutamente?), obbliga a conservare fino alla conclusione; infine, l’attenzione ai comportamenti dell’uomo, a quegli ‘stupidi umani’, che, pur essendo figure marginali nell’economia narrativa, finiscono per conferire al libro l’aspetto di una sorta di breviario di filosofia, almeno perché evitiamo tanti errori, di cui molti di noi neanche si accorgono, non cadiamo in certe generalizzazioni e luoghi comuni, proviamo a pensare anche con gli occhi di qualcun altro che fa parte come noi di questa bellezza che si chiama anche biodiversità. Ho due gatte (quelle in foto) e questo sicuramente è un aspetto che mi mette dalla parte del recensore condizionato nelle sue valutazioni, ma vi assicuro che per apprezzare questo libro non è necessario averli. Anzi … Non solo: quelle due gatte che per dormire si acciambellano una sull’altra potrebbero sfatare proprio uno di quei luoghi comuni che vorrebbero il gatto asociale e solitario, uno di quelli che questo libro considera aspetto del carattere individuale. Delicatissime e di rara sensibilità le pagine dedicate ai tre mostri, gatti isolati perché affetti da deformità fisiche. Insomma un libro che, dietro la sua parvenza di racconto per tutti, ironico, semplice e un po’ cinicamente disincantato, alla resa dei conti finisce per avere persino delle pretese quasi (la sparo grossa!) educative. Nei tanti gatti che appaiono come personaggi del libro si possono, infatti, vedere riflessi, con uno stile assolutamente riuscito sul piano della scrittura, le varietà dei tipi umani che quel viaggio che si chiama vita ci fa conoscere e incontrare. Ed è bello che il romanzo si concluda con una profonda riflessione, che lascio a voi godere, proprio sul significato dell’incontro.

Le peste sulla neve non andrebbero mai cancellate

Se vi dovesse capitare di vedermi sorridere “sotto i baffi” (che non ho), come dicono alcuni miei amici e colleghi, quando sento qualcuno parlare di montagna e dire che ne è un appassionato, perché ci va in inverno a sciare o in estate a fare passeggiate, escursioni o scalate, non pensate che lo faccia per snobismo intellettualistico; la stessa cosa vale per quando vi dico che dovreste prima leggere qualche opera di Mario Rigoni Stern, soprattutto i racconti. Se mi comporto così è perché non trovo parole per dire che quella persona che sceglie l’albergo su internet è lontana anni luce dalla ‘passione’ per la montagna. Dovrebbe dire che le piace sciare nelle vacanze natalizie o nelle settimane bianche (sostituite ormai dai fine settimana di un turismo usa e getta, più economico ma anche più dannoso per un ambiente che diventa fragile solo se vissuto senza rispetto), che le piace fare escursioni e passeggiate nelle vacanze estive (ridotte anch’esse a pochi giorni di strade intasate, non pensate per reggere un traffico di tale entità). Passione, per me, è ben altro. Una caduta in bici in discesa, che ha riesumato nel corpo zombie di un passato destinato a non passare, non mi ha fatto odiare la montagna; al contrario: mi ha indotto ad amarla ancora di più. Perché? Esiste una risposta? Non lo so e non pretendo di averla. Una cosa potrei aggiungere come una specie di prologo a quanto poi vi dirò. Ho sempre pensato che avere un cinquanta per cento del mio sangue con il sapore terragno della bassa ravennate e l’altro cinquanta per cento con quello montano del versante fiorentino dello stesso Appennino, su cui da tempo scorrazzo in bici da corsa o sul rampichino, abbia lasciato delle tracce, sin dagli anni della mia formazione, che con quella stessa Toscana hanno un importante debito, in tutti i sensi. Se a queste persone dico di leggere le opere di Mario Rigoni Stern “e poi ne riparliamo”, vi assicuro che non è certamente per snobismo intellettualistico. Credetemi. Fidatevi di quel che vi dico. Ho conosciuto di persona lo scrittore e chi qualcosa sa di lui non ha bisogno di ulteriori spiegazioni.

