Eros e follia: binomio perfetto

Da tempo desideravo leggere Un amore senza fine di Scott Spencer, del 1979. Un classico, si dice. E lo è. Come al solito, i pareri discordi mi hanno convinto. Un libro che fa parlare di sé in tanti modi diversi è un vero libro. E così mi sono sprofondato nella vicenda narrativa di Jade e David e del loro fuoco d’amore. Sì, fuoco: perché da un incendio, quello appiccato da lui diciassettenne alla casa di lei e della sua famiglia, tutto prende avvio. E un vero incendio di sentimenti avvolge il lettore dall’inizio alla fine, circondato dalla vacuità di tutto il resto, persino nel vuoto di valori di un contesto in cui anche la politica, quella delle grandi infatuazioni che puntualmente delude, viene meravigliosamente derisa. David, figlio di attivisti della sinistra anni Sessanta che non sanno essere genitori e non sanno farsi amare da lui, è attirato proprio dalla famiglia anticonvenzionale di Jade. Ma questo rapporto di amore sarà segnato, come da una sorta di peccato originale, proprio dall’episodio dell’incendio: la follia entra allora in dialettica con l’eros, il processo con la difficile rieducazione. Figure perfette di personaggi minori si associano ai due ragazzi protagonisti. Gli psichiatri, i fratelli di Jade, sua madre Ann e le altre figure narrative ricevono una caratterizzazione mai scontata, sempre acuta, pungente, che resta nella memoria fino a farle quasi male, attraverso strumenti di cui stiamo perdendo noi stessi memoria, come la lettera o la telefonata. Non cercate una logica dove questa non può esserci, perché mai stata negli intendimenti. “Allora capii che ero entrato a far parte della vasta comunità dei condannati, uomini e donne: l’amore s’era contorto in me precipitandomi in un caos.” Così, con le parole di David, fareste bene ad avvicinarvi a questo libro.

Scott Spencer, Un amore senza fine, Sellerio, Palermo 2015

Sacrificio per la vittoria

Anche questa volta il fiuto del lettore “forte” non mi ha tradito. Magnifici perdenti è un libro in crescendo che si svolge su due tracce: il ciclismo professionistico di Solomon e il suo amore per Liz, ricercatrice genetista, che vede nell’attività del marito qualcosa di molto vicino alle leggi biologiche che studia. La storia è quella di un Tour de France: tappe di montagna per scalatori, tappe di pianura per velocisti, giornate di riposo, strategie di squadra, serate in albergo, scelte tecniche, pioggia, vento, notizie e ordini di squadra nell’auricolare via radio, tecnologia al servizio della resistenza fisica sempre sul delicato confine oltre il quale si va in rosso, fatica sempre al limite, sforzo sempre al massimo, sofferenza per la gloria, sacrificio. I personaggi sono quelli di una squadra di categoria élite, il livello più alto del professionismo. Il contesto narrativo è, da una parte, seguendo il primo dei due binari della nostra traccia, quello internazionale di una squadra professionistica moderna, dei compagni di squadra di Solomon, del suo capitano Fabrice, del suo direttore sportivo Rafael, del suo compagno di stanza Tsutomo, del suo fisioterapista, il Macellaio, del medico Marc, e altri corridori; quello intimo della sua storia con Liz e il figlio Barry, dall’altra. Non manca l’ironia nelle boutade di Fabrice, come nella presentazione del piccolo di statura, ma sempre troppo grande negli intenti, Rafael. Sullo sfondo di tutto questo una morale terribile, quella di sempre nel ciclismo, che non dà scampo e che ha segnato questo sport da quando si pratica: diversamente da quanto si verifica altrove, qui non conta il piazzamento, chi arriva primo assurge all’empireo di gloria, chi arriva secondo sarà sempre il vero sconfitto. Solomon lavora per Fabrice. Deve tutto a Fabrice, anche l’essere stato scelto come componente della squadra per quel Tour, nonostante i test in allenamento dai risultati poco incoraggianti. La ‘morale’ pone su tutto il suo sigillo: Fabrice deve vincere, non deve assolutamente accontentarsi di entrare nella top ten, i primi dieci in classifica generale, tanto meno essere secondo. E perché vinca, non a Solomon, non a Tsutomo, non a Sebastian, non agli altri compagni di squadra, ma a Liz verrà chiesto il sacrificio del magnifico perdente. Solomon in cima a una salita passa accanto a uno striscione su cui è scritto: “Dopati, tornatevene a casa!”. E il sacrificio, nell’utopia continua della vittoria, avrà un prezzo terribile. La tensione narrativa sale piano piano fino alla fine; e vi assicuro che, se amate questo sport per quello che è, vi commuoverete.

