Esattamente dieci anni fa tre uomini incappucciati dichiararono pubblicamente che l’Eta avrebbe rinunciato alla lotta armata, esattamente come sei anni prima aveva deciso l’Ira in Irlanda. Si apre la stagione di quello che dovrebbe essere il perdono, parola chiave per la comprensione del romanzo di Aramburu. È ambientato in un piccolo centro dei paesi baschi, non lontano dal tratto di costa su cui si trova San Sebastian; ha come protagoniste due donne, l’una madre di un terrorista in carcere e l’altra vedova di una sua presunta vittima. Attorno alle vicende di Mirén e Bittori quelle delle loro famiglie, dei figli, i cui destini diversi, i cui orizzonti diversi, i cui diversi dolori aprono al lettore un mondo solitamente ritenuto appartato, chiuso nel suo euskera, nella difesa di un’identità che troppo ha sofferto per le sovrapposizioni ideologiche che il contesto internazionale aveva per decenni consentito, anche palesemente appoggiato. L’ideologia in questa narrazione divide assai meno dell’invidia, dell’odio sociale, delle delusioni personali, professionali, passionali. Non abbiamo paesaggi, non abbiamo contesti esterni da analizzare, ma soltanto uomini e donne con la forza delle loro personalità, delle loro passioni, delle loro, spesso deluse, aspirazioni; e con loro le diverse sfaccettature che il dolore assume, sempre alla ricerca di un traguardo che appare impossibile, come è appunto quello del difficile perdono. Non è facile chiedere aiuto quando si ha bisogno, si sa; ancor più difficile è perdonare quando il complesso di motivazioni che ha portato alla rottura non riceve la stessa interpretazione dalle due parti in causa, peggio ancora quando ci si chiede persino se ci siano delle reali motivazioni. Non so se a questa domanda la lettura del volume potrà dare una risposta, sicuramente il tentativo di pervenire al traguardo non può non essere apprezzato.
F. Aramburu, Patria, Guanda, Milano 2017
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