Ecco perché rileggere a distanza di tempo e tutto d’un fiato le due raccolte di racconti Il bosco degli urogalli (1962) e Uomini, boschi e api (1980) e scoprire Aspettando l’alba (2004) non serve solo per apprezzare uno stile del narrare decisamente particolare nella sua disarmante semplicità; non serve neppure soltanto per chiedersi se l’autore, quando scriveva, davvero pensava in italiano e non in cimbro, l’antica lingua di origine germanica parlata nel vicentino altopiano di Asiago, in quelli trentini di Luserna, Folgaria e Lavarone e nella Lessinia veronese. Riterrei piuttosto che sia utile soprattutto per colmare una lacuna, su cui la scuola ha sicuramente una sua responsabilità: Rigoni Stern non è soltanto l’alpino cantore della ritirata dalla Russia, della guerra in Albania e Grecia, dell’umanità che descrive sconvolta da quella stessa guerra. Questi racconti rappresentano nel modo più immediato (perché autenticamente vissuto) l’amore infinito per una terra che ha sofferto, per montagne due volte insanguinate, per una natura che – lo dichiara testualmente – solo un cacciatore esperto sa amare e rispettare. Apprezzo Rigoni Stern molto di più quando manifesta il suo amore per questo paesaggio, che quando soffre per quanto patito in guerra. Ammiro di queste pagine il momento in cui il narratore raffigura come protagonista un capriolo che, inseguito da un’auto su una strada appena pulita dallo sgombraneve, non riesce a saltare nel bosco perché i cumuli di neve sui lati sono troppo alti per lui e rischia di essere investito; quando primadonna della narrazione è un leprotto che visita le radure sotto casa; quando si commuove per il suo cane che accoglie nel caldo della sua cuccia altri animali e li protegge dal gelo dell’altopiano; quando vive il rapporto con il suo cane come quello con un compagno di vita; quando il simbolo di una vita diventa la pietra muschiata fatta rotolare sulla fossa del cane che lo lascia dopo anni di onorata compagnia; quando una giornata di “buiofuori”, blackout, ossia di mancanza di corrente che l’interruttore generale non potrà ridare alla casa, fa riflettere più di tante altre cose sul significato del progredire, e non solo facendo riscoprire candele e stufe a legna; quando le pale del Bassano diventano le vere animatrici di una lettera in cui si rivive del pittore veneto del XVI secolo il rapporto stretto con quell’altopiano da cui veniva la sua famiglia, con le montagne, con i paesaggi, con i boschi e le api che non cambiano allo stesso ritmo che la tecnologia ha imposto alla vita umana; quando, alla fine di tutto questo, ci si convince che leggere i racconti di Rigoni Stern non è assolutamente la ricerca di uno sterile compianto nostalgico per qualcosa di finito, come purtroppo tanti vorrebbero. Al contrario: è il monito a ricordarsi che quello che noi giudichiamo finito è quanto mai vivo in noi, e lo sarà finché quel paesaggio, quei monti e quelle cavedagne, quei boschi e quelle api, quelle lepri e quei caprioli, quei cani da caccia e quelle cince dal ciuffo saranno lì a rammentarcelo, monumentali protagonisti di una narrazione che cattura e ti tiene lì con il libro attaccato alle mani come le radici un pino alla terra sabbiosa di un litorale. Si tratta di un altro Rigoni Stern, non tanto diverso ma complementare rispetto a quello della guerra e degli uomini sofferenti, che la scuola fa conoscere agli studenti e che per questo è decisamente più noto. Ma il lettore appassionato non sarà mai deluso da questi racconti meravigliosi. Adesso avete capito cosa significa quando dico “prima di dire che amate la montagna, leggete Mario Rigoni Stern” e non solo quello delle memorie militari; e allora capirete come mai da quell’altopiano non si sia mai spostato, neanche quando agli ambientalisti che lo vollero proporre come senatore a vita disse che non avrebbe mai lasciato le sue montagne “per uno scranno in parlamento”, anche quando, ormai distrutto dal male, chiese di essere riportato per l’ultima volta lassù dove sempre era vissuto. La nonna ed io, ancora ragazzino, eravamo seduti su due poltrone affiancate, quando lei un giorno ricordò una frase che il nonno diceva spesso: “Le peste sulla neve non andrebbero mai cancellate.” Credo che sia proprio vero. E quando dico ai miei studenti che tra lettura e lezione non dovrebbe mai esistere un solco, sono consapevole del fatto che dico qualcosa di fondato. Fondato, perché scolpito in una traccia che dentro di noi resterà indelebile, che la forza del sole non scioglierà mai, come le peste sulla neve nei racconti di Mario Rigoni Stern.