Joe Mungo Reed, Magnifici perdenti, Bollati Boringhieri, Torino 2018

Grado sotto la pioggia

Di professione psicoterapeuta, di passione scrittrice, trascorre parte della sua vita a Grado e lì ambienta i suoi romanzi. Di Andrea Nagele ecco Grado sotto la pioggia, un thriller che ha nell’uso ben calibrato della suspense e nella caratterizzazione dei personaggi forse il suo punto di forza. La vita della cittadina è sconvolta dalla morte di una donna: da qui prende avvio un romanzo che non ha come vero protagonista un commissario che indaga, come ci aspetteremmo, ma un insieme di persone direttamente o indirettamente coinvolte nella vicenda. Non solo: la donna deceduta non è nemmeno fondamentale per l’esito della storia, la cui vera protagonista è un’altra donna che si troverà legata alla vicenda per ragioni puramente occasionali. Maddalena Degrassi, commissario di polizia di Grado, è presente anche in altri romanzi della Nagele, ma questa non è la storia di un’indagine, è la storia di un amore deluso, quello di Franzisca che cerca riscatto, di Laura, una bambina che desidera essere ascoltata come fosse un adulto, di Angelina Maria, un’anziana signora, vittima della psicosi, che ha un segreto bellissimo da nascondere, e di altri. Insomma, in poche pagine, si condensano schizzi di umanità che lasciano alla fine della lettura una piacevole impressione nel lettore.

A. Nagele, Grado sotto la pioggia, Emons, Roma 2018

Il romanzo del perdono

Esattamente dieci anni fa tre uomini incappucciati dichiararono pubblicamente che l’Eta avrebbe rinunciato alla lotta armata, esattamente come sei anni prima aveva deciso l’Ira in Irlanda. Si apre la stagione di quello che dovrebbe essere il perdono, parola chiave per la comprensione del romanzo di Aramburu. È ambientato in un piccolo centro dei paesi baschi, non lontano dal tratto di costa su cui si trova San Sebastian; ha come protagoniste due donne, l’una madre di un terrorista in carcere e l’altra vedova di una sua presunta vittima. Attorno alle vicende di Mirén e Bittori quelle delle loro famiglie, dei figli, i cui destini diversi, i cui orizzonti diversi, i cui diversi dolori aprono al lettore un mondo solitamente ritenuto appartato, chiuso nel suo euskera, nella difesa di un’identità che troppo ha sofferto per le sovrapposizioni ideologiche che il contesto internazionale aveva per decenni consentito, anche palesemente appoggiato. L’ideologia in questa narrazione divide assai meno dell’invidia, dell’odio sociale, delle delusioni personali, professionali, passionali. Non abbiamo paesaggi, non abbiamo contesti esterni da analizzare, ma soltanto uomini e donne con la forza delle loro personalità, delle loro passioni, delle loro, spesso deluse, aspirazioni; e con loro le diverse sfaccettature che il dolore assume, sempre alla ricerca di un traguardo che appare impossibile, come è appunto quello del difficile perdono. Non è facile chiedere aiuto quando si ha bisogno, si sa; ancor più difficile è perdonare quando il complesso di motivazioni che ha portato alla rottura non riceve la stessa interpretazione dalle due parti in causa, peggio ancora quando ci si chiede persino se ci siano delle reali motivazioni. Non so se a questa domanda la lettura del volume potrà dare una risposta, sicuramente il tentativo di pervenire al traguardo non può non essere apprezzato.

F. Aramburu, Patria, Guanda, Milano 2017

Il viaggio come esperienza letteraria

Le testimonianze di Apollonio Rodio, Seneca, Petronio, Apuleio sono soltanto il punto di partenza per una riflessione che inizia dai definiti traguardi omerici e approda agli indefiniti “smarrimenti” della letteratura contemporanea

[Ho il piacere di pubblicare su questo mio sito il pregevole saggio del mio ex alunno Filippo Brigliadori, presentato come elaborato sostitutivo della seconda prova scritta all’Esame di Stato 2020]

Il viaggio è uno dei paradigmi più ricorrenti, uno dei temi più fortunati di tutta la storia della letteratura, che ben si adatta a rappresentare, sotto forma di metafora, il percorso della vita, concepita come itinerario a tappe, in cui si incontrano in egual misura difficoltà e soddisfazioni. Esso conserva questo ruolo privilegiato sin dagli albori della civiltà occidentale, tanto che una delle sue prime testimonianze letterarie, come l’Odissea, trova proprio nel viaggio il motivo portante.       

