Intuivano il suo stato d’animo da come veniva chiusa la porta, quando rientrava in casa, dal rumore che invadeva il vano delle scale, dalla velocità con cui egli raggiungeva l’ingresso. Lo intuivano anche dal ritmo dei passi. Quella sera il colpo fu secco. I passi per arrivare all’ascensore e per uscirne ben ritmati e rapidi. Breve il tempo tra l’arrivo dell’ascensore al terzo piano e la chiusura della porta. Diagnosi: nervosismo, cattivo umore. Ormai sapevano che non amava il venerdì sera, ancora meno il sabato e la domenica; nei giorni festivi o di vacanza scendeva al piano di sotto soltanto inquietudine. Il lunedì mattina spesso usciva addirittura canticchiando. Insomma, tutto quanto sarebbe stato anomalo altrove, lì invece, al terzo piano, era diventato naturale e scandiva i ritmi quotidiani di due pensionati, giù al secondo, a cui la vita aveva offerto la routine di un lavoro, la sicurezza di una pensione, il nido di una casa, ma nessun figlio a cui lasciarla. A compensare questo vuoto aveva pensato il condomino del piano di sopra.
Dopo quel colpo secco e quei passi rapidi Lucia e Alberto si guardarono. Rimasero in ascolto. I passi si ripetevano sempre ritmici e veloci al piano di sopra. L’acqua della doccia iniziò a sentirsi prima del solito. Né televisore, né musica. Poco dopo, mentre continuava a scorrere l’acqua in bagno, iniziò a parlare concitato al telefono. La telefonata finì. Poi solo l’acqua. Di nuovo la porta di casa. I passi verso l’ascensore e gli altri verso il portone d’ingresso non erano quelli abituali. Quando mai usciva di sera verso l’ora di cena? “Chissà …,” disse lei in piedi sulla porta della sala. “Mah … chissà,” fu l’approvazione di lui, dal divano, con il telecomando in mano. Come interpreti della sua esistenza si giudicavano infallibili. La variabile imprevista necessitava di una spiegazione.
Abitava lì da anni. Dal piano di sotto Lucia e Alberto erano stati testimoni di una vita che lo aveva lasciato orfano, lì nell’appartamento che fu dei nonni, da quando era ragazzino, per la perdita dei genitori in un incidente d’auto. Avevano aiutato i nonni in alcune di quelle nuove incombenze che il suo arrivo aveva portato in casa. Avevano assistito alla sua adolescenza di ragazzino taciturno, che passava ore a lasciar cadere matite e penne, a leggere ad alta voce pagine di latino, filosofia, storia, mentre studiava nella sua camera. Dava loro soddisfazioni. Lucia e Alberto avevano poi notato il ribaltamento dei ruoli quando, con il passare degli anni, fu lui a doversi occupare sia dei propri studi universitari sia dell’assistenza ai nonni, ai quali mancò il premio della sua laurea, che avrebbero meritato. Lucia e Alberto, testimoni di una dolente solitudine nel momento in cui in quell’appartamento, ormai troppo grande per lui, era rimasto solo, sentivano sempre gli stessi rumori. Potevano guardare l’orologio e capire in quale camera fosse. Se c’era silenzio, significava che stava o leggendo o scrivendo. Se entrava qualcuno nell’appartamento di sopra era l’agente editoriale. Erano le poche volte in cui Lucia e Alberto sentivano voci che non fossero quella del televisore o di lui che reprimeva notturni singhiozzi nel suo letto, tre metri sopra il loro. Quante volte avevano sentito scricchiolare quel letto, in un’agitazione senza requie. Accendevano la luce. Si guardavano. Si chiedevano ogni volta se fosse il caso di chiamarlo. Avevano condiviso la sua felicità quando un giorno la voce che sentirono fu di donna. Avevano sentito la passione diffondersi dalla camera da letto tre metri sopra la loro; e non solo dalla camera da letto, anche dalla cucina, dal soggiorno, dallo studio, e a tutte le ore. E ci avevano sorriso sopra. Quella voce di donna si sentiva di sera; i tacchi delle scarpe non si udivano mai prima delle sette e mezzo e mai dopo le nove del mattino. Furono ancora più felici quando quei passi iniziarono a sentirsi anche in altre ore. Un giorno in ascensore videro spuntare una fede al dito. Avevano poi assistito anche ai litigi e alle sfuriate, per anni. E i bambini, due figli: li avevano sentiti piangere di notte, zampettare sul pavimento, crescere, addormentarsi con le favole che lui nel lettone raccontava loro. Il tempo ebbe un’imprevista intermittenza. Arrivò un giorno un’ambulanza, lo portò via, ritornò dopo un mese. Si sentiva distintamente il movimento della carrozzina da una stanza all’altra. Poi quello di una camminata aiutata da bastoni o stampelle. Dopo tre mesi il ritmo dei rumori domestici del piano di sopra tornò quello consueto, ma il clima