Figure dell’ombra

Vienna, Londra, il fronte occidentale, Ginevra, ancora Londra: sono questi gli spazi narrativi di Aspettando l’alba di William Boyd (Neri Pozza 2012): uno studio di uno psicanalista e una trincea sul fronte occidentale, teatri londinesi e pensioni ginevrine, luoghi pieni di vita e di passione e altri dove i cadaveri generano incubi e sensi di colpa. Erotismo spensierato in ambienti alla moda, case di campagna che potrebbero essere dipinte da Bonnard, dove agiscono figure che sembrano quasi eteree, e squallore spietato in uomini la cui vita non conosce scrupoli e vive in ombre che hanno però la forza di quelle di un quadro di Sironi. Gli anni sono quelli della guerra. La prima guerra mondiale. Uno stile che inizia come quello di un romanzo psicologico e finisce come una spy story, senza che gli si possano attribuire gli elementi né dell’uno né dell’altro. I personaggi dall’ombra escono piano piano alla luce attraverso i loro abiti e le loro parole, i loro gesti e i loro tic, i loro profumi e le loro pistole, i loro cappelli e i loro fucili. Due anni, dal 1913 al 1915, che intendono rappresentare un’epoca, forse – la parola è impegnativa, lo so bene – una civiltà, che vive più che la guerra, ancora la sua ombra, sempre lì accanto, onnipresente, inevitabile, indelebile; una società narrata conoscendone molto bene i dettagli, presenti in un lessico che richiederà sicuramente, almeno per qualcuno, di andare a rispolverare il vocabolario, ma senza che si avverta mai quel sentimento di virtuosistica e superficiale esibizione, che potrà generare effetti speciali, utili sicuramente per i siti di citazioni, ma che non coinvolge mai più di tanto il lettore esigente ed esperto. Il modo di fumare, i capi d’abbigliamento, i giochi di seduzione … tutto contribuisce a sentirsi parte della narrazione, come si dice di solito agli studenti quando si vuole evidenziare la maestria nella tecnica e nello stile. Non cado nella trappola: lascio ovviamente a voi questo giudizio. Il protagonista è un giovane inglese, che da dandy e attore, nel contesto un po’ malinconico ma sempre affascinante della decadente Vienna dell’Austria Felix, la guerra trasforma in un uomo cinico; cinica e anche sadica spia diventa Lysander Rief, che non manca di provare la trincea e il fronte, il cui passaggio segna proprio il cambiamento del ruolo del personaggio nello svolgersi di una trama dal ritmo veloce. Cambia il ruolo, ma non cambia lui. Dalla luce del palcoscenico passa all’ombra delle pensioni svizzere, dove si sente il fetore del fango di una palude in bassa marea, il peggio del peggio che la guerra produce: un marciume di soldi, tanti soldi, donne che si prestano a tutto per passare informazioni, inglesi, tedeschi, uomini e donne dell’una e dell’altra parte, che vendono se stessi e le proprie conoscenze per denaro, vicende personali che si intrecciano con una ragion di stato che ora chiede anche sangue e non solo denaro. Il protagonista è una persona che con la sua vita nell’ombra conosce donne, figure fondamentali nello sviluppo narrativo, tutte dotate di un fascino sempre diverso, ma di cui non si potrà mai dire se il loro ruolo di personaggio è quello di essere lì perché belle piuttosto che abiette. Donne grandi, perché anch’esse avvolte dall’ombra in cui si dipana la trama. Di quell’ombra tutte quante vivono. “Mr Lysander Rief è con ogni evidenza un uomo che preferisce i bordi ai margini delle strade, le zone buie, dove è difficile distinguere e stabilire con esattezza la natura di cose e persone. Mr Lysander Rief sembra un uomo molto più a suo agio nella fredda sicurezza dell’oscurità; un uomo felice del dubbio conforto che offrono le ombre”. In queste ombre avviene una metamorfosi. Ciò che la produce è la guerra. Le figure femminili, tutte, dalla madre alle donne che accompagnano Lysander nella sua metamorfosi, sono forse la raffigurazione di quegli anni riuscita meglio sul piano stilistico. E dunque: impressione finale? Permettete a un recensore di dire “mi sono proprio divertito”?