Ma forse proprio per questo, si tende spesso a dimenticare che le peregrinazioni di Odisseo sono mosse unicamente dalla necessità: il suo è un νόστος, un viaggio di ritorno in patria dalla guerra di Troia, e il raggiungimento di Itaca rimarrà sempre il proprio unico obiettivo. Dunque  quella curiositas che sarà il motore dei viaggi di molti eroi successivi e che spesso porta ad individuare nello stesso Odisseo l’archetipo dell’uomo occidentale, nella sua πολυτροπία la brama di conoscere, un afflato di natura quasi esistenziale, è in realtà riscontrabile solo raramente nel poema. Un caso è il momento in cui, nel celebre passo di Polifemo, unico tra i compagni e pur consapevole del pericolo a cui sarebbero andati incontro, prende la decisione di nascondersi all’interno dell’antro del Ciclope per scoprire a chi esso appartenga.

Hom. Od. 9.224-229

ἔνθ᾽ ἐμὲ μὲν πρώτισθ᾽ ἕταροι λίσσοντ᾽ ἐπέεσσιν

τυρῶν αἰνυμένους ἰέναι πάλιν, αὐτὰρ ἔπειτα

καρπαλίμως ἐπὶ νῆα θοὴν ἐρίφους τε καὶ ἄρνας

σηκῶν ἐξελάσαντας ἐπιπλεῖν ἁλμυρὸν ὕδωρ:

ἀλλ᾽ ἐγὼ οὐ πιθόμην, ἦ τ᾽ ἂν πολὺ κέρδιον ἦεν,

ὄφρ᾽ αὐτόν τε ἴδοιμι, καὶ εἴ μοι ξείνια δοίη.

Allora i compagni mi chiesero di prendere 

anzitutto il formaggio e andar via, e poi, 

cacciati sveltamente i capretti e gli agnelli dai recinti 

sulla nave veloce, di navigare sull’acqua salata: 

ma io non volli ascoltare – e sarebbe stato assai meglio – 

per poterlo vedere, e vedere se mi avrebbe ospitato. 

L’altro unico episodio in cui emerge il desiderio di sapere è tratto dal dodicesimo libro, quando Odisseo chiede ai propri compagni di legarlo con delle funi all’albero maestro della nave per poter ascoltare il canto delle Sirene senza correre alcun pericolo. 

Hom. Od. 12.184-194

δεῦρ᾽ ἄγ᾽ ἰών, πολύαιν᾽ Ὀδυσεῦ, μέγα κῦδος Ἀχαιῶν,

νῆα κατάστησον, ἵνα νωιτέρην ὄπ ἀκούσῃς.

οὐ γάρ πώ τις τῇδε παρήλασε νηὶ μελαίνῃ,

πρίν γ᾽ ἡμέων μελίγηρυν ἀπὸ στομάτων ὄπ᾽ ἀκοῦσαι,

ἀλλ᾽ ὅ γε τερψάμενος νεῖται καὶ πλείονα εἰδώς.

ἴδμεν γάρ τοι πάνθ᾽ ὅσ᾽ ἐνὶ Τροίῃ εὐρείῃ

Ἀργεῖοι Τρῶές τε θεῶν ἰότητι μόγησαν,

ἴδμεν δ᾽, ὅσσα γένηται ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ.

ὣς φάσαν ἱεῖσαι ὄπα κάλλιμον: αὐτὰρ ἐμὸν κῆρ

ἤθελ᾽ ἀκουέμεναι, λῦσαί τ᾽ ἐκέλευον ἑταίρους

ὀφρύσι νευστάζων: οἱ δὲ προπεσόντες ἔρεσσον.

“Vieni, celebre Odisseo, grande gloria degli Achei, 

e ferma la nave, perché di noi due possa udire la voce.

Nessuno mai è passato di qui con la nera nave 

senza ascoltare dalla nostra bocca il suono di miele, 

ma egli va dopo averne goduto e sapendo più cose. 

Perché conosciamo le pene che nella Troade vasta 

soffrirono Argivi e Troiani per volontà degli dei;

conosciamo quello che accade sulla terra ferace”. 

Così dissero, cantando con bella voce: e il mio cuore 

voleva ascoltare e ordinai ai compagni di sciogliermi, 

facendo segno cogli occhi: ma essi curvi remavano. 

Le Sirene parlano al cuore degli uomini e li seducono affermando di poter esaudire i loro più intimi desideri: qui promettono a Odisseo la conoscenza. Ma a ben vedere, essa non va intesa in senso filosofico, ma ha un’accezione molto più immediata e, soprattutto, personale. Egli vuole ascoltare perché loro conoscono “ciò che avviene sulla terra ferace” (ὅσσα γένηται ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ) e di conseguenza ciò che sta accadendo a Itaca. 