era diverso. Silenzioso. I passi più nervosi. I litigi più frequenti. Neanche un anno e videro il trasloco di lei. Infine, la devastazione della vita di lui. Quella solitudine di cui per anni Lucia e Alberto erano stati testimoni, dopo la perdita dei nonni, quando ereditò lui la casa, tornò padrona dell’appartamento al piano di sopra. Un’amara eco di dolore, non più d’amore. veniva di nuovo da quella camera lassù. Lo avevano invidiato. Ora lo compativano. Per anni si erano lamentati per le feste e le cene che organizzava di sabato sera con gli amici. Ricordavano quella con cui festeggiò la pubblicazione di un libro: non riuscirono a dormire fino alle tre di notte. La domenica mattina venne da loro con una torta e una copia del libro pubblicato, per scusarsi, dicendo che era stato un maleducato e promettendo che non sarebbe mai più successo. Lo fecero entrare. Eppure, tutto era finito con un trasloco, in un solo giorno. Lei e i bambini non si videro più. Piano piano quei silenzi incussero paura, dopo aver suscitato per lungo tempo soltanto malinconia. L’auto, che ormai serviva solo per andare al lavoro, era sempre ferma nel fine settimana, nelle vacanze, nei giorni festivi. La vedevano bene: il suo posto era proprio sotto la loro finestra. Accanto a quello c’era il loro, vuoto perché non avevano auto. In passato, quando lassù abitava una famiglia, glielo avevano lasciato, in modo che lei potesse parcheggiarvi la propria auto per manovrare comodamente con i bambini.
Non era uscito in auto, ma a piedi. Lucia verificò. L’auto era sempre lì. “Chissà …” “Mah … chissà …” Il mantra non cambiava. Alberto si mise a guardare il suo quiz televisivo. Lucia gli si sedette accanto. Quando lui era fuori, non erano preoccupati. Quando rientrava in casa, li rendeva partecipi del suo stato d’animo con i suoi movimenti. Lucia e Alberto guardavano l’orologio e sapevano che al piano di sopra si sarebbe acceso il televisore della cucina. Non si accese. Erano ancora infallibili interpreti? Dopo neanche mezz’ora rientrò. Questa volta il passo era più lento, meno cadenzato. La porta si stava chiudendo lentamente. Non si chiuse. Fu necessario un secondo tentativo. Si guardarono. Era successo ancora? Il gioco di sguardi sembrava rispondere no. Alberto scosse il capo. Lucia gli prese la mano, gesto in trent’anni di matrimonio non aveva mai dimenticato di compiere. D’animo ingenuamente romantico, pensava sempre al fatto che di sopra non ci fosse più chi compisse atti come quelli. Si sentì un rumore. Veniva dalla cucina. Erano piatti. Anche bicchieri. Si guardarono perplessi. Era ora di cena. Nelle famiglie normali questo succede. In casa loro all’ora di pranzo e a quella di cena è un rumore scontato. Anni fa succedeva anche al piano di sopra. Il loro cuore mandava segnali che la mente non riusciva a decifrare. I consueti ritmi del piano di sopra erano come improvvisamente impazziti. Altro rumore, questa volta dalla camera da letto. Sembrano armadi e cassetti. Cerca qualcosa che non trova, dimenticato da tempo?
Di nuovo la porta, chiusa con gesto sicuro, non nervoso. Passi veloci, non pesanti. Questa volta l’auto parte. Lucia va alla finestra. Si guardano. Lui si stringe nelle spalle, lei allarga le braccia. Passa mezz’ora. Ancora i passi. Non si riesce a capire. C’è qualcosa di insolito. Non è solo. La porta si apre lentamente. Si chiude. Un lungo silenzio. Un rumore, come di qualcosa di leggero che cade per terra. Scalpiccio. In camera. Ancora rumori. Si guardano. Si alzano. Vanno avanti e indietro. Seguono i rumori insoliti dal piano di sopra. Colpi secchi, oggetti che cadono, rumori nuovi, nessuno parla. Ecco, un suono acuto. Voce di donna? “Chissà …” “Mah … chissà …” Il campione del quiz televisivo preferito da Alberto ha vinto ancora. Si sente parlare in cucina. Voce di donna? Si guardano negli occhi.
“Ti andrebbe di uscire stasera?” chiese Alberto.“Certo che sì,” rispose Lucia. Si prepararono e uscirono. Nel pianerottolo e nell’ascensore si sentì un profumo nuovo, delicato, pensò Alberto. La dolcezza che mancava, pensò Lucia. Un premio meritato. Quando il portone si fu chiuso alle loro spalle, dalla strada volsero tutti e due gli occhi in alto, verso il terzo piano. Tutte le luci dell’appartamento erano accese. Indirizzarono lo sguardo verso il lato del condominio dove si trovavano i posti auto. Il loro era nuovamente occupato. “Chissà …” disse lei. Alberto non rispose. Pensò un attimo. Arrivò il taxi. Le aprì lo sportello e disse: “No, non diciamolo più.”
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