© 2018. Stefano Tramonti

La Distesa Solitaria

Cogliere lo spirito di una terra è possibile solo se la si vive? Esiste un genius loci? Sì. Esiste. L’ho già più volte scritto ed io stesso lo cerco laddove possibile. Certo, si può vivere anche letterariamente una terra e darne al lettore un’immagine, appunto, soltanto letteraria e assolutamente fittizia. Ma non sarà mai la stessa che vi può dare una persona che quella terra ha calcato giorno per giorno, di cui conosce i modi di vivere, di cui riconosce le persone anche solo per il modo in cui vi salutano, per il modo in cui vestono, parlano, si divertono. E infatti l’Alaska che si delinea pagina dopo pagina ne Il grande inverno di Kristin Hannah è quello che sui libri di scuola si chiamerebbe un paesaggio dell’anima, un paesaggio che partecipa di una vicenda che nel suo incredibile intreccio di dolore rappresenta in modo perfetto sul piano narrativo sentimenti come l’angoscia e il patire; percezioni che derivano non da se stessi, ma dalla convivenza con loro di chi li deve subire nel proprio corpo e che è costretto ad alimentare in se stesso come serpi che si cibano a piccoli brani della sua anima. Gli anni Sessanta finiscono per la storia del Stati Uniti con il Vietnam e con le conseguenze che nelle anime tale conflitto ha lasciato. E questo, lo sappiamo, ha dato tanto alla cultura di quegli anni e di quelli immediatamente successivi. In queste pagine si dà un altro contributo. L’ex militare ed ex prigioniero di guerra, l’eroe pluridecorato Ernt Allbright ne esce sconvolto, distrutto, annullato e il suo sconvolgimento mentale avvolge un’intera famiglia, che a lui è legata da spire inestricabili e da lui non vuole proprio districarsi. Il dolore di Ernt avvolge in un amore insano l’affetto di Cosa e Leni, che lui odia amando e che loro amano odiando. Un crescendo di situazioni drammatiche in un paesaggio limite, dove nessuna delle categorie che l’uomo moderno dà per scontate e acquisite posso avere un valore, dove la breve estate viene vissuta non come godimento e vacanza, ma come occasione per l’ansiosa raccolta di tutto quanto serve per un lungo e famelico inverno che ogni anno miete vittime, dove il vicino di casa deve essere per forza, ti piaccia o no, il tuo migliore amico, perché solo lui può salvarti da “mille modi in cui in Alaska si può morire”. Amore e dolore si avvicendano nel rapporto tra Ernt e la moglie Cora, tra Ernt e la figlia Leni, tra Leni e l’amico Matthew, due sentimenti che solo quel paesaggio riesce a rendere indistinguibili l’uno dall’altro. L’Alaska, la Distesa Solitaria, il paesaggio scelto da chi ha bisogno, come Ernt, di isolarsi dal mondo nemico e che vede il nemico ovunque, non appare come spazio narrativo solo nelle pagine iniziali e nelle pagine che precedono la conclusione. L’Alaska, necessità per Ernt, sogno per Leni e Cora, domina la scena con i suoi monti, le sue coste, i suoi ghiacci, i suoi inimmaginabili inverni, i suoi personaggi altrove introvabili, perché solo lì probabili. Questo è il punto di forza del romanzo, la cui trama tiene avvinto il lettore proprio per la capacità dell’autrice di disegnare sempre quinte mai inerti; quel ghiaccio uccide, quegli orsi e quei lupi condizionano le vita, quel buio che non finisce mai, che uccide piano piano e avvolge tutto è all’origine delle vicende che sconvolgono le vite di Ernt e di chi con lui deve convivere, la moglie Cora e la figlia Leni, le due figure femminili, due icone di un dolore di fronte al quale mai ci si arrende, che esse si trasfigurano in amore previa immancabile espiazione, che dominano la scena dall’inizio alla fine. Insomma, non mi sono certamente annoiato. Anzi. Kristin Hannah, Il grande inverno, Mondadori, Milano 2018, resterà il ricordo di un buon libro.