Per poter meglio comprendere il vero approccio di Odisseo al viaggio, possiamo fare riferimento al libro quindicesimo, dedicato all’incontro tra il protagonista e il porcaio Eumeo, che lo invita nella propria capanna a ristorarsi:

Hom. Od. 15.340-345

τὸν δ᾽ ἠμείβετ᾽ ἔπειτα πολύτλας δῖος Ὀδυσσεύς:

‘αἴθ᾽ οὕτως, Εὔμαιε, φίλος Διὶ πατρὶ γένοιο

ὡς ἐμοί, ὅττι μ᾽ ἔπαυσας ἄλης καὶ ὀϊζύος αἰνῆς.

πλαγκτοσύνης δ᾽ οὐκ ἔστι κακώτερον ἄλλο βροτοῖσιν:

ἀλλ᾽ ἕνεκ᾽ οὐλομένης γαστρὸς κακὰ κήδε᾽ ἔχουσιν

345ἀνέρες, ὅν τιν᾽ ἵκηται ἄλη καὶ πῆμα καὶ ἄλγος.

E gli rispose il divino Odisseo che molto sofferse: 

“Eumeo, possa tu essere caro al padre Zeus come sei caro 

a me: al vagabondaggio e ad un’atroce miseria mi togli. 

Non v’è cosa peggiore della vita raminga per i mortali: 

per il ventre funesto soffrono miserabili pene 

gli uomini ai quali tocchi vagabondaggio, pena e dolore”. 

Analizzando il passo da un punto di vista lessicale, si nota la presenza di alcuni termini ricorrenti in tutto il poema. Intanto l’epiteto πολύτλας (“che molto ha sofferto”) che appare riferito ad Odisseo sin dall’Iliade, quindi i sostantivi ἄλης e πλαγκτοσύνης, etimologicamente legati ai verbi  ἀλάομαι e πλάζω, con lo stesso significato di “vagare”, “errare”, verbi presenti anche nel proemio 

e in entrambi i casi impiegati per definire il viaggio di Odisseo, che si configura così come una circostanza passiva: l’eroe non ha preso di propria volontà la decisione di prolungare l’itinerario verso casa, ma vi è stato costretto dall’ira degli dei e particolarmente da quella di Poseidone, che l’ha voluto punire per la tracotanza dimostrata nei confronti del figlio Polifemo. Il viaggio che Odisseo, più che a compiere, si trova a subire rappresenta dunque un’esperienza sostanzialmente negativa, che porta come uniche conseguenze “pena” e “dolore” (πῆμα καὶ ἄλγος) e il cui prezzo da pagare è la perdita dell’identità: si definisce Nessuno per ingannare il Ciclope, mente in continuazione per celare chi è veramente, giunge a essere uno ξένος persino nella propria casa. 

A sottolineare quest’ultimo elemento e ad adattare il personaggio di Ulisse alla nuova sensibilità novecentesca sarà Giovanni Pascoli, all’interno dei Poemi conviviali. Il poeta immagina che, ormai vecchio, Odisseo ripercorra il proprio viaggio per cercare di coglierne il senso profondo, ma si accorge che in realtà Polifemo è solo un vulcano, che al posto delle Sirene c’è solo un gruppo di scogli. Ulisse assurge così a emblema dell’uomo moderno, davanti al quale gli ideali in cui aveva sempre ciecamente creduto crollano inesorabilmente e che si trova ora privo di ogni possibile punto di riferimento.    

Profondamente diversa è invece l’immagine che di Ulisse restituisce il crepuscolare Guido Gozzano, mettendo in atto all’interno de “L’ipotesi”, da cui è tratto il seguente breve estratto, un completo ribaltamento parodico: 

Gozzano, L’ipotesi, vv. 52-59    

Il Re di Tempeste era un tale

che diede col vivere scempio

un bel deplorevole esempio

d’infedeltà maritale,

che visse a bordo d’un yacht

toccando tra liete brigate

le spiaggie più frequentate

dalle famose cocottes…

Gozzano immagina di aver sposato la signorina Felicita, protagonista dell’omonimo celebre componimento, e di narrarle le gesta di Ulisse nel modo più semplice e immediato possibile, trasformando così il lungo e periglioso viaggio dell’Odissea in una vacanza all’insegna del lusso e del piacere, trascorsa tra “yacht” e “cocottes”.