Abbarbicati

Resto qui di Marco Balzano (Einaudi 2018) racconta una storia di radici, di gente di montagna, di abbarbicati, che attraversano la guerra, che vivono una delicata realtà di confine, gente che soffre per quelle lacerazioni e per quelle divisioni su cui già per decenni si è scritto e che, in forme diverse, tutte le nostre famiglie in Italia hanno vissuto, metabolizzandole chi in un modo chi nell’altro, talora superandole, talora no. Dietro la vicenda di Trina c’è quella di un paese cancellato da una diga, di una storia che vede passare guerre, governi e ideologie totalitarie e altre che pretendono di presentarsi democratiche cambiando le forme a sostanze che restano quelle di prima, forme di potere ‘vissute dal basso’, dal punto di vista di semplici valligiani, forme di potere che nelle teorie politiche si dichiarano avversarie, ma che per i montanari producono alla fine lo stesso risultato: a Roma cambia chi comanda, ma gli amministratori, dopo la sosta della guerra, riprendono tutti i progetti di prima, come se nulla fosse successo. Cambiano le uniformi di chi fa rispettare una legge lontana, ma le tute da lavoro di chi realizza quelle leggi sono le stesse di prima. Il libro presenta una narrazione fluida dall’inizio alla fine, senza mai una caduta di tensione, senza mai scadere in eccessi, senza dover mai usare la tecnica dell’elastico della tensione che, se troppo tesa, occorre che sia allentata, perché l’elastico non si rompa; di forte impatto emotivo risulta la forma quasi epistolare che il racconto assume nel dialogo a distanza tra madre e figlia emigrata. Manca, nondimeno, un elemento per me. E chi ama la montagna e ha imparato negli anni a viverla avverte questa carenza. Non si può parlare di persone di montagna senza dimostrare di amare quel paesaggio in un modo diverso da quello del turista che di Curon oggi vede solo il campanile, che spunta dalle acque del lago di diga, il bacino artificiale che di quel paese ha di fatto cancellato radici secolari. E anche quella copertina, con la foto del noto campanile della chiesa del paese sommerso, purtroppo offre una sgradevole sensazione ‘turistica’, quasi da home page di un sito che pubblicizza vacanze. Si poteva graficamente fare di meglio. Quell’immagine appare in certo senso appiccicata lì, come se non si fosse voluto fare lo sforzo di trovare altro: quell’immagine non riesce a rendere la profondità del dramma di una comunità che noi, passando disattenti e distratti, sulla strada del passo Resia, meritiamo di conoscere come sicuramente Marco Balzano ha fatto prima di scrivere il libro (lo dichiara nella postfazione). La figura di Trina e quella di Erich, i paesani, i loro figli, i parenti, la vita del piccolo paese, la resistenza di Trina fino alla fine, il suo antieroismo che assume le forme di un eroismo più vivo di quello del più coriaceo e combattivo Erich, tutto viene raccontato attraverso personaggi ben caratterizzati, ma che si muovono su una quinta sostanzialmente inerte. Non dovrebbe essere così: quella quinta è un paesaggio vivo, quel paesaggio viene colpito e stravolto, quella valle viene completamente snaturata; meriterebbe uno spazio maggiore, diverso, più vivo e meno anonimo questo contesto ambientale, non foss’altro per il ruolo narrativo che svolge dietro e sotto tutta la vicenda. Un buon voto al libro, ma alla fine della lettura resta l’impressione che qualcosa manchi.

Non è bello esultare per la sconfitta della ragione, ma talvolta occorre

Saper scrivere mescolando stili e generi è cosa solitamente gradita al lettore appassionato di oggi. Matt Haigh lo fa in Come fermare il tempo (Edizioni e/o 2018): quello che ha come protagonista Tom può essere un esempio di letteratura di viaggio nel tempo, la presenza della società segreta degli Albatros e del personaggio, sicuramente ben riuscito, di Hendrich ne fa per certi aspetti una spy story; ma questo libro è anche una storia d’amore, un amore impossibile per la sindrome di cui soffre il protagonista costretto a lasciare l’amata Rose, un viaggio nel dolore alla ricerca della figlia Marion, affetta dalla sua stessa disfunzione, se vogliamo anche un romanzo storico, nel momento in cui il protagonista è costretto a vivere dall’età elisabettiana fino ai nostri tempi; ma il fatto che Tom sia insegnante di storia non è una scelta casuale, nella misura in cui il Tempo, che è il protagonista multiforme della Storia, diventa il vero referente delle pagine forse più dense e meglio riuscite di questo libro. E la sua professione gli tende quelle trappole che il senso di colpa puntualmente dissemina nella vita di ognuno: Tom deve parlare da professore di momenti della storia di cui è stato protagonista e che non ha dovuto studiare sui libri; e il modo in cui riesce a rendere viva la Storia non deve tradirlo. Questa è tra tutte le situazioni paradossali che Tom vive forse la più tragica. L’autore nella postfazione arriva, in questo contesto di paradosso in cui si vive inseriti sin dalla prima pagina, a parlare del libro quasi come se fosse il risultato di una seduta nello studio di uno psicoterapeuta. Una lettura plausibile. Sì, perché il libro affronta il delicato tema del valore educativo del tempo, della memoria, delle rispetto della differenza, di chi avrebbe qualcosa da insegnare ma non lo fa; e questa analisi avviene in modo profondo, rendendo il personaggio di Tom sempre più complesso e sofferente per questa sua condizione, che lui è costretto a vivere in modo sempre paradossale, sempre in bilico tra un presente che non prende mai forma e un passato ingombrante e doloroso che di forme ne ha fin troppe. Ed è per questo che vorrei che l’analisi del volume si concentrasse sul destino del protagonista condizionato dalla sindrome dell’anageria, invenzione letteraria che rappresenta il contrario della sindrome dell’invecchiamento precoce. Tom ha una possibilità che pochi possono avere, quella di vivere attraverso la Storia, fino al punto di poterla insegnare. La sua vita è come controllata da Hendrich, che nella prime righe presenta subito senza mezzi termini, con tutto il lessico del paradosso e con toni che oserei definire quasi pirandelliani, cosa significa soffrire di questa disfunzione, rivolgendosi a Tom: «Bene. Naturalmente hai il permesso di amare il cibo, la musica, lo champagne e i rari pomeriggi soleggiati di ottobre. Puoi amare lo spettacolo delle cascate e l’odore dei vecchi libri, ma l’amore per gli esseri umani è vietato. Siamo intesi? Non creare legami con il tuo prossimo, e vedi di affezionarti il meno possibile alle persone che incontri. Perché altrimenti finirai col perdere lentamente la ragione.” Tom dunque deve decidere tra l’amore e la ragione. Per secoli ha scelto la ragione, per secoli ha obbedito a Hendrich, per secoli è vissuto secondo la logica ferrea degli ‘alba’, incompatibile con quella dei comuni mortali, le ‘effimere’, arrivando a dover abbandonare la donna che aveva amato, un’effimera, e la figlia che aveva avuto, un alba come lui. Un atto d’accusa a tutto il male che la superstizione nei secoli ha riversato su ogni persona che avesse una qualche carica di differenza. Lui non invecchia e come tale è differente, e questa sua natura differente ne fa, quasi automaticamente e senza alcuna possibilità di appello, una delle raffigurazioni popolari che il demoniaco può assumere nella vita; la madre che, facendolo nascere, lo ha reso affetto da questa disfunzione, è naturalmente una strega e come tale deve essere giustiziata. Si può cantare un inno alla differenza in tanti modi; Haigh lo fa attraverso l’invenzione letteraria del paradosso dell’anageria.

Insomma, per tornare al punto di partenza, questo libro intende percorrere una strada intermedia tra il romanzo psicologico e il romanzo d’amore, con inserti di altri generi, senza poter essere incasellato. Ed è un suo merito, evidenziato del resto da tanti altri che lo hanno già recensito. Ma quello che resta alla fine dopo questa lettura, composta di frammenti di memoria e di intersezioni nel passato, è proprio la riflessione sul Tempo, che nel suo aspetto paradossale di lungo viaggio nella storia termina con un elogio di un presente tanto effimero quanto inconsistente. Una sorta di sconfitta della ragione in nome dell’amore. Non so cosa succederà a voi dopo averlo letto; vi dico quello che è successo a me: ho ripreso in mano l’undicesimo libro delle Confessioni di Agostino.

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