Cambiando decisamente periodo, ma lasciando intatta la vis satirica e il gusto per l’ironia, è d’obbligo citare il Satyricon di Petronio e le incredibili vicissitudini che devono affrontare i protagonisti del romanzo. In questo senso risulta di particolare interesse un episodio collocato verso la fine del romanzo, o perlomeno della parte del romanzo a noi pervenuta. Encolpio, Eumolpo e Gitone si sono imbarcati di nascosto su una nave che scoprono appartenere al terribile Lica di Taranto, che viene definito come “Cyclops et archipirata” (101.5) ed Eumolpo incoraggia gli amici dicendo di fingere di essere nell’antro di Polifemo (“fingite nos antrum Cyclopis intrasse”,101.7). Questi riferimenti ci permettono di capire che Petronio vuole offrire ai propri lettori un’elegante e raffinata parodia del modello odissiaco. Le due vicende presentano infatti soluzioni narrative analoghe, ad esempio Eumolpo e Odisseo conducono inconsapevolmente i compagni in una trappola, i due antagonisti si manifestano solo in un secondo momento, atterrendo gli eroi, la nave è descritta nello stesso modo con cui Omero descrive l’antro del Ciclope: enorme, con un solo ingresso, da cui è impossibile fuggire senza essere notati. Per di più una delle soluzioni suggerite da Eumolpo per uscire da questa terribile situazione ricorda da vicino l’espediente usato da Odisseo (“ego vos in duas iam pelles coniciam vinctosque loris inter vestimenta habebo”, 102.8). Inoltre, a ragion veduta, possiamo affermare che la funzione di questo episodio sia quella di introdurre una sezione del romanzo che ricalca in maniera evidente le avventure omeriche: prelude infatti a un viaggio per mare e a un naufragio che  farà approdare i personaggi in terre lontane e sconosciute.

Il tema del viaggio è al centro anche dell’altro grande romanzo della letteratura latina, la Metamorfosi di Apuleio.

In questo caso l’intera vicenda è innescata dalla curiositas del protagonista: Lucio, giunto in Tracia, luogo ancestrale e fulcro delle arti magiche nella cultura antica, da cui egli è irresistibilmente affascinato, sperimenta l’unguento della maga Panfila e viene tramutato in asino. A questo punto, inizia una serie di complesse avventure e peripezie, che hanno come obiettivo il raggiungimento del perdono finale. Si comprende così che il viaggio, per Apuleio, non ha una valenza puramente geografica o formativa, ma è anzi principalmente allegorico. Al termine del romanzo infatti Lucio viene iniziato al culto isiaco, di cui diventa addirittura gran sacerdote a Roma. È anzi grazie alla sua conversione all’Isismo che può finalmente ritornare a essere uomo, come se tutte le disavventure capitate avessero come unico fine quello di permettere il raggiungimento e la rivelazione della Verità, qui rappresentata dai culti misterici, che proprio a partire dal II secolo conoscono una rapida diffusione in tutti i territori dell’Impero. 

Completamente diversa e sostanzialmente negativa è invece la concezione senecana del viaggio, che viene visto e interpretato in termini filosofici. È significativo in questo senso un passo delle Epistulae morales in cui Lucilio lamenta di non essere riuscito a vincere la propria inquietudine interiore, nemmeno intraprendendo un lungo viaggio: sperava infatti che conoscendo nuovi luoghi e nuove persone il proprio animo si sarebbe alleggerito. 

Sen. Ep. Luc. XXVIII

Hoc tibi soli putas accidisse et admiraris quasi rem novam quod peregrinatione tam longā et tot locorum varietatibus non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? Animum debes mutare, non caelum. […] Quid terrarum iuvare novitas potest? quid cognitio urbium aut locorum? in irritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis. Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus.

Credi che questo sia capitato a te solo e consideri con meraviglia, come situazione strana, il fatto che con un viaggio così lungo e con tante varietà di luoghi non hai scosso via la tristezza e la pesantezza della mente? Devi cambiare animo, non clima. […] Che può giovare la novità dei luoghi? Che la conoscenza di città o di luoghi? Codesta agitazione finisce nell’inutilità. Ti chiedi perché codesta fuga non ti giovi? Tu fuggi con te stesso. È da deporre il carico dell’animo: prima nessun luogo ti piacerà.

“Animum debes mutare, non caelum” è la sententia che riassume l’intera lettera: la sofferenza non risiede nel luogo, ma all’interno dell’anima. 

Una massima che Seneca sembra riprendere dall’Epistola 1.11 di Orazio, che già aveva affrontato un tema simile. Il poeta di Sulmona esalta infatti l’importanza di un angulus, di un luogo in cui poter riflettere e trovare finalmente la tranquillità, in cui vincere quella inertia che sembra irrimediabilmente perseguitare l’uomo. 

Hor. Epist. 1.11 25-27

[…] nam si ratio et prudentia curas,

non locus effusi late maris arbiter aufert;

caelum non animum mutant qui trans mare currunt.

Infatti se ragione e saggezza tolgono le ansie, 

non (le toglie) un luogo che domina il mare che si estende ampiamente; 

clima, non stato d’animo cambiano quelli che corrono oltre il mare. 

Altra fondamentale opera classica che trova nel viaggio il principale motore della vicenda è rappresentata dalle Argonautiche, incentrate sul viaggio di andata e ritorno di Giasone dalla Colchide, alla ricerca del mitico vello d’oro. Se Apollonio Rodio è sicuramente debitore di Omero per l’impostazione generale del poema e per gli espedienti narrativi impiegati, risulta allo stesso modo evidente l’influsso della nuova cultura ellenistica: nel gusto per la digressione, nella maggiore concisione descrittiva, ma soprattutto nella caratterizzazione dell’eroe. A differenza di quanto avviene nell’Odissea, di Giasone vengono messe in luce la sconcertante antieroicità, la sua continua inadeguatezza, la completa mancanza di iniziativa. Apollonio, grazie al suo interesse alle dinamiche private e alla prevalenza della dimensione umana su quella divina,  riesce appieno nel suo obiettivo di rinnovamento del poema epico, traghettandolo così verso la modernità e vero il mondo latino.

E proprio l’impresa degli Argonauti costituisce uno dei più importanti sostrati culturali del Paradiso dantesco, non tanto per la quantità di riferimenti presenti nella cantica, quanto per la capitale importanza dei momenti in cui il mito di Giasone viene richiamato. Il primo caso è tratto dall’incipit del II canto, che può essere considerato vero e proprio secondo proemio al Paradiso:

Par. II, vv. 1-18

O voi che siete in piccioletta barca,                                 Voialtri pochi che drizzaste il collo

desiderosi d’ascoltar, seguiti                                            per tempo al pan de li angeli, del quale

dietro al mio legno che cantando varca,                           vivesi qui ma non sen vien satollo

tornate a riveder li vostri liti:                                            metter potete ben per l’alto sale

non vi mettete in pelago, ché forse,                               vostro navigio, servando mio solco

perdendo me, rimarreste smarriti.                               dinanzi a l’acqua che ritorna equale.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse;                   Que’ glorïosi che passaro al Colco

Minerva spira, e conducemi Appollo,                               non s’ammiraron come voi farete,

e nove Muse mi dimostran l’Orse.                               quando Iasón vider fatto bifolco.

Dante paragone dunque lo stupore dei propri lettori davanti alla nuova materia di cui si accinge a cantare a quello che i compagni di Giasone provarono quando, giunti in Colchide, lo videro “fatto bifolco”, diventato cioè un contadino, riferendosi a una delle prove che l’eroe dovette passare per impossessarsi del vello d’oro e che consistette nell’arare un campo mai arato prima servendosi di tori dagli zoccoli di bronzo. Non è un caso poi che ritorni ancora una volta la metafora del mare e della nave per descrivere il viaggio di Dante, che qui è messo in evidente relazione con quello degli Argonauti: entrambi attraversarono paesi ignoti per raggiungere un determinato obiettivo, il vello in un caso, la visio Dei nell’altro. 

Il tema argonautico ritorna poi nel momento culminante dell’intero poema: il canto XXXIII.

Par. XXXIII, vv.94-96

Un punto solo m’è maggior letargo

che venticinque secoli a la ’mpresa

che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

Dante si trova dinanzi al problema di dare ai propri lettori un’idea della sensazione da lui provata trovandosi dinanzi a Dio: un’emozione ineffabile a tal punto che i venticinque secoli che secondo la storiografia medievale erano passati dall’impresa di Giasone risultano essere più chiari di un unico istante (“un sol punto m’è maggior letargo”). Per fare questo, crea una delle immagini più evocative e dense di significato e di bellezza poetica di tutta la Commedia: immagina lo stupore del dio Nettuno, che nella mitologia classica è sempre associato all’ira e allo sdegno, quando dalle profondità del mare ammira il riflesso della nave Argo, la più grande mai costruita dall’uomo; esprimendo al contempo la meraviglia di Dante davanti all’imago Dei e quella di Dio davanti alla straordinaria impesa che Dante stesso ha appena portato a termine.   

Bibliografia

Valentina Lisi, Il paradigma del viaggio in Luciano di Samosata, 2014

Pietro Giannini, Il viaggio dell’avventura: Odisseo, all’interno di Terra Marique: ricerche sul tema del viaggio nella letteratura classica, 2014

Paolo Fedeli, Petronio: il viaggio, il labirinto, all’interno di Materiali e discussioni per l’analisi dei testi classici, 2000

Vittoria Orilia, Giasone e il mito degli Argonauti nella Commedia, 2017 

Filippo Brigliadori

Nato per fuggire

Il buono, la vittima, è l’io narrante, di una vicenda che ha per protagonista Jack Burdette, il cattivo, naturale e genuino figlio della città di Holt, Colorado, crudo personaggio dell’America profonda in cui l’assenza di scrupoli è direttamente proporzionale alla sua descrizione: immenso energumeno che con forza e astuzia arraffa tutto quello che vuole, denaro e sentimenti, insuperabile nell’arte di fuggire senza lasciar traccia di sé; e ne fa quello che vuole di ciò che prende. Lo stile asciutto di Haruf non è soltanto quello che lo ha reso celebre in sé e per sé; è l’unico che si addice a narrare di queste anime che saranno derubate di tutto.

K. Haruf, La strada di casa, NNE, Milano 2020

Derive

Sète, cittadina della Francia mediterranea, porto di pesca, è il teatro su cui va in scena l’intreccio delle quattro storie dell’anziana madre Louise e dei suoi tre figli Fanny, Albin e Jonas. Su tutto aleggia la figura del defunto padre Armand, del suo lavoro di pescatore, del suo passato di esule dall’Italia devastata dalla guerra. Intorno a tutto si dispone il mare, spazio vivo che si prende vite. Carattere che accomuna i quattro è la complessità di una vicenda che nei suoi andirivieni nel tempo soltanto nel finale trova la sua pace. Louise organizza una cena per radunare i tre figli. La giornata si trascorre nei ricordi di vite che, per una ragione o per l’altra, sono diverse forme di una deriva: deriva dalla famiglia, dal padre, dalla sessualità, dal lavoro, dai figli. Quattro personaggi che sono quattro protagonisti di vicende diverse, ma spesso complementari. Se non lo fossero, Louise non potrebbe esultare alla fine per essere riuscita a riunirli.

Jean-Baptiste Del Amo, Il sale, Neo edizioni, Castel di Sangro 2013

Un ragazzo italiano

Non sono convinto di quello che un giorno a un amico dissi di questo libro, che cioè può essere pienamente compreso solo da chi ha vissuto di persona o da vicino gli anni del primo dopoguerra e della ricostruzione, non ancora del vero boom economico, quelli, insomma, in cui il boom era ancora in fase embrionale. Non ne sono convinto perché Ragazzo italiano di Gian Arturo Ferrari può anche essere letto come un esempio particolare di romanzo di formazione; e allora trova le sue ragioni in un lessico che ti aiuta a crescere insieme al protagonista Ninni/Piero, in uno stile che tratteggia personaggi come li vede prima il Ninni bambino, poi il Ninni preadolescente che tende al Piero, infine il Piero ragazzo che compie i suoi inevitabili riti di passaggio.

Ma un romanzo vero non è solo una storia; è anche un ambiente. E Ragazzo italiano allora può essere letto anche come romanzo d’ambiente, perché mai secondario è lo spazio in cui i personaggi agiscono, che sia l’originario paese di Querciano nelle colline emiliane con i suoi riti e i suoi lenti cambiamenti tra le resistenze della tradizione cattolica e i venti socialisti e comunisti, che sia l’anonima Zanigrate nella piana lombarda, che sia la poliedrica e borghese Milano, in bilico tra il passato dei suoi tram e l’irrompere delle prime auto. Questi tre spazi hanno le loro stanze, che possono essere le camere della casa di Querciano, come le aule della scuola media di Milano prima, del ginnasio e del liceo classico poi. Hanno i loro personaggi: se sfumata e sempre ottenebrata dalla figura della nonna è quella della mamma, meno sfumata e assai complessa è quella del babbo, guida mai riconosciuta di una di quelle tante famiglie senza amore che nel suo tran tran urbano realizza il nuovo epos della modernità; se sfumata è la figura della sorella Lella, decisamente forti e ben caratterizzati appaiono personaggi come il maestro elementare e i docenti successivi. Personaggi sempre vivi, proprio perché complessi e veri. Personaggi che non sono mai tipi. Scandito in tre parti coincidenti con i periodi scolastici, il bambino alle elementari, il preadolescente alle medie, il ragazzo al liceo classico, Ragazzo italiano è comunque dominato dalla figura del protagonista Ninni, che poi diventerà progressivamente Piero, crescendo in un’Italia che cerca nuovi obiettivi, pur non riuscendo mai a risolvere l’atavico dilemma se le conviene o no recidere i vincoli con un passato non sempre visto come fastidioso e ingombrante, oppure incamminarsi serena e gaudente verso la realizzazione del sogno che l’attende.

Gian Arturo Ferrari, Ragazzo italiano, Feltrinelli, Milano 2020

La vita di un colibrì

Un’esistenza dalle caratteristiche antieroiche, potremmo dire, soprattutto nel finale. Una vita come può essere quella di tante persone del nostro tempo, in cui resilienza significa anche resistenza alle tentazioni del vittimismo e del languore di fronte alle sberle lasciate dal tempo. Ne è protagonista Marco Carrera, detto il colibrì per la sua bassa statura (che una cura ormonale comunque correggerà). Si guadagna la vita come oculista, tra la sua casa in città a Firenze e quella al mare in Maremma. Il colibrì è un romanzo la cui principale caratteristica sul piano della struttura sono i complessi salti temporali: un procedere e un retrocedere nel tempo ormai così frequente nella narrativa da essere diventato più che una moda, spesso un vizio, per chi non lo riesce a controllare in modo sagace. Veronesi non cade nella trappola, perché il lettore attento sa come gestire questa architettura che copre la vita intera di Marco Carrera, dall’infanzia con i genitori Letizia e Probo, attraverso varie prove dell’esistenza, fino alla fine. Un matrimonio finito male, vite fragili che cercano rifugio nella psicanalisi, tragedie importanti che puntellano la sua vita, una relazione a distanza con una donna a Parigi, le cui lettere in corsivo danno il ritmo alla narrazione. Oltre ai personaggi, principalmente raccolti nel nucleo familiare, tanti sono i temi su cui la lettura invita a riflettere: il dolore su tutti. Dolore nella mente di Marina, prima moglie di Marco, e in quella della sorella Irene. Dolore nel corpo per altri. Dolore nel cuore per il distacco dal fratello Giacomo. Dolore che porterà via a Marco tanti affetti, per strade differenti. E nel dolore si spegnerà il racconto che vive della forza di un protagonista che come tanti uomini del nostro tempo deve fronteggiare un disagio che è totale perché unisce corpo e anima, perché avvolge nelle docili garze di una terapia narrativa i frammenti devastati di un gruppo di persone che il tempo fa di tutto per disunire, ma alla fine troveranno l’occasione per ritrovarsi. Ma chi è il vero protagonista? Esiste un protagonista? Marco lo è davvero? È lecito chiederselo, non foss’altro perché nel procedere del racconto prende sempre più campo, pagina dopo pagina, un altro personaggio che trovo straordinario: la nipote Miraijn che vive con lui e che avrà il compito di consegnare il messaggio del racconto. Lo consegnerà con la sua misteriosa bellezza orientale, con il mistero dei suoi occhi a mandorla e con il mistero del suo nome che significa “uomo nuovo”. A lei si affida quel canto alla vita la cui bellezza non risalterebbe se non ci fosse il dolore.

Sandro Veronesi, Il colibrì, Nave di Teseo, Milano 2019

Vagabondare

Lo si chiama patchwork narrativo. Preferisco chiamarlo, riferendomi a una struttura culturale delle mia terra e della mia città, libro a mosaico. Si tratta de I vagabondi della scrittrice polacca, premio Nobel per la letteratura, Olga Tokarczuck. Scritti sul tema del viaggio, dalla forma del breve saggio o della pagina riflessiva, si intrecciano con storie vere, che hanno un proprio elementare tessuto narrativo, quello usuale nel racconto lungo. I protagonisti sono i più disparati: Anuška, una meravigliosa tessera di un difficile puzzle psicologico, abitante nella periferia di Mosca nell’epoca postcomunista, che perde il riferimento della sua famiglia – un marito assente impegnato per lunghi periodi lontano da casa e un figlio disabile che necessita di continui viaggi e file in farmacia – e si trova, apparentemente senza una ragione, associata a una senzatetto che tutti i giorni vede cantare alla stazione della metro; oppure il rappresentante di libri Kunicki alla ricerca della spiegazione della misteriosa scomparsa della moglie e del figlio durante una vacanza in Croazia; la sorella di Chopin che ne riporta il cuore in patria, estratto dal corpo, lavato e conservato per il viaggio dal medico; l’anatomista fiammingo del XVII secolo Philip Verheyen, scopritore del tendine d’Achille, alle prese con l’ossessione della conservazione delle parti dei corpi da studiare e della propria gamba amputata. Un vero caleidoscopio di personaggi accomunati dall’essere alla ricerca e in viaggio, alla ricerca di un posto in cui possibilmente rinascere e realizzare i sogni di una vita come tante. Il tutto espresso con lo stile assolutamente originale di una prosa dall’afflato che è stato definito quasi mistico, quello che alla Tokarczuk è giustamente valso il massimo riconoscimento letterario. Per il lettore comune, che facilmente si distrae, tendono a perdersi, invece, le brevi pagine riflessive e quasi saggistiche, inserite tra queste storie che appaiono, al confronto, ariose nel loro sviluppo narrativo; eppure, il meglio del libro a mio parere è proprio qui. Sono svariate decine, tutte sul tema del viaggio, o meglio, per attenersi al titolo, del vagabondaggio. Sceglierne alcune sarebbe qui impossibile. Mi limito a concludere con una bella citazione tratta proprio da una di queste pagine, che affascinano proprio per la loro incisività: “Ogni volta che parto per un viaggio scompaio dalle mappe. Nessuno sa dove sono. Al punto di partenza o al punto d’arrivo? Esiste qualcosa che sta in mezzo?”

Olga Tokarczuk, I vagabondi, Bompiani, Milano 2019

Blog su WordPress.com.

Su ↑